di Giuseppe Zaccagni

Sembra superato lo stallo dei colloqui tra Pyongyang e Seul: sarà per i risultati ottenuti al recente vertice di Pechino sul nucleare, oppure per il clima che si sta creando in vista del compleanno del leader del Nord, ma il fatto è che si annuncia ora la ripresa dei contatti ufficiali fra i due paesi. Le delegazioni governative si incontreranno infatti nella capitale nordista dal 27 febbraio al 2 marzo. L’agenda del vertice è già stata fissata con una riunione preparatoria, che si è svolta nella città di frontiera di Kaesong, situata a nord del 38° e nota per essere una zona economica speciale. Distensione, quindi, su quella linea segnata dal famoso parallelo, ultimo baluardo “caldo” della guerra fredda? Distensione, ma non soluzione. La strada è ancora lunga e gli uomini del Nord hanno una linea di condotta che, certamente, non facilita i processi di avvicinamento. Resta un contenzioso epocale segnato dallo scetticismo. Perché il Nord parla di riunificazione delle due realtà nazionali, ma prevede che il processo debba svolgersi secondo le regole dettate dal governo di Pyongyang sempre più prigioniero di un labirinto economico di cui non riesce a liberarsi.

di Giuseppe Zaccagni

E’ in stato di continua contraddizione fra la retorica dei propri obiettivi e la realtà dei fatti. Non accetta le condizioni del cambiamento e non accenna ad esami di coscienza. E si rivela sempre più un leader con i denti d’acciaio e una volontà di ferro. Temuto in patria e all’estero. Eccolo, quindi, questo Mahmud Ahmadine¬jad impegnato ancora una volta a rispedire al mittente - l’Onu - l’ultimatum che gli era stato dato. Perché la sua risposta è che l’Iran continuerà nel suo programma nucleare (l’arricchimento dell’uranio), anche se dovesse “rinunciare a qualsiasi altro progetto per i prossimi dieci anni”. Così a Teheran vince il fronte della fermezza con gli esperti che ribadiscono che l’Iran ha fatto, in queste ultime ore, nuovi ed importanti passi avanti nel suo programma sul combustibile nucleare. Quindi: nessuna interruzione. Al contrario: successi e progressi.

di Eliana Pellegrini

Il 27 dicembre in Somalia è stata proclamata la legge marziale dal presidente del governo di transizione Mohamed Ali Gedi, dopo che le forze governative spalleggiate dalle milizie etiopi, hanno annunciato la liberazione di Mogadiscio, fino ad allora ultima roccaforte delle Corti islamiche. Già dall’inizio di dicembre il governo etiope aveva autorizzato le milizie ad azioni di guerra senza preavviso in Somalia, quali misure di autodifesa contro la minaccia costituita dai terroristi delle Corti islamiche, come ha dichiarato il primo ministro etiopico Zenawi.Il governo di transizione ha quasi contestualmente proclamato la legge marziale per poi restare di fatto inattivo a guardare la catastrofe abbattersi sulla popolazione somala. Perché quando in un paese in lotta il governo o le milizie ottengono o ripristinano, in modo più o meno cruento, il controllo, la prima strategia attuata a preservazione dello stesso è la proclamazione della legge marziale, come è successo ad esempio in Thailandia nel 2006, in Iraq nel 2004, in Indonesia nel 2003 e in moltissime altre realtà di lotta e di forte rivolta.

di Carlo Benedetti

Il Cremlino dà il via ai media e subito comincia una campagna tesa ad evidenziare la particolarità della situazione internazionale. Putin va all’attacco ed è solo un inizio. Le “Izvestija” – autorevole quotidiano supergovernativo – tira la volata con titoli che riportano la storia indietro di moltissimi anni: “Gli americani stanno militarizzando il cosmo”, “La Russia è pronta a rimettere in funzione i missili proibiti”. Un altro giornale di Mosca, il popolarissimo “Argumenty i fakty”, annuncia: “Passo passo si va alla guerra fredda”. Deciso e duro il titolo della “Pravda” comunista: “La macchina militare della Nato si avvicina alle nostre frontiere”. E a tutta questa valanga di titoli - che allarmano e preoccupano l’opinione pubblica – fanno eco i commenti dei più autorevoli esponenti della società russa, civile e militare.

di Daniele John Angrisani

In questi ultimi mesi, in particolar modo dopo la sconfitta repubblicana alle elezioni di mid-term, è divenuto chiaro a tutti che stiamo vivendo in un mondo molto diverso da quello che esisteva anche solo pochi mesi prima. E' difficile valutare, ad oggi, quanti danni possano aver fatto le folli politiche intraprese dall'Amministrazione Bush alla reputazione internazionale degli Stati Uniti d'America, ma ciò che è sicuro è che, in questo lento ma angoscioso tramonto della presidenza Bush, gli Stati Uniti d'America si trovano in una situazione di oggettiva debolezza internazionale che non ha precedenti dalla fine della Guerra Fredda ad oggi. Anche i più strenui sostenitori della "visione imperiale" americana ora sono costretti ad ammettere che, forse, il mondo è più complesso della semplice visione a bianco e nero ("siete con noi o contro di noi") che ha caratterizzato la prima e storia dell'Amministrazione Bush. La verità è che quando persino un uomo proveniente dall'ex KGB, a capo di una Russia che purtroppo, anche a causa dei molti errori dell'Occidente, si allontana sempre di più dai parametri della democrazia europea, si permette di dire dinanzi ai presenti alla Conferenza Internazionale sulla Sicurezza di Monaco, che "il comportamento unilaterale degli USA è tutt'altro che democratico", perchè "democrazia significa il rispetto del volere di tutti" e non "un solo centro di potere, economico, politico e militare", allora significa veramente che la situazione ha raggiunto un punto di non ritorno.


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