di Mario Braconi

C’era una volta l’America delle banche allegre e spregiudicate, che convincevano l’uomo della strada ad indebitarsi in modo insostenibile per comprare una casa, il cui costo era molto oltre le sue possibilità presenti e future. Era l’America strabica e bigotta raccontata dai songwriters più sensibili, il paese incomprensibile dove possedere ed usare disinvoltamente un’arma da fuoco è considerato moralmente meno disdicevole che concedersi una sigaretta; dove il concetto di fare la guerra ad un altro paese veniva e viene accettato senza patemi d’animo mentre non avere soldi per pagare i debiti era un marchio di infamia. Quel paese in qualche modo non c’è più, rivoltato come un calzino da eventi tanto distruttivi quanto inattesi ai più: il crollo del mercato immobiliare e la bomba dei subprime; i bilanci in rosso delle banche di Wall Street e il robusto e convinto interventismo statale, dopo che è stata abiurata in fretta e furia la fede, un tempo cieca ed acritica, nella “mano invisibile” del mercato. I tempi si sono fatti difficili e, tra gli altri, crolla l’ultimo mito a stelle e strisce: non pagare i propri debiti, lungi da trasformare l’insolvente in un paria, sta diventando quasi trendy.

di Marco Montemurro

Centri commerciali, grattacieli, nuovi uffici, centri direzionali e abitazioni, così sarà modellato il nuovo volto di Roma. Fiumi di cemento conquistano terreni e costantemente nuovi palazzi sorgono in tutte le periferie romane. La capitale sta cambiando molto, il settore dell’edilizia è in fermento, grandi opere sono state realizzate e altre sono in cantiere e in progettazione. “Da qualche anno siamo tornati a costruire ai ritmi degli anni Sessanta”, così commenta Paolo Berdini, docente di urbanistica presso l’Università di Roma Tor Vergata e autore del libro “La città in vendita”, riferendosi alle ricerche economiche del Cresme. I cantieri sorgono con ritmi costruttivi da Italia del dopoguerra ma, sottolinea il professore in una intervista al quotidiano Liberazione pubblicata il 19 luglio, la differenza rispetto al passato è che le opere adesso si progettano in grande.

di Mario Braconi

Tempi duri per le compagnie aeree di tutto il mondo, disastrate dagli irragionevoli costi del petrolio (cresciuti quasi del 50% in un anno) e i prodromi di una recessione globale, che sta influendo negativamente sulle aspettative dei consumatori. Quando British Airways si presenta dai suoi azionisti con un bilancio trimestrale in calo del 90% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, è chiaro quanto grave sia il problema: non si tratta più di impedire l’erosione dei margini di profitto; i vettori globali, oggi, devono lottare per la loro stessa sopravvivenza. In molti paesi, Italia a parte, si tende ad affrontare i problemi con una miscela di pragmatismo e spregiudicatezza. Per allontanare lo spettro di fallimenti disastrosi, i governi stanno dando la loro sentita benedizione alle varie fusioni che si presentano, anche se esse sono indubbiamente discutibili dal punto di vista antitrust: ad aprile Delta e Northwest, rispettivamente il terzo e il quinto vettore USA, dopo un periodo di commissariamento dovuto ai conti in rosso, hanno deciso di unirsi in matrimonio. Il Governo austriaco sta pensando seriamente di disfarsi del suo 43% di Austrian Airlines per cederlo a Lufthansa; si parla della possibile privatizzazione della JAT, compagnia di bandiera serba.

di mazzetta

Mai come nell'anno appena trascorso si è sentito dire che c'è poco petrolio e che è destinato ad esaurirsi; quest'ultima affermazione in particolare va presa e maneggiata con attenzione e circospezione estrema. Il petrolio non finirà tanto presto. L'affermazione corretta è che siamo giunti al punto in cui la produzione del petrolio non può soddisfare una domanda esuberante e in crescita esponenziale, ma questo significa che ai tassi di produzione attuale le estrazioni potrebbero continuare per oltre un secolo. Trattandosi di un fenomeno globale, ha poco senso salutare il calo dei consumi di idrocarburi nei paesi avanzati, principalmente dovuto ai feroci aumenti di prezzo. A prima vista si potrebbe gioirne, posto che significherebbe una drastica riduzione delle emissioni di Co2 ed altri inquinanti nella biosfera, se non fosse che tutto il petrolio prodotto viene comunque bruciato, poco importa se in Europa o in Cina.

di Mario Braconi

Secondo il professor Nouriel Roubini, la devastante crisi finanziaria che, associata a quella economica, minaccia di mettere in ginocchio interi continenti e di modificare per sempre il nostro modo di vivere, ha cause precise che possono essere sinteticamente elencate: un modello di business basato sul cosiddetto “originate and distribute” (“creare [prodotti finanziari complessi] per poi rivenderli immediatamente a qualcun altro - ossia la versione di lusso del gioco del cerino acceso); il fatto che la gran parte dell’intermediazione finanziaria dei prodotti potenzialmente “tossici” transiti ormai attraverso un sistema finanziario parallelo - ad esempio broker, hedge fund, “veicoli” speciali e via dicendo - non soggetto (come le banche) a regolamentazione pubblica; un tipo di regolamentazione incline a far leva su autodisciplina e standard di mercato più che su obblighi di legge; la scarsa capacità delle attuali pratiche contabili a valutare e gestire crisi di liquidità; i conflitti di interesse in cui sono incorse le agenzie di rating facendo gran parte dei loro profitti valutando prodotti finanziari infarciti di derivati complessi ed “esotici”.


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