Se Julian Assange e i suoi legali volessero conoscere in anticipo il tipo di trattamento che il governo americano riserverà al fondatore di WikiLeaks se estradato negli Stati Uniti, tutto ciò che dovrebbero fare è analizzare la recente pesantissima sentenza di condanna emessa contro un’ex ingegnere informatico della CIA. Il 35enne Joshua Schulte potrebbe restare in carcere per i prossimi 40 anni, dopo che è stato ritenuto colpevole da un tribunale di New York di svariati reati riconducibili, tra l’altro, al famigerato Espionage Act, in base al quale lo stesso Assange rischia una condanna a 175 anni una volta che metterà piede sul suolo americano.

I timori dell’Europa per le possibili resistenze di Viktor Orbán all’approvazione di una nuova tranche di aiuti economici per l’Ucraina si sono dissolti rapidamente giovedì durante le prime battute di un vertice che si preannunciava invece molto complicato. I leader europei avrebbero fatto alcune concessioni al primo ministro ungherese, anche se una delle richieste principali di Budapest non sembra essere stata accolta. Resta da vedere se l’accordo preveda condizioni non ancora note oppure se il passo indietro dell’Ungheria, su un provvedimento peraltro potenzialmente disastroso, sia solo il risultato dei ricatti che erano circolati anche a livello pubblico nelle ultime ore.

Nell’arco di due giorni e nell’immediata vigilia delle elezioni parlamentari, la giustizia pakistana ha emesso altrettante pesantissime sentenze contro il popolare ex primo ministro, Imran Khan. Quest’ultimo era stato deposto nell’aprile del 2022 da un voto di sfiducia favorito dall’intervento del governo americano, allarmato per l’indirizzo di politica estera sempre più indipendente deciso dall’ex star del cricket pakistano. Il caso politicamente più rilevante riguarda proprio le circostanze del caos che aveva preceduto il golpe di fatto contro Imran e il suo governo. L’ex premier era accusato di avere rivelato il contenuto di un documento diplomatico segreto, a suo dire testimonianza incontrovertibile delle interferenze degli Stati Uniti per pilotare le vicende politiche del Pakistan.

La conferma della validità dell’accusa di genocidio presentata dal Sudafrica contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) si sta avendo in questi giorni, oltre che dai massacri senza sosta nella striscia di Gaza, dalla vicenda dei finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA). Le responsabilità in questo senso non sono solo dello stato ebraico, ma anche dei paesi occidentali – Italia compresa – che hanno vergognosamente assecondato le macchinazioni del criminale di guerra Netanyahu, tagliando una parte vitale dei fondi da destinare a una popolazione letteralmente allo stremo.

Lo stesso giorno in cui i giudici della ICJ hanno deliberato preliminarmente contro Israele, il governo di Tel Aviv ha avanzato l’accusa contro 12 dipendenti della UNRWA di avere partecipato con vari compiti all’operazione “Diluvio di al-Aqsa” del 7 ottobre scorso, portata clamorosamente a termine da Hamas e Jihad Islamica. Le accuse non sono in nessun modo dimostrate e si basano esclusivamente su confessioni estorte tramite tortura. Se anche i fatti sostenuti da Israele corrispondessero alla realtà, sarebbe comunque semplicemente assurdo boicottare un’agenzia che svolge un compito cruciale per i civili palestinesi, in particolare negli ultimi tre mesi, sulla base delle azioni di una dozzina di funzionari sui 12 mila circa impiegati complessivamente a Gaza.

L’uccisione di tre soldati americani in una base al confine tra Siria e Giordania nel fine settimana ha tutte le sembianze dell’episodio di sangue che potrebbe far salire a un nuovo pericoloso livello la crisi in corso in Medio Oriente. L’amministrazione Biden ha promesso ritorsioni e indicato senza indugi che i responsabili dell’operazione vanno ricercati a Teheran. L’escalation degli attacchi contro le installazioni militari USA sono però la diretta conseguenza della guerra criminale condotta da Israele nella striscia di Gaza e, ancora prima, di una presenza americana nella regione, soprattutto in Siria e in Iraq, sempre meno sostenibile. Per entrambe le questioni, il prezzo che Washington deve pagare aumenterà inevitabilmente nel prossimo futuro, al di là della risposta che verrà eventualmente data al blitz dei giorni scorsi.


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