di Carlo Benedetti

Questa volta non saranno solo i noglobal a “disturbare” quei grandi del mondo che si ritrovano a Heiligendamm (nei pressi di Rostock sul Baltico) per il loro G8. Questa volta, infatti, la tradizionale riunione nasce in un clima di notevoli differenziazioni, di contrasti e di spinte che non vanno certo in direzione di quella politica del disgelo da tanto tempo propagandata. Perché soffia un forte vento freddo che cancella di colpo quei timidi passi che le diplomazie mondiali hanno sempre cercato di presentare come processi distensivi… Non è mai stato così ed oggi, soprattutto, non è così: americani e russi vanno al vertice con lo smoking che copre i giubbetti antiproiettile. Si è quindi alla vigilia di una nuova e difficile partita. E la Russia, in particolare, scende in campo con un bagaglio di accuse nei confronti dell’America di Bush. Al Cremlino, infatti, non è andata giù l’idea della Casa Bianca di circondare il territorio ex-sovietico con uno scudo antimissilistico globale.

di Bianca Cerri

George Bush ha scelto come nuovo presidente della Banca Mondiale Robert Zoellick, ex-numero due del Dipartimento di Stato ma, soprattutto, amico intimo delle industrie farmaceutiche. Sostenitore degli accordi commerciali bi-laterali, Zoellick è riuscito ad impedire l’accesso ai farmaci generici a migliaia di malati di AIDS e, forse in virtù di queste qualità, è riuscito a prevalere sull’ex-vice segretario del Tesoro Robert Kimmit, anch’egli nella rosa del ristretto numero di candidati alla successione di Paul Wolfowitz, dimessosi il 17 maggio scorso. Zoellick, del resto, che è stato nel recente passato difensore strenuo del protezionismo commerciale statunitense, sarà incaricato di seguire le sue inclinazioni dalla sua nuova poltrona, situata simbolicamente a poche centinaia di metri dalla Casa Bianca. Si è chiuso così uno dei capitoli più spinosi nella storia della Banca Mondiale, la più grande istituzione multilaterale dedicata allo sviluppo economico.

di Daniele John Angrisani

Tira un brutto vento sul continente europeo. Siamo nel 2007, eppure a sentire le notizie provenienti dall'est europeo sembra quasi di incanto essere tornati indietro di 20 anni. A Potsdam, nello stesso identico palazzo in cui nel luglio 1945 si incontrarono i capi delle grandi potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, si è assistito ad uno scambio di battute tra i ministri degli esteri degli Stati Uniti e della Federazione Russa, degno dei peggiori momenti della guerra fredda. Come si sa, alcuni giorni addietro la Russia ha testato con successo un nuovo missile strategico capace di portare testate nucleari multiple, nome in codice RS 24. Come ha dichiarato il vice primo ministro, da molti visto come possibile futuro presidente russo, Sergej Ivanov, tale arma "è capace di violare qualsiasi sistema antimissilistico verrà messo in piedi", con palese riferimento allo scudo spaziale che gli americani vogliono mettere in piedi in Repubblica Ceca e Polonia. La linea di Washington a questo proposito è da mesi sempre la seguente: lo scudo spaziale serve per proteggere l'Europa dalla minaccia dei terroristi islamici, non è indirizzato contro la Russia, anzi la Russia stessa è benvenuta se vuole partecipare al progetto. La Rice ha anche aggiunto che è "assurdo ritenere che un tale progetto possa servire da deterrente rispetto all'arsenale nucleare russo", e che anche gli americani ritengono che "i russi siano capaci di bucare lo scudo antimissilistico in qualsiasi momento". La risposta di Sergej Lavrov, il ministro degli esteri russi, è di per se indicativa, per la sua gelida fermezza, dell'attuale pessimo stato delle relazioni tra le due ex grandi superpotenze: "Speriamo non vi debba mai essere motivo per mostrare che la Rice ha ragione".

di Luca Mazzucato


Bande di uomini incappucciati che si sparano ad ogni angolo di strada e mercenari che lanciano razzi Qassam verso Israele. Gaza city è una città fantasma di un milione di abitanti, nessuno si arrischia ad uscire di casa per paura dei proiettili vaganti, mentre oltre il muro gli israeliani in fuga da Sderot si rifugiano in una tendopoli. Dieci giorni fa, Israele lancia una massiccia offensiva contro Hamas e il premier palestinese Haniyeh, nel mirino dell'esercito, entra in clandestinità. Missili israeliani radono al suolo interi palazzi e i carriarmati degli occupanti invadono nuovamente la Striscia: la guerra civile si prende una pausa di qualche giorno e le milizie mascherate spariscono, bersaglio troppo facile per l'artiglieria israeliana. Le scuole e i negozi riaprono a Gaza e Olmert sblocca l'embargo all'ANP per aiutare l'alleato Abu Mazen a contro il nemico comune Hamas. In questa situazione paradossale, nel quarantesimo anniversario dell'occupazione, l'unica speranza rimasta è la proposta di una forza multinazionale araba a Gaza, sulla scia della missione UNIFIL in Libano. Sempre che qualche paese accetti di mandare i propri soldati.

di Lorenzo Zamponi

"Il Psoe ha perso le elezioni (però può guadagnare potere)". Così, giocando sul duplice significato di “ganar” (“guadagnare” e “vincere”) il primo editoriale de El País di martedì riassumeva paradossalmente i risultati delle elezioni amministrative tenutesi domenica 27 maggio in Spagna, in casuale contemporanea con l’Italia. Come in Italia, infatti, il dibattito per stabilire chi ha vinto e chi ha perso assorbe gran parte dell’informazione politica per giorni dopo ogni tornata elettorale. Si votava in 13 delle 17 regioni spagnole, tutte tranne le quattro che in Italia chiameremmo “a statuto speciale” (Paesi Baschi, Catalogna, Galizia e Andalusia), oltre che in molte delle principali città. Un test elettorale importante, il primo davvero rilevante dal punto di vista numerico per il governo Zapatero dopo le elezioni politiche del 14 marzo 2004, e l’ultimo prima della fine del suo mandato, prevista per la prossima primavera. La luna di miele tra il “Partido Socialista Obrero Español” e gli elettori è finita da tempo: quando ha iniziato il processo di pace con l’Eta, Zapatero sapeva di giocarsi tutto, e ad oggi pare ben lontano dall’incassare la vincita. Il “Partido Popular” di Mariano Rajoy sognava di raccogliere proprio i frutti della sua serrata e violentissima critica alle trattative con i terroristi baschi instaurate dall’esecutivo socialista, cavalcando lo scontento popolare diffuso che in tutta Europa periodicamente punisce i governi in carica.


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