di Sara Nicoli

Non ci voleva certo un giudice, nello specifico Angela Salvio del Tribunale Civile di Roma, a ricordare che, in Italia, non esiste il diritto legislativo di chiedere l’interruzione di “cure” che nulla hanno a che vedere con la salvaguardia della salute di un paziente, ma insistono solo su un accanimento terapeutico privo di qualsivoglia speranza. Era dunque quasi attesa quella sentenza di inammissibilità che ieri è stata depositata in cancelleria, dopo quattro giorni di camera di consiglio, e che ha respinto la richiesta di interruzione del trattamento terapeutico presentata da un Piergiorgio Welby. Un uomo ancora capace di intendere e di volere al punto da costruire sulla sua sofferenza fisica una battaglia lacerante per le coscienze di tutti e, allo stesso tempo, impossibile da eludere ancora a lungo per convenienze politiche o dubbie esigenze confessionali e di palazzo. Coraggiosamente, tuttavia, i giudici del Tribunale Civile di Roma hanno inserito tra le righe del dispositivo anche una forte chiamata di correità nei confronti della politica, la cui inettitudine pregressa, unita alle recenti fiammate teodem, non è stata capace di colmare con una forte iniziativa legislativa, un abissale vuoto normativo in materia di un diritto non meno importante di quello legato alla vita: quello di morire con dignità.

di Cinzia Frassi

Il giudice monocratico Angela Salvio si riserva di decidere sull’istanza presentata da Pergiorgio Welby. Questo il risultato dell’udienza presso il Tribunale di Roma, prima Sezione Civile, dopo il parere della procura della Repubblica che riconosce il diritto di Welby di staccare la spina ma, aggiunge, “se il malato soffre, i medici possono ripristinare le cure”. Sono cauti alla Procura e lo è pure il giudice Angela Salvio, che avrà ancora qualche giorno per prendere una decisione definitiva. La sentenza dovrebbe essere emessa entro una settimana, in base ai termini di legge. Ha preso tempo, ma gli elementi per decidere ci sono tutti, a parte il dibattito acceso che si consuma fuori dall’aula. Welby è nato nel 1945 e dall’età di 20 anni soffre di distrofia muscolare, una malattia che lo costringe da troppo tempo ad una vita che lui definisce “inaccettabile”.

di Fabrizio Casari

C’erano tutti gli ingredienti. La strage atroce, la furia omicida scatenata contro un bambino e quattro adulti. Solo uno è ancora vivo, pur in condizioni gravissime. Persone innocenti d’ogni peccato, anzi; lei, impegnata nell’assistenza agli anziani, forse uno dei lavori più nobili tra la nobiltà del lavoro. Un bambino che, innocente e puro lo è per definizione, giustamente. E poi due persone, innocenti e nobili anch’esse, intervenute a difesa di quegli inermi. Poi il fuoco, a distruggere prove e tracce, indizi e certezze. Ma non quelle degli inquirenti e dei cronisti che fungono da prolunga dei microfoni. Persino lo scenario sembrava ideale ad una ricostruzione d’appendice. Erba, un paesino isolato in provincia di Como, a dieci chilometri dal confine con la Svizzera. Pronte tutte le analogie e le analisi da psichiatri da quattro soldi sull’impossibilità e l’inafferrabilità delle dinamiche criminose, socio-patologiche, insite in tutte le piccole comunità. Ma, su tutto e sotto tutto, il colpevole giusto, nemmeno fosse stato disegnato con cura. Tunisino. Immigrato. Feroce, come un novello Saladino. Condannato per droga e rapina. Incarcerato. E, pena massima di questi tempi, uscito dal carcere con l’indulto. Pennivendoli a un tanto al chilo si sono lanciati sull’osso da spolpare. Solleticare la pancia dei benpensanti fa notizia, suscita indignazione, crea morbosità. Insomma, tira copie.

di Elena G. Polidori

Un uomo che si cosparge di benzina e tenta di darsi fuoco in diretta al Tg2 può essere considerato, almeno in apparenza, solo uno squilibrato in cerca di pubblicità. Ma quello che è accaduto l’altra sera durante la rubrica Dieci Minuti, condotta da Maurizio Martinelli, al di là del gesto scioccante, ha avuto almeno il merito di far riaprire la riflessione collettiva sull’annoso capitolo dei figli contesi tra genitori separati di nazionalità diverse che, spesso, culminano con veri e propri rapimenti di cui, salvo rare eccezioni, le autorità riescono a venire a capo dopo inenarrabili battaglie legali. E dopo anni di indicibili sofferenze da parte del genitore abbandonato.Nicola De Martino, l’aspirante suicida del Tg2, rappresenta un caso emblematico. Suo figlio Luca fu rapito dalla madre australiana quando aveva solo cinque anni. E malgrado il padre abbia ingaggiato fin da subito una pesante battaglia legale, ci sono voluti 13 anni prima che il ragazzo lo potesse riabbracciare, ma solo perché diventato nel frattempo maggiorenne: capitali spesi in avvocati, rogatorie, intimazioni e richieste di compromesso, non sono serviti a nulla; è stato Luca che ha scelto di rivedere il padre.

di Agnese Licata

Nel 2003 erano 1.066. Nel 2006 sono arrivate a 4.173. Praticamente quadruplicate in soli tre anni. Si tratta delle coppie che, una volta scelta la strada della procreazione assistita, preferiscono varcare i confini e affidare le proprie speranze di futuri genitori a una clinica straniera. I dati dell’Osservatorio sul turismo procreativo parlano chiaro. Di mezzo c’è l’ormai tristemente famosa legge 40 sulla procreazione assistita, approvata dal Parlamento nel febbraio del 2004. Prevedere un incremento di questo fenomeno, all’indomani dell’entrata in vigore della norma, non era certo difficile. Non era difficile pensare che diventando l’unico Paese europeo a vietare in toto la fecondazione eterologa (cioè l’utilizzo di spermatozoi o ovociti non appartenenti alla coppia) non si sarebbe fatto altro che colpire la libertà di scelta solo di coloro che questo cosiddetto “turismo procreativo” non può permetterselo. Se a ciò si aggiunge il divieto di qualsiasi analisi pre-impianto (ossia la possibilità di verificare che gli embrioni fecondati non siano portatori di malattie genetiche, prima del loro impianto nell’utero), oltre all’impossibilità di fecondare più di tre embrioni per volta e di congelare quelli in eccesso (per evitare che la donna debba sottoporre a una seconda pesante cura ormonale in caso di un iniziale insuccesso), si capisce perché i dati forniti dall’Osservatorio non possano e non debbano stupire.


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