di Mario Braconi

Nel discorso con il quale ha caldeggiato l’approvazione del piano Paulson (850 miliardi di dollari dei contribuenti americani usati per acquistare titoli impossibili da valutare) il presidente George W. Bush ha evocato lo scenario di una “lunga e dolorosa recessione” quale immediata conseguenza dell’inazione. Pur non avendo chiamato direttamente in causa la Grande Crisi americana iniziata con il crollo della Borsa del 1929, il riferimento a quegli anni drammatici è implicito per ogni americano. Vale la pena allora analizzare le due situazioni, mettendo in luce analogie e differenze. Come ricorda Clive Webb, economista e commentatore del quotidiano britannico The Guardian, tra gli elementi assonanti va registrato il fatto che entrambe le crisi esplodono dopo un lungo periodo di dominio repubblicano. Negli anni che precedettero la Grande Crisi, infatti, si erano succeduti tre presidenti “rossi”, che condividevano una politica improntata al laissez-faire in campo economico e ai tagli fiscali.

di mazzetta

Le ragioni dell'attuale crisi dell'economia globale sono state enunciate fin dall'alba del nuovo secolo. La mancanza di controlli, regole e responsabilità, risultato delle grandi deregulation degli anni ottanta e novanta, era attesa a produrre i suoi effetti fin dagli inizi del secolo e non ha mancato l'appuntamento. Poco importa che sovrane macchiette come Gasparri o Tremonti ora si travestano da nemici della globalizzazione per opportunismo politico e che lo stesso facciano i loro colleghi repubblicani negli Stati Uniti, non erano loro a sfilare per le strade di Seattle, Praga e Genova a cavallo del secolo. Loro semmai erano chiusi nei palazzi ad ordire l’uno rappresaglie cilene e l’altro magie contabili. L'attesa crisi è arrivata ed ora ci sono solo due possibili esiti, comunque di segno negativo. Un crollo repentino della fiducia e l'incapacità dei governi possono portare ad uno schianto epocale, al contrario la collaborazione di tutte le forze in gioco e il mantenimento della calma possono condurre ad un atterraggio più morbido simile ad una lenta agonia, ma più lento.

di Ilvio Pannullo

Analizzando con attenzione il piano di risanamento imposto, in questi giorni, al Congresso americano, si può cogliere un’agghiacciante analogia con la celebre scena epica narrata nel romanzo di J.R.R. Tolkien: quando, cioè, Sauron, l'Oscuro Signore di Mordor, il potente spirito del Male de Il Signore degli Anelli che fa da antagonista al racconto, forgiò tra le fiamme del monte Fato l’Unico Anello: “Una banca per domarli, Una banca per ghermirli e nel buio incatenarli”. Spiace per i fans, ma il paragone è decisamente calzante; non tanto e non solo per l’oscurità del piano che in questi giorni ha ormai visto la luce in terra americana, quanto piuttosto per la cupidigia e l’avidità di potere delle menti che lo hanno partorito, in questo figure reali e drammaticamente simili al Grande Occhio di fantastica creazione.

di Ilvio Pannullo

Per pochi voti, il Congresso Usa non ha approvato il piano di salvataggio proposto da Bush. E' l'ultima grande sconfitta politica per l'amministrazione e le sue ricette economiche. Del resto, oltre ai cadaveri politici, la crisi dei mutui sub-prime continua a lasciarsi alle spalle cadaveri finanziari svuotati oramai di ogni valore. La prima a cadere fu la Nothern Rock, nel dicembre del 2007 in Inghilterra, cui seguì il salvataggio pilotato della banca d’investimenti Bearn Stearns da parte di JP Morgan. Era il marzo di quest’anno. C’é stato poi il fallimento della Lehman Brothers e della nazionalizzazione da 200 miliardi di dollari dei due colossi dei mutui, Fannie Mae e Freddie Mac, la più imponente da quando gli USA sono una nazione. La crisi ha poi travolto, dando così al mondo intero il segno lampante della sua natura strutturale, anche il settore assicurativo, come mostrato dal salvataggio del colosso AIG, costato al governo USA 85 miliardi di dollari, e dalle ingenti perdite registrate dalla Swiss Re, la prima società al mondo, per capitalizzazione, nel settore riassicurativo.

di Mario Braconi

“Dato che sono un economista, dovrei avere qualcosa di intelligente da dire sulla crisi [finanziaria], ma la verità è che non ci ho capito niente”: così Steven Levitt, autore del geniale best seller “Freakonomics”. E non si può dargli torto: quale economista, infatti, sarebbe stato in grado di prevedere che il debito complessivo degli Stati Uniti, che nel 1980 valeva già il 163% del Prodotto Interno Lordo, avrebbe raggiunto nel 2007 l’astronomico livello del 346% del PIL? Avremmo creduto qualcuno che profetizzasse un mercato finanziario basato sulla creazione e sulla negoziazione di strumenti finanziari di cui, ad un dato punto, è impossibile determinare il valore?


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