di Piero Morandini

La Repubblica Democratica del Congo, l’ex Zaire del dittatore Mobutu e, ancor prima, l’ex Congo belga di re Leopoldo II, è attualmente uno dei paesi meno sviluppati dell’Africa e quindi del mondo. Il territorio è pero ricco d’acqua e di minerali preziosi: oro, diamanti, rame, stagno, coltan, bauxite, ferro, manganese, carbone, petrolio, coblato. Perché gli abitanti di uno dei paesi potenzialmente più ricchi del pianeta vivono in un tale sottosviluppo cronico? Quali fattori naturali, storici, politici, economici hanno provocato questa situazione? La RDC è un territorio enorme, attraversato da innumerevoli corsi d’acqua (il più importante è il fiume Congo e i suoi affluenti), coperto per gran parte da una fittissima foresta pluviale, praticamente senza accesso al mare ma con cinque grandi laghi. La conformazione geografica del paese ha influito sulla sua storia passata e recente. Ragioni naturali hanno condizionato dal principio, dalla nascita dell’agricoltura con la conseguente sedentarizzazione dell’essere umano 13.000 anni orsono, il destino dei nativi.

di Carlo Benedetti

Gli anni dell’Austria-felix, il lungo periodo della supremazia culturale dell’area danubiana, i circoli di Budapest e di Bratislava, la Praga degli intellettuali: tanti e tanti i ricordi storici e culturali di un’area di influenza germanica al centro del nostro continente. Oggi rimane ben poco di questo spirito mitteleuropeo. Tanto più che tornano ad esplodere nazionalismi di ogni sorta accompagnati da precise rivendicazioni autonomiste. C’è una “guerra” tra magiari e slovacchi dove entrano in ballo rivendicazioni di ogni sorta. E Budapest e Bratislava, che potevano sperare in una fase di tranquillità dovuta alle nuove relazioni intereuropee, si ritrovano così a fare i conti con una storia lontana. Si torna a parlare di confini, di terre, di rivincite mentre nelle pianure danubiane tornano i venti dell’estremismo e della violenza.

di Eugenio Roscini Vitali

Il controverso risultato del 12 giugno segna senza dubbio l’inizio di un nuovo capitolo nella storia dell’Iran, un passaggio importante verso una controrivoluzione culturale che sembra decisa a scardinare l’architettura istituzionale di un regime che rappresenta la parte peggiore della Rivoluzione islamica del 1979. A dar vita ai cortei e alle manifestazioni di piazza sono stati le ragazze ed i ragazzi di Teheran, studenti ed universitari che con grande coraggio hanno deciso di protestare contro il verdetto di una elezione che ritengono manipolata; un verdetto che, a sorpresa, sancisce la vittoria della destra radicale e permette a Mahmoud Ahmadinejad di essere eletto, per la seconda volta consecutiva, presidente della Repubblica islamica. Nel 2005 Ahmadinejad aveva ottenuto il successo proponendo una piattaforma populista che prometteva di battersi contro un sistema corrotto ed inefficiente, un programma di re-distribuzione verso il basso delle ricchezze che aveva trovato l’appoggio dell’apparato militare ed incantato le fasce più povere del paese, le classi sociali meno abbienti dove la gente paga ogni giorno con la povertà le scelte di un regime soverchiante. I risultati? Quattro anni di presidenza fallimentari, sotto ogni punto di vista: economico, politico e sociale. E allora perché questa riconferma?

di mazzetta

La rivolta iraniana non accenna a placarsi nonostante la repressione. Come in una partita a scacchi che non si concluderà sicuramente in pochi giorni, le pedine si muovono sullo scacchiere senza che agli spettatori sia dato capire le prossime mosse e le probabilità di vittoria dei giocatori e la partita risulta ancora più indecifrabile a chi non conosca la complessità della politica iraniana, spesso esemplificata oltre la realtà per esigenze di propaganda. A pochi giorni dall'eruzione della rivolta i rivali istituzionali rimangono sulle loro posizioni, ma alzano il livello dello scontro. Se da un lato Ahmadinejad iscrive il rivale Mousavi nell'elenco dei criminali e Khamenei appare ormai aver scelto il campo del presidente ufficialmente rieletto, sul fronte avverso Mousavi non desiste e si dichiara pronto al martirio, mentre tutto attorno a lui è un frenico trattare sottobanco per minare gli equilibri esistenti nella repubblica teocratica iraniana.

di Sergio Ferrari e Gerald Fioretta

La nuova fase che sta vivendo il Nicaragua, da quando il sandinismo recuperò il governo nelle elezioni del 5 novembre 2006, è una grande opportunità storica “per iniziare un processo che ci aiuti ad uscire dalla povertà eterna alla quale siamo condannati”, segnala enfaticamente William Grisby. A 49 anni, il direttore della radio La Primerísima e redattore capo della rivista Correo, è uno degli analisti più acuti della congiuntura nicaraguense. Il suo programma “Sin fronteras” - trasmesso ogni notte - costituisce un riferimento per l’interpretazione politica della vicenda nicaraguense. In quest’intervista, Grigsby analizza le grandi sfide, le potenzialità e i problemi attuali del suo paese, che trascina nella sua memoria, guerre, cataclismi naturali e diciassette anni di “una brutale politica neoliberale fino a che nel 2007 il Frente Sandinista non recuperò il Governo”.


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