di mazzetta

Nei tempi liberisti che ci tocca di vivere, la salute ha smesso di essere un bene comune per diventare una voce di bilancio. Governo centrale e Governatori locali fanno a gara nel lamentarsi dell’insostenibilità del costo, come fosse un ramo secco d’azienda da potare e, sulla messa in ordine dei suoi conti, piovono dibattiti a mano armata. Mai che si vada a vedere quanto più che la salute – siano i suoi cosiddetti manager il costo insopportabile che tutti noi affrontiamo. In una recente puntata di Report, persino i sindacalisti di un ospedale romano rispondevano indifferenti alle domande che un giornalista poneva loro su gravissime questioni riguardo al malcostume che ha ormai travolto l’inquadramento degli operatori nel loro ospedale. Sintetizzando la questione, succede che nell’ospedale romano oggetto dell’inchiesta del programma Rai (ma sarebbe meglio dire in quasi tutti gli ospedali ed enti pubblici) è ormai in vigore un vero e proprio racket del lavoro che impone retribuzioni miserrime ai lavoratori a fronte di un costo altissimo delle loro prestazioni per la sanità pubblica. Tutto accade perché grazie alle leggi per la flessibilità del lavoro, all’apparizione sulla scena delle cosiddette cooperative sociali e alla complicità di molti, si è instaurato un fenomeno di caporalato istituzionalizzato.

di Sara Nicoli

Il fato, il caso, incide nella vita in modo straordinario. E’ l’eccezionalità di un evento rispetto al quotidiano a renderlo degno di nota e di attenzione. Morire sul posto di lavoro, in Italia, è diventato il quotidiano, non il caso, la fatalità. Malgrado il Capo dello Stato prosegua nella propria opera di sensibilizzazione contro questa emergenza nazionale, le cronache snocciolano numeri sempre più pesanti che trovano, tuttavia, sempre minor spazio tra le notizie principali: anche alla morte gratis, ormai, si è fatto il callo. E’ come se, nell’opinione pubblica, la morte sul lavoro fosse ormai diventata un fatto inevitabile, la norma più che il caso. E nessuno, nonostante l’aumento di queste “morti bianche” si sofferma più a riflettere sul perché vengono ipocritamente chiamate così e non con il loro vero nome: omicidio del lavoratore da parte di un datore di lavoro inadempiente sulle norme di sicurezza. L’altro giorno sono morti due operai ad Avellino e sono andati ad aggiungersi agli altri quattro che sono morti nell’esplosione dell’oleificio vicino Perugia due giorni prima.

di Bianca Cerri

Tutto ebbe inizio nel 1981, quando i bollettini dei Centri per il Controllo delle Malattie di Atlanta e Los Angeles, segnalarono due casi di una patologia sconosciuta e mai classificata prima, che presto sarebbe divenuta tristemente nota in tutto il mondo con il nome di AIDS o sindrome da immuno-deficienza acquisita. Poiché il virus aveva colpito solo maschi bianchi e dichiaratamente omosessuali, virologi e ricercatori si limitarono inizialmente a fare solo vaghe supposizioni espresse con quel leggero spregio che da sempre la scienza riserva alle patologie legate alla sessualità. Fino al 1990 circa, la sindrome da immunodeficienza acquisita continuò ad essere osservata come una patologia legata ai rapporti tra persone dello stesso sesso il cui sistema immunitario veniva colpito da un retrovirus denominato HIV che infettava le cellule favorendo l’insorgenza di svariate infezioni. Più tardi si scoprì che non esisteva categoria immune all’HIV e che non tutti i soggetti contagiati si ammalavano immediatamente. In alcuni casi il virus si faceva attivo anche a distanza di 15 anni dal contagio dando luogo alla formazione di sarcomi e linfomi.

di Agnese Licata

D’immigrazione si scrive e si discute ormai ogni giorno. Spesso, perché è la cronaca a richiederlo, con i centinaia di volti e corpi segnati da indescrivibili “viaggi della speranza”, con i casi d’intolleranza e razzismo che colpiscono chi è considerato un intruso da scacciare (si pensi alle violenze contro i romeni nella Capitale, ai primi di ottobre). Quello invece di cui si discute poco è uno degli aspetti peggiori dell’inserimento: quello relativo agli immigrati nel rapporto con datori di lavoro che, approfittando di una legge che riduce i migranti a braccia da sfruttare, arrivano a violare anche i più elementari diritti umani. Uno dei nodi più difficili da sciogliere consiste proprio nel riuscire a sconfiggere quei criminali che costruiscono le loro fortune attorno alla facile ricattabilità degli immigrati, in particolare di quelli clandestini. In molti casi gli immigrati vengono sottoposti a questo ricatto due volte: prima nel loro Paese, per riuscire a varcare l’agognata frontiera del ricco Occidente; poi in Italia, nei centri di permanenza temporanea (come documentato un mese fa da La Repubblica sul caso di Caltanissetta) e anche sul posto di lavoro.

di Alessandro Iacuelli

Ghedi è vicino Brescia. E' una base particolare, perché completamente italiana, quindi non è una delle "solite basi NATO", di cui è cosparso il nostro Paese. Una volta, a dire il vero, era una base NATO, poi è stata declassata. Ora ci sono 1.600 soldati italiani, 200 civili e 180 militari USA di un battaglione che si occupa una sola cosa: di armamenti biologici e atomici. I due comandi sono divisi, ma tutta la struttura è comunque sotto comando italiano. Alcuni volontari dell'area del Brescia Social Forum hanno cominciato a lavorarci qualche anno fa, facendo pressione sul problema della sicurezza militare, ambientale e sanitaria. Ci sono state diverse ispezioni parlamentari senza esito, a Brescia però sanno che ci sono bunkers per 400-500 militari e il comando non spiega a cosa servono.


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