di Eugenio Roscini Vitali

La rivoluzione della giustizia sociale, della lotta alla corruzione e al dispotismo; la rivoluzione che spazza via una monarchia millenaria e frantuma un regime asservito all’interesse straniero, che umilia le grandi potenze e sfida l’occidente, che vive in bilico tra conoscenza mistica e progresso, tra anticolonialismo e ideologia, la rivoluzione khomeinista compie trent’anni. Trent’anni segnati da una forte conflittualità interna, un contrasto dovuto alla differente legittimità in cui convivono i diversi organi dello Stato, quelli politici e quelli religiosi, quelli nati dal consenso popolare e quelli dovuti alla dirompente innovazione che ha caratterizzato il pensiero rivoluzionario khomeinista: il principio del giureconsulto, quello secondo il quale durante l’Occultazione del Dodicesimo Imam è il migliore tra i dotti religiosi a guidare il popolo. Un principio che dividerà lo stesso clero sciita e che indurrà parte degli specialisti del sacro ad abbandonare la tradizione quietista che impone l’obbedienza allo shah per assumere il controllo e la gestione diretta del potere.

di Luca Mazzucato

LOS ANGELES. Che la presidenza Obama stia seguendo una dottrina dello “shock and awe” al rovescio é tutti i giorni sulle prime pagine dei giornali: la chiusura di Guantanamo, l'abolizione della tortura e delle “extraordinary renditions,” il ritiro dall'Iraq, il colossale piano keynesiano di stimolo dell'economia. Tutte queste misure hanno annichilito i repubblicani e messo sotto shock l'opinione pubblica, trasmettendo un netto segnale di cambiamento per ridare fiducia alla nazione. Ma la prima legge varata dall'amministrazione democratica, meno vistosa ma molto efficace, inciderà profondamente sulla qualità della vita e sui diritti di quella parte della popolazione che viene discriminata ogni giorno sul luogo di lavoro. Si tratta della legge Ledbetter sulle pari opportunità. Lilly Ledbetter è una signora compita di mezz'età, sembra una maestra in pensione. Alla convention democratica che incoronò Barack Obama l'estate scorsa, pronunciò un commovente discorso con il suo forte accento del sud, raccontando la discriminazione subita per anni e la battaglia legale per i suoi diritti, che le fu negata dalla Corte Suprema e dai Repubblicani al Senato. Questa è la sua storia.

di Eugenio Roscini Vitali

Il presidente americano Barack Obama è pronto a fare pressioni affinché i leader dei maggiori partiti israeliani diano il via alla formazione di un governo di unità nazionale, unico modo per uscire dall’empasse istituzionale nel quale è caduto lo Stato ebraico e per fornire agli Usa un partner credibile per proseguire (o riprendere) i colloqui di pace con i palestinesi. E’ questo il primo vero cambiamento nella politica estera americana: forzare la mano nel tentativo di risolvere problemi invalicabili, senza pregiudizi o prese di posizione precostituite. La sintesi sta proprio nello slogan che ha accompagnato la campagna elettorale israeliana, il messaggio che ha dominato i cartelloni pubblicitari che ritraevano Tzipi Livni, Ehud Barak e Benjamin “Bibi” Netanyahu: “Il momento della verità”. L’equilibrio è tale che a questo punto l’unica “verità” nella meno auspicata delle soluzioni, una coesistenza forzata tra le diverse anime di Israele e che comunque escluda le frange più estreme, quelle più radicali, quelle con le quali neanche Barak Obama è disposto a trattare.

di Eugenio Roscini Vitali

Dopo un mese di trattative Hamas ed Israele hanno raggiunto l’accordo per un cessate il fuoco duraturo, una tregua di diciotto mesi che prevede la riapertura di sei varchi di accesso alla Striscia di Gaza, la fine delle attività militari e la conseguente interruzione del lancio di razzi su Israele. L’unica incertezza rimane la gestione del contestato valico di Rafah, l’area indicata dai servizi segreti israeliani come canale i rifornimento per l’arsenale dei gruppi estremisti palestinesi e teatro nel 2008 di una rivolta che portò all’abbattimento del muro di metallo alto otto metri che separa l’Egitto dal territorio palestinese. Oltre alla comune volontà di pace e alle pressioni della comunità internazionale, l’intesa è stata finalizzata anche a causa della critica situazione politica israeliana, dovuta all’incertezza causata dalla difficile creazione di una coalizione di governo, e la necessità di dare il via alla ricostruzione della Striscia, risultato essenziale perché Hamas veda legittimata la sua posizione all’interno dei Territori palestinesi.

di Stefania Pavone

I risultati elettorali delle politiche israeliane affermano una tendenza certa: l’avanzata dell’aggregato della destra nelle sue espressioni laiche e religiose. A poco servirà, forse, quell’unico seggio con cui Tzipi Livni ha sopravanzato il leader del Likud Nethanyau. I ventidue giorni dell’offensiva “Piombo fuso” hanno testimoniato, nell’esito del voto, la vittoria del linguaggio della violenza e della guerra senza quartiere contro il popolo palestinese. Il futuro della pace è fosco, avvolto nel buio di un paese la cui campagna elettorale si è svolta tutta sul tema della sicurezza e per nulla sulle questioni sociali che pure urgono nel paese. Secondo molti esperti, l’analisi del voto mostra l’inquietudine di Israele rispetto ai propri leader, una sorta di frustrazione generale verso la classe dirigente del paese. Il consenso compatto sotto cui è avvenuta l’operazione militare a Gaza, non ha saputo nascondere quella frammentazione del quadro politico, nelle cui viscere si sono nutrititi e radicati i toni violenti della destra ultranazionalista di Lieberman.


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