di Carlo Benedetti

Non c’è solo la Cecenia a tenere in tensione il Cremlino del nuovo arrivato, Medvedev. Perchè ora - a colpi di kalashnikov e granate - irrompe, sulla scena geopolitica e militare della Russia, il Daghestan, una regione del Caucaso settentrionale (la storia la definisce "paese delle montagne") che confina con la Cecenia e dove la rivolta islamica ha già gettato basi notevoli: con diramazioni nei gangli di quel potere locale che si ritrova arroccato nella capitale Makachkala. Ed è proprio qui (in una terra che si chiamava Avaria prima di prendere il nome musulmano di Daghestan) che esplodono i maggiori conflitti interetnici alimentati da guerriglieri che reclamano il distacco dalla Russia proponendo l’indipendenza come soluzione definitiva. Si ripete, pertanto, lo scenario ceceno (accentuato dalle soluzioni previste per il Kosovo dagli Usa, dalla Nato e, in generale, dalle diplomazie occidentali) e non è un caso se nelle valli daghestane vanno a combattere anche uomini che hanno già sconvolto altre aree caucasiche.

di Bianca Cerri

Spiagge assolate e mari di cristallo? Roba d’altri tempi, oggi la meta più trendy è il Tibet, dove i turisti si recano alla ricerca di pace e spiritualità. Arrampicarsi fino alle cime più alte guidate da uno sherpa pare permetta all’animo di conoscere la beatitudine assoluta. D’altra parte, gli occidentali sono convinti che il Tibet sia una specie di paradiso perduto incontaminato, dove gli abitanti conducono un’esistenza spartana ma armoniosa e non c’è bisogno di leggi per far rispettare l’ordine pubblico, basta il karma. Merito del buddismo, che ha sempre condannato sia la violenza che il materialismo. Insomma, il Tibet sarebbe la Shangri-la dei tempi moderni. Peccato che la storia racconti una verità assai diversa. Fino al 1959 infatti, quando il Dalai Lama andò in esilio, le leggi e l’economia tibetana erano nelle mani dell’oligarchia religiosa e delle autorità militari, tutti gli altri dovevano mettersi al loro servizio.

di Elena Ferrara

Freddi, caldi, congelati, esplosivi, annunciati, insoluti. Sono le definizioni che vengono fuori quando si parla di conflitti (attuali o secolari) sui quali si giocano, spesso, le sorti del mondo. E l’Asia, in questo contesto, è il continente a rischi maggiori. Le notizie che arrivano sono sempre più allarmanti perchè gli scontri in atto - in un crocevia di traffici di tutti i tipi - potrebbero trasformarsi in aperta guerre di secessione evidenziando le divisioni geopolitiche delle sfere di influenza. Sul tavolo dei maggiori conflitti asiatici sono più che mai aperti quelli che si verificano in Israele (un paese che continua la sua lotta armata contro la Palestina senza rispettare le leggi dell’Onu e le proteste della comunità internazionale) e in Iraq dove l’occupazione americana provoca ogni giorno di più danni epocali. E sullo sfondo - dove risalta anche il conflitto interno al Pakistan segnato dall’arroganza del generale Musharraf - si evidenzia sempre più il conflitto con la Turchia che vede i curdi sviluppare la loro lotta per ottenere un proprio territorio nazionale.

di Carlo Benedetti

MOSCA. L’incoronazione è fissata per il 7 maggio, ma già Dmitrij Medvedev - nuovo presidente russo - fa l’inventario della dote che gli spetta e che deve gestire insieme alla first lady. Tutto era nelle mani di Putin ed ora c’è il passaggio dei poteri: dall’hard power - quello militare ed economico - a quello del soft power, basato sui flussi informativi, sul prestigio e sul consenso. Medvedev entra così - pur se già ben collaudato per una simile impresa - nel mondo dello sproporzionato potere del Cremlino. Ma prima di avere in mano il software di base, valido per il funzionamento dell’intera macchina russa, prende contatto con l’hardware e cioè con l’insieme delle strutture “fisiche”, concrete. Ed ecco sedi, palazzi, ville, aerei, elicotteri, treni, navi ed auto. E’ un elenco ben nutrito e che i russi, oggi, cominciano a conoscere grazie ad alcune pubblicazioni che denunciano i privilegi della casta. Sotto tiro, quindi, c’è la nuova presidenza ma le schegge vanno a colpire anche quella vecchia, di Putin.

di Michele Paris

Le primarie vinte da Hillary Clinton lo scorso 4 marzo in Ohio, Texas e Rhode Island, proprio quando l’ex First Lady sembrava ormai sull’orlo della sconfitta, sembrano avere segnato una svolta importante nella corsa alla nomination in casa democratica, quanto meno nei toni della campagna elettorale e nei temi al centro del dibattito. Se la Senatrice di New York ha sostanzialmente centrato l’obiettivo di interrompere il cammino travolgente di Barack Obama seguito alle votazioni di febbraio sollevando molti dubbi sulla sua presunta inesperienza e sulle effettive chances di prevalere su un candidato repubblicano capace di attrarre una fetta consistente di elettorato indipendente come John McCain, il suo percorso verso la conquista della nomination rimane estremamente complicato alla luce del distacco nel numero dei delegati che ancora la divide dal suo avversario. Con 10 primarie ancora in programma da qui ai primi di giugno, con 689 delegati da assegnare, ed uno scenario in grande fermento in seguito al discorso di Obama sulla questione razziale negli USA e alla quasi certezza della mancata ripetizione delle consultazioni in Florida e Michigan, gli equilibri potrebbero però cambiare non poco in vista della Convention di fine agosto quando con ogni probabilità i Superdelegati del Partito Democratico saranno chiamati a mettere la parola fine sul testa a testa tra Hillary e Obama.


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