di Mario Braconi

La ditta Lehman Brothers nasce a Montgomery, Alabama, nel 1847: allora era solo un piccolo emporio gestito da una famiglia di immigrati tedeschi di origine ebraica con il pallino del commercio del cotone. Il vero salto di qualità arriva quanto i fratelli Emanuel e Mayer Lehman si trasferiscono a New York, dove abbandonano le materie prime ed iniziano a trattare carta, nel senso di titoli finanziari: sono diventati banchieri. L’incredibile parabola di Lehman Brothers, che si estende per 150 anni di storia americana, può forse aiutare a comprendere i miti che alimentano la psicologia del Paese: il duro lavoro che conduce immancabilmente al successo, la smisurata, incrollabile fiducia in se stessi, la spregiudicatezza e l’arroganza nel mondo degli affari. Tutti valori in cui Lehman ha sempre dichiarato di credere fortissimamente.

di Ilvio Pannullo

Se negli ambienti finanziari di tutto il mondo è stata salutata come una vera e propria benedizione, una necessaria quanto salvifica boccata d’ossigeno per gli investitori e per un mercato, quello azionario, terrorizzato dall’eventualità di una generalizzata crisi di panico, per Bush è stata sicuramente l'ultima sconfitta, forse la più cocente di tutte. La nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac, i due giganti dei mutui già partecipati dalle casse del Tesoro USA, peserà sulle finanze pubbliche, infatti, per oltre 200 miliardi di dollari oltre a segnare l’ineludibile insostenibilità di quella “ownership society” tanto cara agli ultraliberisti americani. L’ennesimo bagno di sangue per il contribuente a stelle e strisce è, infatti, l’inevitabile conseguenza del fallimento di quella “società di proprietari” teorizzata dal think-tank neoconservatore ed elevata a colonna sonora della disperata campagna per le presidenziali del 2004.

di Ilvio Pannullo

Dopo aver chiuso la settimana borsistica più nera del 2008, oggi sui mercati mondiali è tornato l'ottimismo. Il motivo che ha portato gli investitori a comprare azioni è stata la scelta del Tesoro Usa di nazionalizzare le due agenzie governative dei mutui Fannie Mae e Freddie Mac. Notizia che ha mandato in fibrillazione le quotazioni di tutti i titoli finanziari, con rialzi superiori al 10% per colossi come Hbso, Barclays, Axa, Ubs e così via. Ma anche il dollaro ha recuperato terreno, chiudendo a quota 1,419 nei confronti dell'Euro, un livello che non vedeva più dall'ottobre del 2007. In sostanza euforia e gioia per tutti e questo nonostante appena la settimana scorsa, Fannie Mae e Freddie Mac avevano annunciato perdite record e, cosi come loro, la maggior parte delle società che offrono servizi finanziari. A ciò si aggiungano disoccupazione in aumento, l'aggravarsi della crisi dovuta ai pignoramenti, il budget statale nel caos e ovunque gravi fallimenti. Era, dunque, più che ragionevole aspettarsi che il dollaro e il mercato azionario crollassero e che l'oro e il petrolio andassero alle stelle. Stranamente, tuttavia, l’ indice “Dow Jones Industrial Average” ha guadagnato 300 punti, il dollaro si è rafforzato mentre l'oro e il petrolio sono crollati. Cos'è successo?

di Mario Braconi

A voler essere sintetici fino alla brutalità, il cosiddetto piano Fenice può essere così riassunto: si prende l’Alitalia e la si taglia in due; si regala poi la parte ancora produttiva ad imprenditori amici (in cambio di che cosa?) mettendo in conto esuberi e debiti alla maggioranza degli Italiani che non possono e forse ormai non hanno più la forza di ribellarsi. Un percorso impervio, ma non impossibile, specialmente se si procede a mo’ di carro armato, spianando la legge sulla gestione delle crisi delle grandi imprese e quelle sulla concorrenza e se si può contare su un amico fedele alla Commissione Europea. Questo lo spot: Silvio Berlusconi, non pago della prodigiosa dematerializzazione della mondezza napoletana, ha fatto un altro miracolo: primus inter pares, chiama a raccolta un po’ d’imprenditori, i quali, galvanizzati, mettono in campo i propri capitali per salvare la compagnia di bandiera e perseguire il bene comune. Pur assuefatti, come siamo, alla retorica fasulla dei sedicenti “capitani coraggiosi” sin dai gloriosi tempi della merchant bank di Palazzo Chigi, non riusciamo a non arrossire di fronte a tanta faccia tosta.

di Giovanni Cecini

Negli ultimi anni in Italia si è parlato di Argentina solo per i suoi guai finanziari, per i milioni di risparmiatori che hanno riposto fiducia nei “Tango-bond” e per poche altre cose, quasi sempre negative. Oggi, mentre in casa nostra si discute di privatizzare l’Alitalia, a Buenos Aires il clima è esattamente all’opposto in fatto di compagnia di bandiera. Diciotto anni dopo la cessione ai privati e una pessima gestione, il Governo ha ottenuto l’approvazione dei due rami del Parlamento sulla proposta di nazionalizzazione delle Aerolineas Argentinas. L’azienda, nel 1990, a fronte di una crisi molto profonda e non senza forti polemiche, venne venduta dallo Stato: il 35% (poi divenuto l’85%) all’Iberia, il 10% all’American Airlines e le rimanenti quote ad altri azionisti nazionali. La partecipazione pubblica inizialmente rimase al 15%, per venir ridotta in fasi successive a circa 1/3. Il partenariato con aziende solide nel traffico aereo sembrava ai più sinonimo di rilancio e di nuova competitività, ma la compagnia pubblica di bandiera spagnola non si distinse per brillantezza nel suo operato. Dopo oltre un decennio di bilanci in negativo, essa fu obbligata a cedere nel 2001 le sue quote per un simbolico dollaro al gruppo iberico di turismo e trasporti Marsans, lasciando un buco di 700 milioni di dollari.


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