di Mario Braconi

L’Italia è in recessione. Le stime OCSE prevedono che il prodotto interno italiano decrescerà dello 0,4% nel 2008 e dell’1% nel 2009. Nel nostro Paese ben 400.000 persone perderanno il lavoro, mentre il tasso di disoccupazione toccherà l’8% (oggi è il 6,9%). Ad aggravare la preoccupazione dei cittadini, lo spettacolo di un’Europa concorde nel riconoscere il fallimento del mercato, eppure incapace di attuare misure unitarie o almeno fortemente coordinate contro la crisi. L’Ecofin del 2 dicembre scorso, infatti, si è concluso con una dichiarazione piuttosto generica che, oltre a stabilire un tetto per gli interventi dei governi (200 miliardi di euro, ovvero l’1,5% - circa - del Prodotto Interno Lordo UE), contiene affermazioni piuttosto ovvie (ad esempio “gli stimoli fiscali a breve termine devono essere coerenti con strategie di bilancio a medio termine prudenti”; gli interventi “aumenteranno temporaneamente i deficit pubblici”).

di Mario Braconi

L’industria automobilistica globale è in grave crisi. Negli Stati Uniti, poi, il settore è al collasso: a spacciarlo l’ostinazione di non voler investire in modelli meno inquinanti e gli effetti della crisi finanziaria sulle disponibilità economiche delle famiglie: sia la General Motors (il più grande costruttore di automobili al mondo) che la Chrysler hanno già bussato più volte alle porte del Congresso chiedendo complessivamente 15 miliardi di dollari per consentire loro la sopravvivenza fino a marzo 2009. La Ford, che pure versa in uno stato di salute leggermente migliore, ha bisogno di una linea di credito come dell’aria. Nel complesso, l’industria ha bisogno di 34 miliardi di dollari per continuare a vivere.

di Mario Braconi

La crisi economico-finanziaria che ci sta conducendo verso una recessione globale ha un unico pregio intellettuale: ci ha costretti a mettere da parte concetti che eravamo abituati a dare per scontati e ad utilizzare un nuovo paradigma. Come spiega l’economista Nouriel Roubini in un suo recente articolo, per fronteggiare l’attuale scenario di recessione e deflazione, la politica monetaria tradizionale è ormai un’arma spuntata: occorre ideare soluzioni creative a problemi inediti. Eccesso di capacità produttiva rispetto a consumi e ad acquisti di beni durevoli in caduta libera, deboli pressioni salariali indotte dalla crescente disoccupazione e caduta dei prezzi delle materie prime (a cominciare dal petrolio) sono un habitat ideale per il virus della deflazione (discesa del livello dei prezzi).

di mazzetta

Quando Silvio Berlusconi invita gli italiani all'ottimismo e a spendere i soldi che non hanno, diventa chiaro che non ci sia da attendersi molto dal governo. Il governo italiano è l'unico a non aver ancora messo sul piatto della crisi denaro reale, i suoi interventi fino ad oggi si sono limitati alla proclamazione della garanzia statale sui depositi di conto corrente, un intervento virtuale per il quale non è stata indicata alcuna copertura reale, tanto da far supporre che se il governo dovesse veramente coprire i depositi bancari non avrebbe i soldi da consegnare ai correntisti. L'incombere di migliaia - se non di milioni - di prossimi disoccupati, la perdita del potere d'acquisto di quanti conservano l'impiego e la stretta del credito, non sembrano avere spazio nelle fantasie del premier, che lamenta il disfattismo dei media come responsabile dei disastri a venire. Dall'epicentro della crisi non giungono quindi buone notizie. Nonostante una montagna di soldi veri trasfusi nei bilanci di banche ed istituzioni finanziarie, il rischio di un collasso del sistema non è per niente scongiurato.

di Mario Braconi

Appena a sud del Circolo polare artico c’era una volta un paese povero, isolato geograficamente e culturalmente, la cui scarsa popolazione (300.000 anime su un territorio di circa 100.000 chilometri quadrati, un terzo di quello italiano) sopravviveva grazie alla pesca del merluzzo. Talmente disperata era la dipendenza dell’Islanda da questa attività, che nel 1976 il suo governo decise di estendere le proprie acque territoriali, dando così origine a quella che è passata alla storia con il poco fascinoso nome di “guerra del merluzzo” con la Gran Bretagna (come vedremo, la tendenza dei politici islandesi ad assumere decisioni unilaterali e non particolarmente rispettose degli altrui interessi non si è sopita con il tempo). Ebbene, in poco più di un decennio questo luogo dimenticato da dio si è trasformato in una specie di paradiso terrestre: vi si registrano un livello di reddito pro-capite tra i più alti al mondo (cresciuto del 45% in cinque anni, fino a raggiungere il quarto posto nella statistica stilata dalle nazioni Unite nel 2007), sistemi di istruzione e sanità pubblici completamente gratuiti, fondi pensionistici finanziariamente robusti ed efficienti.


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