di Sara Nicoli

Non ci voleva certo un giudice, nello specifico Angela Salvio del Tribunale Civile di Roma, a ricordare che, in Italia, non esiste il diritto legislativo di chiedere l’interruzione di “cure” che nulla hanno a che vedere con la salvaguardia della salute di un paziente, ma insistono solo su un accanimento terapeutico privo di qualsivoglia speranza. Era dunque quasi attesa quella sentenza di inammissibilità che ieri è stata depositata in cancelleria, dopo quattro giorni di camera di consiglio, e che ha respinto la richiesta di interruzione del trattamento terapeutico presentata da un Piergiorgio Welby. Un uomo ancora capace di intendere e di volere al punto da costruire sulla sua sofferenza fisica una battaglia lacerante per le coscienze di tutti e, allo stesso tempo, impossibile da eludere ancora a lungo per convenienze politiche o dubbie esigenze confessionali e di palazzo. Coraggiosamente, tuttavia, i giudici del Tribunale Civile di Roma hanno inserito tra le righe del dispositivo anche una forte chiamata di correità nei confronti della politica, la cui inettitudine pregressa, unita alle recenti fiammate teodem, non è stata capace di colmare con una forte iniziativa legislativa, un abissale vuoto normativo in materia di un diritto non meno importante di quello legato alla vita: quello di morire con dignità. “Solo la determinazione politica e legislativa, - si legge nel provvedimento del tribunale - facendosi carico di interpretare l’accresciuta sensibilità sociale e culturale verso le problematiche relative alla cura dei malati terminali, è in grado di dare risposte alla solitudine e alla disperazione dei malati di fronte alle richieste disattese, ai disagi degli operatori sanitari e alle istanze di fare chiarezze nel definire concetti e comportamenti; solo la politica può colmare il vuoto di disciplina anche sulla base di solidi e condivisi presupposti scientifici che consentano di prevenire abusi e discriminazioni. Allo stesso modo in cui intervenne il legislatore nel definire la morte cerebrale”.

Una sentenza senza appello, quindi. Ma dove il condannato non è certo Welby, ma uno Stato inchiodato alla croce di un credo niente affatto collettivo e per giunta orbato, sul fronte della crescita civile, da una classe politica colpevolmente immobile davanti ai temi etici perché ostaggio di pochi a discapito di molti. Ancora il giudice, a proposito del diritto del malato a chiedere di “staccare la spina”, ha illuminato con il diritto fino a che punto Welby (e tutti quelli nelle sue condizioni) poteva aspirare a vedere accolta la richiesta dell’interruzione della respirazione assistita, previa somministrazione della sedazione terminale. In pratica nessuno. Con spirito apparentemente beffardo, il giudice ha informato che Welby aveva certo tutto il diritto di chiedere, “ma trattasi di un diritto non concretamente tutelato dall’ ordinamento”. Ma è il passaggio successivo a questa banalità giuridica a colpire nel segno il vuoto legislativo e l’inettitudine politica nel colmarlo. Scrive il giudice Salvio: “Non si può parlare di tutela se poi quanto richiesto dal ricorrente deve essere sempre rimesso alla totale discrezionalità di qualsiasi medico al quale la richiesta venga fatta, alla sua coscienza individuale, alle sue interpretazioni soggettive dei fatti e delle situazioni, alle proprie convinzioni etiche, religiose e professionali”.

Non si può, insomma, far pesare sulla coscienza di un medico, che prima di essere tale è una persona come tutte le altre, la responsabilità di una scelta tra cosa è vita e cosa non lo è più. E, soprattutto, sul quando considerare venuto meno il senso stesso del proprio ufficio. Così come è stato stabilito che lo stato di morte celebrale può far scattare l’espianto degli organi ai fini della donazione, non si capisce per quale motivo la morte di un organismo minato da una malattia incurabile all’ultimo stadio non possa smuovere il legislatore alla creazione di una legge che consenta di assecondare la ferma volontà di una “vittima” di porre fine dignitosamente ai propri giorni. Cautela e prudenza sono d’obbligo. Ma non quando, come in questo momento storico italiano, i due modi d’agire vengono strumentalizzati da una falange politica sempre più consistente. Che non sembra agire nel nome della laicità dello Stato, ma é decisa a garantire la sopravvivenza di quel potere temporale della Chiesa che la storia ha sepolto e condannato, ma l’Italia no.

Come c’era da aspettarsi, dunque, la politica si è ancora divisa sull’ultimo capitolo della triste vicenda Welby. Contrastanti gli stati d’animo con cui i diversi protagonisti hanno accolto la sentenza del giudice Salvio. Rassegnazione da parte di quei parlamentari consapevoli dei “tempi lunghi” della politica che mai potranno “coincidere con quelli di Welby”. Indignazione per i radicali, che non si danno per vinti e rilanciano: dopo questa sentenza saranno “ancora più determinati di prima” ad aiutarlo a staccare la spina con un atto “di obbedienza Costituzionale”. Soddisfazione, infine, da parte di (quasi) tutto il centrodestra e di larghe frange della maggioranza, per aver riportato il dibattito in Parlamento. Che - sono certi e se ne fanno un vanto - non permetterà “mai all’eutanasia di entrare nel nostro ordinamento”.

Registriamo, per dovere di cronaca ma non solo, due differenti prese di posizione che, a ben guardare, fotografano con nitidezza, all’interno della medesima maggioranza, chi si muove nel rispetto del mandato dei propri elettori (per quanto lacerante a livello personale) e chi, invece, risponde ad un potere diverso (per niente toccata almeno da un flebile senso della vergogna). La prima è quella della ministra della Salute, Livia Turco. Da cattolica contraria all’eutanasia, si è detta comunque “disponibile a colmare il vuoto legislativo”, assicurando anche il proprio “impegno personale a portare la questione all’attenzione del Parlamento”. Il secondo è invece quello della “pasionaria teodem” Paola Binetti della Margherita. Che, incurante delle necessità degli uomini e del proprio mandato, ma ossequiosa solo agli ordini del Vaticano, ha ribadito imperiosa che “qualsiasi legge possa essere licenziata dal Parlamento, essa non potrà mai e in nessun caso contenere un diritto alla morte dolce”. Se mai, dunque, si celebrerà un dibattito politico per colmare quel vuoto legislativo sulla questione invocato dai giudici di Roma, questo non potrà che essere drogato da un male più pesante e subdolo di quello che ha colpito Piergiorgio Welby e che metterà sempre più in evidenza la realtà in cui viviamo. Quella di uno Stato costretto all’immobilità da chi non lavora per la civiltà e per il diritto. E neppure per Dio.


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