di Agnese Licata

Waiting in limboland”, in attesa nel limbo, titola l’Economist. In effetti, non c’è altro modo per descrivere la situazione dello Zimbabwe in queste ore: un limbo. Novantanove seggi su 210 al Movement for the Democratic Change (Mdc) di Morgan Tsvangirai contro i 97 rassegnati allo Zanu-Pf del presidente Robert Gabriel Mugabe. Alla fine quindi, i risultati ufficiali hanno confermato, almeno in parte, la vittoria rivendicata dall’opposizione fin dal giorno successivo alle elezioni. Ma a guastare la festa di chi sperava in queste votazioni per chiudere il lungo capitolo Mugabe, c’è un vantaggio molto più risicato delle attese. Il rischio è che a fare da ago della bilancia siano dieci seggi conquistati da un piccolo partito. Si tratta della fazione uscita fuori dall’Mdc e guidata da Arthur Mutambara. E mentre continuano le voci di un Mugambe in trattativa per un salvacondotto, lo stato africano aspetta ancora – a quattro giorni dalle elezioni – che la commissione elettorale renda noti i risultati delle presidenziali. A completare il quadro di questo limbo, ci sono tre seggi non assegnati. In tre circoscrizioni, infatti, si dovrà organizzare un turno elettorale suppletivo, a causa della morte di alcuni candidati. Un ultimo seggio, infine, è stato assegnato a un candidato indipendente: l’ex ministro dell’Informazione, Jonathan Moyo.

di Michele Paris

Nonostante le energie del 71enne Senatore dell’Arizona John McCain nelle settimane successive alla conquista della nomination repubblicana siano state dedicate in gran parte al corteggiamento dell’ala più conservatrice del suo Partito, alcuni media statunitensi negli ultimi giorni gli hanno creato qualche imbarazzo nel riportare alla luce due episodi del suo recente passato nei quali l’ex eroe della guerra in Vietnam era stato molto vicino a passare tra le fila dei democratici. Il nervosismo nascosto a fatica da McCain di fronte alle domande indirizzategli qualche giorno fa circa il suo possibile abbandono del “G.O.P. Party” nel 2001 e i colloqui avuti con il democratico John Kerry nel 2004 per diventare il suo vice nella corsa alla Casa Bianca hanno mostrato tutte le difficoltà ad accreditarsi come paladino dei valori repubblicani di un candidato che nella sua attività al Congresso ha frequentemente rivelato posizioni “liberal” o, quanto meno, estremamente pragmatiche e prive di qualsiasi ideologismo.

di Alessandro Iacuelli

Un servizio televisivo mostra le scene, inequivocabili per chi queste cose le ha già viste in casa propria, del proliferare di discariche abusive, che traboccano di big bag, i grandi sacchi ad uso industriale riempiti di polveri, scarti, rifiuti speciali, spesso tossici. Stavolta, non è Napoli, e neanche Caserta. Non è la Campania. E' invece la Cisgiordania, ed il servizio televisivo va in onda su Al Jazeera, in lingua araba, ma arriva via satellite fino a noi. Fusti e big bag, rotti, aperti, dai quali fuoriescono polveri finissime, che si mischiano al terreno, contenitori che all’esterno recano scritte inequivocabilmente in ebraico. L'allarme non è nuovo. Due anni fa un rapporto di Friends of the Earth Medio Oriente, una organizzazione ambientalista di cui fanno parte israeliani, palestinesi e giordani, ha segnalato che lo scarico improprio di rifiuti tossici è diventato una minaccia per l'acqua potabile nella regione, che a dire il vero è anche molto poca. I rifiuti tossici infatti si infiltrano nei terreni, e sostanze quali cloro, arsenico ma anche metalli pesanti come cadmio, mercurio e piombo finiscono nelle falde acquifere.

di Giuseppe Zaccagni

Il mondo arabo - riunito a Damasco in occasione del suo 20esimo vertice che ha registrato tra l’altro la più bassa partecipazione di Capi di Stato - lancia una sorta di monito ad Israele, avvertendola che l'iniziativa di pace araba (quella del 2002 e riproposta nel 2007) che prevede il riconoscimento dello Stato ebraico da parte di tutto il mondo arabo in cambio della restituzione israeliana delle terre arabe strappate con la violenza, è da considerarsi in fase di revisione: "L'iniziativa è legata all'esecuzione da parte israeliana degli impegni inerenti a Israele nell'ambito delle risoluzioni internazionali per arrivare alla pace nella regione". E’ questa, in sintesi, l’idea portante di quella che è chiamata ora “Dichiarazione di Damasco” che annuncia la disponibilità araba.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Hitler scelse il 22 giugno per attaccare l’Urss. E in quel momento prese avvio l’operazione Barbarossa con 170 divisioni per un totale di tre milioni di soldati. Oggi, invece, il presidente americano scende, da solo, nel territorio dell’ex Unione Sovietica con il suo “Number one” e alcuni aerei di scorta. Comincia così la sua campagna in un Est che si avvia ad essere colonizzato prima di arrivare alla tappa decisiva del 2 aprile e precisamente quella che segna l’avvio del vertice Nato in terra romena. Bush inizia questa sua “ispezione” con l’Ucraina. Un paese che - quanto a dirigenza centrale - non vede l’ora di entrare a pieno titolo nella Nato, nonostante si registrino forti resistenze da parte della popolazione locale e, a livello di diplomazie straniere, della Germania e della Russia. Ma l’americano tira dritto per la sua strada. Sa che Kiev, assieme al governo georgiano di Tbilisi affidato al “Quisling” Saakasvili, ha presentato alla Nato la richiesta di iniziare un Membership Action Plan (Map) sul modello di quanto avvenuto con altri Paesi dell’Est europeo, poi divenuti membri a pieno titolo.


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