di Giuseppe Zaccagni

Sono in 57mila, parlano il Kaallisut, vivono in un paese (soggetto alla corona danese) di 2.166.086 chilometri quadrati coperto dai ghiacci, con una densità abitativa pari allo 0,03 per Kmq. Sono gli eschimesi (Inuit) che ora - pur tenendo conto di svariate considerazioni politiche ed economiche - cominciano una lunga marcia che li dovrebbe portare alla conquista della loro terra, spezzando i legami che li tengono uniti alla Danimarca. E così organizzano un referendum e alzano il tiro cercando di trovare i relativi meccanismi giuridici capaci di rendere vantaggiosa la loro eventuale separazione dalla cosiddetta madrepatria. Per ora si è all’inizio del processo pur se gli eschimesi locali sanno che il futuro è pieno di ostacoli. A cominciare dal fatto che manca una classe dirigente locale. E sono del tutto assenti i quadri tecnici che potrebbero garantire uno sviluppo autonomo.

di Alessandro Iacuelli

Il 7 maggio scorso, l'India ha testato con successo un missile terra-terra a capacità nucleare. E' l'Agni III, che può colpire obiettivi fino a 3.500km. Il missile è stato lanciato da una piattaforma mobile al largo dell'isola di Wheller, non lontana dalle coste dell'Orissa, nell'India orientale. L'Agni è un missile con un computer a bordo per la guida remota. Il missile, che può trasportare una testata nucleare di una tonnellata e mezza, è equipaggiato con attrezzature radar, dispositivi telemetrici e sistemi di collegamento con le navi militari a cui può inviare informazioni e dalle quali può essere guidato a distanza. E' l'ultima generazione dei missili Agni, testati negli anni scorsi e con capacità minori. Secondo fonti governative indiane, il lancio è stato un successo e apre diverse e migliori prospettive per il futuro della missilistica indiana e della corsa all'armamento.

di Giuseppe Zaccagni

Dalle urne della Serbia esce - dopo otto anni dalla fine del sistema politico-istituzionale di Milosevic - l’opzione europea. La vittoria elettorale spetta al blocco liberale - “Per una Serbia europea” - guidato dal presidente della Repubblica Boris Tadic - psicologo laureato a Belgrado - e mette all’angolo i nazionalisti del Partito Radicale (Srs) di Tomislav Nikolic. Si è quindi ad una svolta che, pur non offrendo una maggiore stabilità socio-politica, pone alcuni punti cardine nella gestione del paese. In pratica si avvia un processo verso Bruxelles, ma si tende a non sottovalutare il nodo kosovaro visto nel quadro dei rapporti con Pristina, con Tirana e, soprattutto, con Mosca e Washington. Tutto questo vuol dire che i serbi non rinunciano a restare fuori del consesso europeo, ma vogliono allo stesso tempo far notare alle diplomazie filoamericane che la questione del Kosovo è ancora lontana dall’essere accettata e risolta.

di Eugenio Roscini Vitali

“Non è vero che gli arabi odiano gli ebrei per motivi personali, religiosi o razziali. Essi ci considerano - e dal loro punto di vista non hanno torto - degli occidentali, degli stranieri, degli invasori che si sono impadroniti di un Paese arabo per farne uno Stato ebraico. Dal momento che noi siamo obbligati a realizzare i nostri obiettivi contro la volontà degli arabi, dobbiamo vivere in uno stato di guerra permanente”. Queste sono le parole del generale Moshe Dayan all’indomani della Guerra dei sei giorni, una dichiarazione che ancora oggi riassume perfettamente la situazione mediorientale e le reali possibilità di una pace negoziata. Da allora è cambiato ben poco, soprattutto per chi, già vittima della scriteriata spartizione dell’Impero ottomano avvenuta all’indomani della fine della Prima guerra mondiale, si è ritrovato a fare i conti con quel panarabismo estremo che ha caratterizzato gli anni cinquanta e sessanta e che ha sempre subordinato la causa palestinese ai propri interessi. La stessa gente che ha dovuto affrontare quella parte della comunità internazionale che sostenendo Israele ha cercato di lavarsi la coscienza da secoli di indiscriminato antigiudaismo e che ha subito quel sionismo politico che, legittimato dall’antisemitismo, non ha mai tenuto in considerazione l’esistenza di un popolo arabo in Palestina: “Una terra senza gente per gente senza terra”.

di Mariavittoria Orsolato

Dopo poche settimane dalla vittoria elettorale e a due mesi dal suo insediamento, il vescovo presidente Fernando Lugo si trova già ad affrontare i primi problemi politici del nuovo Paraguay. Se la sua è stata una vittoria schiacciante non si può dire altrettanto di quella più risicata ottenuta, nella corsa ai posti in Parlamento, dai suoi sostenitori della “Alianza Patriotica para el Cambio”. I risultati di Camera e Senato non sono stati infatti così netti ed ora le radicali riforme che erano state ventilate in campagna, sulla carta appaiono sbiadite dall’incertezza dei numeri: per eliminare povertà, corruzione e mala sanità, per attuare un’equa ripartizione delle proprietà agricole e per trattare con i vicini Brasile e Argentina sulla stringente questione energetica, il “vescovo rebelde” dovrebbe avere una maggioranza compatta in grado di garantire le riforme senza troppi disguidi in sede di voto. La più grande scommessa del monsignore per i prossimi 5 anni sarà infatti, secondo gli osservatori internazionali, quella di governare un Paese già troppo segnato dalla mancanza di concretezza.


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