di Eugenio Roscini Vitali

Nel vicino Medio Oriente Condoleezza Rice è ormai di casa e quella di marzo è la tredicesima volta che si reca nella regione; l’ennesimo tentativo fatto dal Segretario di Stato americano per cercare di capire quello che è rimasto di un processo di pace che sembra ormai naufragato in un mare di promesse, ipocrisie e falsità. Che la crisi sia arrivata ad un punto di non ritorno lo dimostra il fatto che non appena atterrata all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv la Rice, anziché fare tappa in Israele, si è diretta a Ramallah dove ha incontrato Mahmoud Abbas. Al termine del meeting tenutosi nella Muqata’a, il quartier generale dell'Autorità Nazionale Palestinese, il Segretario di Stato americano ed il Presidente palestinese hanno rilasciato una conferenza stampa congiunta durante la quale Abbas ha ribadito che allo stato attuale non esistono le condizioni per poter continuare le trattative di pace con Israele, almeno fino a quando non verrà garantito un cessate il fuoco duraturo e che comprenda la Striscia di Gaza e la West Bank. Da parte palestinese il problema fondamentale rimane comunque la posizione di Israele: Gerusalemme continua ad anteporre la sua sicurezza a qualsiasi altra questione, dimenticando che questo è un tema di vitale importanza che non può essere superato con l’uso delle armi e che non deve essere considerato una prerogativa israeliana.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Il treno dell’alta velocità occidentale corre sui binari dell’Est post-sovietico in vista del summit del 2-3 aprile, convocato a Bucarest da una Nato che affretta i tempi per presentare il conto ai paesi che fanno già parte dell’Alleanza e a quelli che sono nella sala d’attesa. A Mosca arrivano i segretari di Stato americani - Condoleeza Rice e Robert Gates - per un blitz destinato a saggiare il terreno. Si incontrano con Putin (mezzo premier e mezzo presidente), con il nuovo capo del Cremlino, Medvedev (che è in attesa dell’incoronazione prevista per il 7 maggio) e con i ministri degli Esteri e della Difesa, Sergej Lavrov e Anatolij Serdiukov. Su un altro convoglio - ma questo diretto a Kiev, capitale dell’Ucraina - viaggia il presidente americano George W.Bush che con gli ucraini discuterà (il 31 marzo) del loro ingresso nella Nato. Poi tutti verso la capitale romena, compreso Putin, intenzionato (dopo aver “studiato” un documento inviatogli da Bush relativo ad alcuni punti-chiave) a presentare le future linee della politica russa nei confronti degli Usa, della Nato e dell’occidente filoamericano. Concluso il summit romeno si torna a casa, tutti meno Bush che vuole ispezionare la Croazia (in fila per essere ammessa nell’Olimpo della Nato) prima di lasciare la “sua” Europa e rientrare nella Casa Bianca. Ma le incursioni all’Est non sono finite.

di Elena Ferrara

Nelle acque ad est di Taiwan spuntano due portaerei statunitensi, mentre dalle urne delle elezioni presidenziali - che si sono appena svolte nell’isola coinvolgendo 17 milioni di abitanti - esce vincitore il leader dell'opposizione Ma Ying-jeou del Partito Nazionalista (Kuomintang) il quale va così a prendere il posto di Chen Shui-bian, che è stato in carica per due mandati dopo aver ingaggiato, per anni ed anni, una lotta contro il tempo e contro il governo cinese in relazione ad una eventuale riunificazione dell’isola. Si è quindi ad un nuovo giro di boa dal momento che il nuovo eletto - che è stato sindaco della capitale Taipei - sostiene una linea conciliatoria nei confronti di Pechino, dichiarandosi pronto a rafforzare la collaborazione economica con la metropoli, tanto che nel corso della campagna ha affermato di voler incrementare i collegamenti aerei dicendosi nello stesso tempo favorevole ad allentare il tetto che limita il valore degli investimenti taiwanesi sul continente, per creare un mercato comune tra le due rive dello Stretto. Taiwan rappresenta poi per la Cina una realtà di estremo valore geoeconomico dal momento che il paese - dalla fine degli anni '40 - ha conosciuto una notevole crescita economica, favorita da massicci investimenti statunitensi, conseguendo un rapido sviluppo industriale accompagnato dalla valorizzazione e dall'ammodernamento delle attività primarie.

di Giuseppe Zaccagni

In un Iran segnato da forti problemi economici, da una inflazione galoppante e da polemiche e accuse a livello interno e internazionale, il presidente Mahmud Ahmadinejad e i suoi seguaci (tutti su posizioni ispirate ad un populismo di stampo iraniano e affascinati da grandi ambizioni) cantano vittoria per aver superato la prima parte della prova elettorale, confermando il controllo sulla composizione parlamentare che li dovrebbe portare ad avere i due terzi dei seggi. Escono invece battuti dalle urne quei fondamentalisti alternativi (riformisti) che a Teheran, in particolare, si sono caratterizzati sfidando direttamente lo schieramento favorevole al presidente in carica. Ma i giochi politici, ovviamente, non sono conclusi e si prevedono - in vista di ulteriori ballottaggi - nuove azioni anche per il fatto che i riformisti mostrano di mantenere le posizioni che avevano nell'assemblea precedente, sperando così di avvicinarsi al 20 per cento dei seggi. Tutto fa dire al portavoce della Coalizione dei riformisti, Abdollah Nasseri, che "malgrado le restrizioni, siamo riusciti a disturbare il gioco dei nostri avversari". Seguono a ruota le polemiche sul valore del voto che, secondo la “Guida suprema” del Paese, l’ayatollah Ali Khamenei, (passato da “padre spirituale” di Ahmadinejad a sponsor del radicale moderato Larijani), deve essere considerato come "un dovere politico e religioso".

di Fabrizio Casari

L’Iraq, da cinque anni, non è più l’Iraq. Gli Usa, dopo cinque anni di guerra, non sono più gli Usa. Cinque anni di guerra possono essere descritti come lunghissimi, ingiusti, feroci, inutili agli scopi dichiarati, utili invece a quelli non dichiarati. La guerra in Iraq, infatti, è la rappresentazione per eccellenza di una guerra imperiale venduta come una crociata liberatrice, una guerra totale venduta politicamente e mediaticamente usando un’immensa menzogna. Quella che raccontava di guerra al terrorismo e armi di distruzione di massa: inesistenti le seconde, inventata la prima. Non c’erano armi di distruzione di massa e non c’era il terrorismo, mentre la sete di accaparramento del petrolio iracheno s’incrociava abilmente con quella delle compagnie petrolifere e delle aziende di contractors. Ma, soprattutto, cinque anni dopo, ci sono centomila iracheni uccisi, quattromila statunitensi morti, seimila reduci suicidi, tre trilioni di dollari di spese militari (ed è una stima per difetto), circa cinquecento miliardi di dollari di spese previste per l’assistenza psicologica ai reduci.


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