L’uccisione di tre soldati americani in una base al confine tra Siria e Giordania nel fine settimana ha tutte le sembianze dell’episodio di sangue che potrebbe far salire a un nuovo pericoloso livello la crisi in corso in Medio Oriente. L’amministrazione Biden ha promesso ritorsioni e indicato senza indugi che i responsabili dell’operazione vanno ricercati a Teheran. L’escalation degli attacchi contro le installazioni militari USA sono però la diretta conseguenza della guerra criminale condotta da Israele nella striscia di Gaza e, ancora prima, di una presenza americana nella regione, soprattutto in Siria e in Iraq, sempre meno sostenibile. Per entrambe le questioni, il prezzo che Washington deve pagare aumenterà inevitabilmente nel prossimo futuro, al di là della risposta che verrà eventualmente data al blitz dei giorni scorsi.

La sentenza emessa dalla Corte Internazionale di Giustizia ha suscitato reazioni diverse, come prevedibile e previsto. E’ innegabile che l’impatto politico complessivo della sentenza riguardi la condotta di Israele, che infatti ha duramente criticato la decisione dei giudici dell’Aja, non meno e non diversamente da quanto fatto verso le stesse Nazioni Unite, delle quali il tribunale internazionale è importante strumento. Alcuni l’hanno definita una sentenza salomonica, ma lo si può dedurre solo da una lettura frettolosa.

Uno degli effetti della guerra di Israele contro la popolazione palestinese a Gaza è la destabilizzazione dell’equilibrio strategico, già di per sé precario, che in Medio Oriente garantisce la superiorità e l’influenza degli Stati Uniti sulle vicende della regione. Uno dei fronti su cui agisce questo processo, che sta già penalizzando Washington, è quello iracheno-siriano, dove i militari americani sono quasi quotidianamente presi di mira dai bombardamenti delle milizie sciite filo-iraniane che appoggiano la Resistenza palestinese nella striscia.

Con il sostegno incondizionato al genocidio in corso, l’amministrazione Biden sta andando incontro all’inevitabile epilogo dell’impegno militare USA in Siria e in Iraq. La presenza americana, già di per sé illegale quanto meno per il primo di questi due paesi, è infatti oggetto di discussioni interne alla Casa Bianca, come hanno confermato notizie circolate questa settimana anche sui media ufficiali.

Alla fine, anche il governatore della Florida, Ron DeSantis, riuscirà in qualche modo a incidere sulla campagna elettorale per le primarie del Partito Repubblicano. Non però con un successo in qualche stato o stravolgimenti del proprio staff, ma in conseguenza del suo ritiro dalla competizione, che avrà probabilmente un certo impatto sugli equilibri tra i candidati rimasti. L’annuncio è arrivato alla vigilia delle primarie in New Hampshire e dopo la presa d’atto inevitabile non solo dell’impossibilità di ambire alla nomination, ma anche di poter compere per la posizione di principale sfidante dell’ex presidente Trump.

Con l'Ucraina sconfitta, sembra prendere corpo la nuova gigantesca manipolazione politico-mediatica contro la Russia. In un comunicato stampa congiunto, Estonia, Lettonia e Lituania informano di aver concordato di dotare i loro confini con la Russia e la Bielorussia di «strutture di difesa» per contrastare eventuali minacce militari russe. I ministri della Difesa dei tre Paesi Baltici hanno firmato un accordo in base al quale «Estonia, Lettonia e Lituania nei prossimi anni costruiranno strutture difensive anti-mobilità per scoraggiare e, se necessario, difendersi da minacce militari».

I Baltici, che senza l’ordine USA non scavano nemmeno una trincea, sono difendibili o sacrificabili, sostenibili o smentibili senza che nessuna di questa scelta comporti automaticamente un impegno concreto del vertice dell’Alleanza.


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