di Mazzetta

Dalla caduta del muro di Berlino la politica mondiale ha dovuto affrontare l’urto del trionfo americano, presto cavalcato da quanti hanno pensato di sfruttarlo per diffondere il liberismo sfrenato come modello unico dello sviluppo planetario. L’urto è stato possente e non privo disastrose conseguenze ed ha portato al dilagare di una “nuova politica” anche in Europa, tracimando poi senza grosse resistenze anche in Russia e Cina, fino a corrodere l’India. La “nuova politica” è praticata su basi non ideologiche (perché si fonda sul superamento delle ideologie, inteso come annichilimento di qualsiasi teoria diversa dal “money first”) ed ha determinato lo storico sorpasso del potere economico su quello politico. Non è che prima della caduta del muro la politica non dipendesse dall’economia, ma erano ancora tempi nei quali gli interessi economici dei singoli o dei gruppi d’interesse potevano essere condizionati da superiori interessi politici.

di Alessandro Iacuelli

L’esercito a Napoli non è un tabù, dice il Ministro di Grazia e Giustizia, sollevando cori di assenso e di dissenso. C’è chi si chiede se sia utile, o risolutiva, una missione a Napoli delle Forze Armate. Che sia utile sul breve termine, per tamponare in qualche modo l’emergenza criminalità, potrebbe esser vero, che sia risolutiva ci sono molti dubbi. Da più parti, anche nella stessa Napoli, si sta confondendo spesso - e non sempre in buona fede - l'emergenza microcriminale che dilaga in città ed in provincia, con la cosiddetta "emergenza-camorra". Di sicuro una massiccia presenza militare nelle strade può scoraggiare alcuni microcriminali, ma non è certo una missione delle Forze Armate che può sanare il problema sociale di una metropoli che, compresa la cintura dei comuni di periferia, tocca i 3 milioni di abitanti.

di Elena G.Polidori

E’ un’angoscia sottile, per lo più inespressa, quella che ancora oggi si diffonde piano tra i fiorentini ogni volta che la pioggia batte ininterrottamente per giorni e ti sembra un castigo di Dio senza fine. C’è ancora chi, in giorni come quelli, si alza di notte e raggiunge uno dei tanti ponti di Firenze per controllare che, sotto, il fiume ribollente e limaccioso non sia salito oltre il limite di guardia segnato bene in vista ai lati delle sponde. E non c’è mai una volta che l’Arno ti faccia tornare indietro verso casa senza averti trasmesso il timore di risvegliati, la mattina, con quella medesima acqua verdastra che scorre veloce sotto le tue finestre portandosi via tutto ciò che hai. E se possibile anche di più. Era il 4 novembre del 1966, quando l’alba mostrò una Firenze livida di acqua, di fango e di nafta, devastata fin nel suo cuore più antico e medioevale, con la gente sui tetti che urlava e i soccorsi che non riuscivano ad arrivare. Sono passati quarant’anni, eppure l’Arno potrebbe sommergerla ancora, con conseguenze ben peggiori di allora. Un’alluvione come quella del ’66 rappresenterebbe un costo sconvolgente per il sistema-Paese: trenta miliardi di euro. Una intera Finanziaria, insomma. In tanti anni, però, si è fatto ancora troppo poco per impedire che accada di nuovo.

di Agnese Licata


A due settimane dalla loro pubblicazione, i dati e le allarmanti previsioni che il Wwf ha recentemente reso noti attraverso il suo Living planet report non sembrano interessare le varie autorità internazionali. Autorità che, invece, dovrebbero discutere di come rimediare al palese fallimento delle varie iniziative, protocolli e conferenze in tema di ambiente. Nel 1992 a Rio de Janeiro la Conferenza delle Nazioni unite per l’ambiente e lo sviluppo aveva riaffermato l’importanza di non superare i limiti della natura. Ma a leggere il rapporto del Wwf sul 2003, di capisce che ben poco è cambiato, nonostante gli 11 anni trascorsi. Ben poco è stato fatto per alleggerire il pianeta di un sistema economico che, all’altare della crescita illimitata, sacrifica tutto il resto, a partire dalla possibilità di raggiungere uno sviluppo che contemporaneamente tenga conto delle nuove generazioni e sia capace di coinvolgere in modo equo tutte le nazioni.

di Agnese Licata

Terapie antidolore, uso farmaceutico della cannabis, testamento biologico, rifiuto dell'accanimento terapeutico, sospensione delle cure di sostegno vitale, eutanasia. Di tutto questo si è tornati a parlare, da circa un mese a questa parte; da quando, dopo Terry Schiavo, un altro caso, questa volta tutto italiano ( Piergiorgio Welby), ha di nuovo tirato fuori i tanti interrogativi che ruotano attorno al rapporto tra malattia e dignità umana. Fino ad ora le risposte della politica hanno visto più che altro tanti distinguo e poca concretezza. L’unico provvedimento che ha iniziato ad assumere connotati concreti riguarda la prescrizione di farmaci contro il dolore. Giovedì scorso il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge proposto dal ministro della Salute Livia Turco, con il quale s’intende semplificare le procedure per la prescrizione di farmaci oppiacei. Inoltre - se il testo verrà portato e votato in Parlamento senza subire modifiche - l’uso di questi medicinali verrà esteso non solo a malati terminali oncologici (come avviene attualmente), ma anche ai cronici e agli invalidi permanenti. Ma la parte più controversa del ddl è un’altra e riguarda la decisione d’inserire tra i farmaci antidolore prescrivibili, anche due prodotti che contengono la sintesi chimica del principio attivo della cannabis.


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