Nel 370 giorno della guerra scatenata da Israele contro i palestinesi e contro tutti coloro che s’interpongono tra loro e l’ansia coloniale di Tel Aviv, per la seconda volta anche la missione Unifil delle Nazioni Unite è stata colpita intenzionalmente dalle forze di Tsahal. E’ del tutto evidente come non si tratti solo di una distinzione/differenziazione semantica ma che sia invece sostanziale, politicamente come operativamente. L’intemerata belluina di Bibi Netanyahu a New York dalla tribuna dell’Assemblea Generale dell’Onu, dalla quale ha accusato la quasi totalità del pianeta di antisemitismo, è stata seguita dalla dichiarazione di "persona non grata" per il suo Segretario Generale. Quindi l’aprire il fuoco contro le truppe della missione Unifil appare come ricaduta coerente, come conseguenza voluta, non certo come incidente o disattenzione.

A riprova di ciò la reiterazione dell’attacco in due giorni successivi, l’ultimo dei quali potrebbe causare la morte di uno dei Caschi Blu dell’Onu di nazionalità indonesiana.

 

Mai, in tutta la storia dell’organizzazione che riunisce la Comunità Internazionale, un suo stato-membro aveva osato aprire il fuoco deliberatamente, con intenti dissuasivi, contro una sua missione. Non solo per la banale constatazione che se si apre il fuoco contro una istituzione di cui si fa parte ci si spara addosso, ma soprattutto perché le missioni di peace keeping dell’Onu sono destinate alla salvaguardia del territorio dove operano, da raggiungere necessariamente con il consenso delle parti in conflitto.

Proprio qui sta la questione. Israele spara contro l’Onu perché dopo avergli inutilmente ordinato di spostarsi 5 km a nord. La risposta è stata ovviamente negativa; né poteva essere diversamente dato che l’ONU non obbedisce a Israele e visto che tutti gli aspetti della missione sono parte integrante di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza - la 1701 - e non sono emendabili. Israele spara perché vuole che i Caschi blu si spostino dal confine per potere agire indisturbati e senza testimoni, che sono tanto i 1500 soldati sul terreno come il sistema di telecamere e sorveglianza dell’aerea di cui la missione dispone.

Israele ha tutta l’intenzione di proseguire con l’invasione del Libano e con il bombardamento di ogni parte del suo territorio. Soprattutto ha tutta l’intenzione di continuare ad usare il fosforo bianco sulle popolazioni civili, come gli stessi operatori delle Nazioni Unite - 72 dei quali uccisi a Gaza dall’esercito israeliano - hanno denunciato con abbondante documentazione. Tsahal non ha mai selezionato obiettivi, non ha mai distinto tra civili e militari e non ha mai fatto differenze tra ruoli, missioni e presenze sul terreno; come nelle più classiche dottrine del terrore prevede il bombardamento a tappeto per distruggere ed annientare, così dal poter occupare poi senza rischi e lanciare un monito alla comunità internazionale che si ricordi come la forza prevale sul Diritto.

Quello che muove Israele e tutta la sua classe dirigente, non solo l’estrema destra. Facile per alcuni dire che il responsabile è solo Netanyahu e il suo governo di fanatici religiosi nazi-sionisti, ma non c’è mai stata notizia dei Laburisti in piazza per dire no al colonialismo genocida. Gli stessi laburisti quando sono stati al governo hanno fatto lo stesso, sfumatura più o sfumatura meno. La strategia israeliana è chiara nel suo progetto e condivisa ampiamente al suo interno: distruggere Gaza, cacciare i palestinesi dal loro territorio per non permetterne mai più il ritorno ed appropriarsi del Gaza Marine e delle altre risorse di idrocarburi e infine costruire progetti di insediamenti immobiliari. La scommessa è l’idea di una totale sostituzione etnica.

Finito il lavoro - almeno così credono - tocca al Libano. Tornare ad occupare il Paese dei Cedri dopo esserne uscito (sconfitto da Hezbollah) nel 2006. Le circostanze attuali vengono considerate una occasione storica per porre le mani su un altro pezzo importante di Medio Oriente. Questa è l’essenza della guerra in corso da oltre un anno e che ha come obiettivo il genocidio palestinese e l’occupazione militare di Palestina e Libano, colpire la Siria e infine l’Iran e stabilire un impero coloniale sionista in grado di appropriarsi dei territori e saccheggiare tutte le risorse esistenti in Medio Oriente, il controllo dei suoi porti e delle vie di navigazione.

Si dice che Israele approfitti della campagna elettorale dall’esito incerto per le presidenziali statunitensi: certo, i Dem alla Casa Bianca non intervengono perché la lobby ebraica che li dirige non concepisce nemmeno in fantasia l’idea di una interruzione del sostegno militare e finanziario statunitense a Tel Aviv e comunque Netanyahu spera che vinca Trump, così da ottenere il totale via libera anche per la guerra all’Iran. Ma questa è una lettura che, sebbene giusta e non priva di logica, risulta riduttiva, dato che in qualunque fase storica e in qualsiasi circostanza l’appoggio militare e politico USA non è mai mancato. A maggior ragione quando gli interessi reciproci (come nello sferrare un duro colpo militare a Teheran) sono condivisi. In questo senso, pur con le apparenti differenze, la politica statunitense con Israele una era e una resta. Non sono consentite deviazioni.

Quanto all’idea israeliana di colpire l’Iran arrivano notizie destinate a rendere la cosa tutt’altro che semplice. Nei prossimi giorni, nel quadro della riunione dei BRICS (alla quale hanno annunciato la presenza già 32 paesi, 24 dei quali saranno rappresentati dai rispettivi presidenti) vedrà la firma di un accordo strategico tra Russia e Iran i cui contenuti non sono ancora noti ma che, prevedibilmente, avranno nell’assistenza militare reciproca uno dei punti. L’idea di un attacco all’Iran appare dunque meno sensata che mai e la tentazione di sferrarlo nel giorno della firma dell’accordo è forte sia a Tel Aviv che a Washington. Ma se non si vuole scherzare col fuoco sarà meglio far ricorso all’intelligenza politica e al senso di responsabilità storico per non vedere precipitare il mondo in una guerra mondiale.

Quanto alla missione Onu, USA e UE hanno dichiarato come essa dovrà continuare. In queste ore gli avvocati dell’establishment travestiti da commentatori provano a sostenere la seguente tesi: dato che la mediazione tra Israele e Hezbollah è fallita e che l’interposizione del contingente Unifil non ha ottenuto il risultato sperato, tanto vale far rientrare i nostri militari, dichiarare fallita la missione e abbandonare il campo. Sembrerebbe una posizione politica dettata dalla logica, dal buon senso persino, una miscela di interesse patrio e realismo politico: non è così.

L’idea che l’Onu dichiari il fallimento di una missione solo perché una delle parti coinvolte non la sostiene è il peggiore degli errori, perché consegnerebbe alla storia la dichiarazione d’inutilità dell’organismo, che alcuni paesi - tra cui USA e Israele in testa - perseguono da due decenni, mentre sulla sua necessità, pur con una riforma complessiva dei suoi organi di vertice, scommette il Sud globale. Giusto sarebbe, semmai, aggiornare l’applicazione della 1701 rafforzando il contingente, cambiando le regole d’ingaggio e garantendo con la forza il rispetto delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza.

Non si tratta solo di posizioni pilatesche, che vanno comunque respinte, ma di un tentativo di piegare a favore di Tel Aviv i suoi stessi crimini. Nel caso specifico, infatti, quello di veder uscire l’Onu dal Libano è proprio l’obiettivo di Netanyahu: dimostrare che non può funzionare l’interposizione dell’ONU e che la sola soluzione possibile è che Israele gestisca in prima persona la frontiere Sud del Libano che lo Stato ebraico controlla in 3 punti.

L’attacco indica un cambio di fase: con l’attacco alla postazione Unifil, Israele effettua il suo ultimo, folle passaggio che la porta da Stato al di fuori della Comunità Internazionale a Stato contro la Comunità Internazionale. Si tratta di prenderne atto e di cominciare a porre la sospensione dalle Nazioni Unite e da ogni altro foro della comunità degli stati finché non riconosca le norme del Diritto Internazionale al quale la comunità dei paesi in linea di massima generalmente si ispira. Sarebbe un atto dovuto. Non farlo sarebbe capitolare.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy