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Secondo un articolo anonimo e con pochi precedenti, apparso mercoledì sulle pagine del New York Times, Donald Trump sarebbe stato di fatto messo sotto la tutela di una cosiddetta “resistenza” all’interno della Casa Bianca che si è auto-assegnata il compito di “frustrare parte dell’agenda” del presidente e di contenere “le sue peggiori inclinazioni”.
L’editoriale sarebbe stato scritto da un esponente “senior” e di nomina politica dell’amministrazione repubblicana, vale a dire un membro del gabinetto o un consigliere di primo piano del presidente. Se intrighi, rivalità e divisioni alla Casa Bianca sono note e documentate da tempo, quanto apparso questa settimana sul Times porta tutto ciò a un altro livello e, soprattutto, rivela l’esistenza di possibili manovre interne per rimuovere Trump dal suo incarico.
L’anonimo autore dell’articolo e gli altri appartenenti alla “resistenza” operano dunque per ostacolare determinate decisioni che il presidente tenderebbe a prendere in maniera impulsiva e sconsiderata. Questa caratterizzazione del clima che regna alla Casa Bianca è in linea con le anticipazioni del nuovo libro del noto giornalista del Washington Post, Bob Woodward, apparse nei giorni scorsi sulla stampa USA e che avevano ugualmente scatenato le ire di Trump.
Nel libro di Woodward si cita ad esempio l’ex consigliere economico di Trump, Gary Cohn, il quale racconta di avere sottratto dei documenti dalla scrivania del presidente per evitare l’implementazione di sanzioni commerciali ai danni di alleati come Canada, Corea del Sud e Messico. Cohn lo aveva fatto per “proteggere il paese” e Trump non si sarebbe nemmeno reso conto di quanto accaduto.
L’editoriale del New York Times descrive la leadership di Trump come “impetuosa, contraddittoria, meschina e inefficace”, bilanciata solo da alcuni membri dello staff e del gabinetto che vengono definiti gli unici “adulti nella stanza” con il compito di “impedire il disastro”.
Un’altra rivelazione spiega a sufficienza il livello di crisi che sta attraversando il governo americano. La cosiddetta “resistenza” interna alla Casa Bianca avrebbe discusso in varie occasione l’opportunità di invocare il 25esimo emendamento alla Costituzione americana che stabilisce le procedure per la rimozione di un presidente, senza l’intervento del Congresso, in caso di morte o incapacità di assolvere alle proprie funzioni.
Il piano sarebbe stato alla fine abbandonato nel timore di innescare una crisi costituzionale. L’obiettivo degli oppositori interni del presidente resta così quello di “guidare l’amministrazione nella giusta direzione”, finché, “in un modo o nell’altro, tutto sarà finito”. Quest’ultimo accenno sembra fare riferimento alla fine del primo mandato di Trump, ma lascia intendere nel contempo il sostegno a una qualche altra azione diretta alla rimozione del presidente.
La pubblicazione di questo editoriale rappresenta, assieme agli stralci del libro di Woodward apparsi sul giornale di proprietà del numero uno di Amazon, Jeff Bezos, un’intensificazione dell’offensiva lanciata contro Trump da una parte considerevole dell’apparato di potere americano.
A essa fanno capo sezioni dell’intelligence, dei vertici militari e della sicurezza nazionale, ma anche buona parte del Partito Repubblicano, quasi tutto quello Democratico, i media “mainstream” e quella parte del mondo degli affari contraria alla deriva ultra-nazionalista e protezionistica dell’amministrazione Trump. Che il Times e il Post fungano da organi di propaganda di queste manovre è tutt’altro che sorprendente, visto anche il loro ruolo nel promuovere la caccia alle streghe del “Russiagate”, cioè l’altra principale linea di attacco contro la Casa Bianca.
Il ricorso alle accuse di non essere in grado di svolgere il proprio incarico e di avere perso totalmente il controllo sul suo staff, allo stesso modo di quelle relative alle presunte collusioni con Mosca, sono funzionali alla creazione di un clima che giustifichi possibili azioni dirette alla deposizione di Trump. La retorica dei rivali di quest’ultimo include poi puntualmente riferimenti al patriottismo, alla democrazia o alla necessità di salvaguardare l’unità del paese.
In realtà, la fazione dell’establishment che sta conducendo questa guerra interna alla classe dirigente USA non è meno reazionaria di Trump e della sua cerchia. Infatti, le critiche non riguardano mai le politiche classiste, anti-sociali e guerrafondaie attuate o pianificate dal presidente. Al contrario, l’obiettivo è di indirizzare la Casa Bianca su binari strategici ben precisi, soprattutto riguardo la politica estera, ricalibrandola a favore dei tradizionali alleati e contro la Russia di Putin.
La natura della “resistenza” a cui ha dato clamorosamente spazio il New York Times si deduce da un passaggio fondamentale dell’articolo dall’autore anonimo. Quest’ultimo chiarisce, se mai fosse stato necessario, come la sua e quella dei suoi colleghi alla Casa Bianca “non sia la resistenza popolare della sinistra”, ovvero quella che negli USA vede con orrore il razzismo, la violenza e l’inclinazione totalmente pro-business dell’amministrazione Trump.
Questa “resistenza”, che molti hanno assimilato al cosiddetto “stato profondo” o “deep state”, è anzi perfettamente in sintonia con “molte delle politiche” di Trump che avrebbero “già reso l’America più sicura e prospera”. Le politiche che andrebbero nella direzione giusta hanno a che fare in primo luogo con il massiccio incremento delle spese militari, ma anche con il colossale taglio alle tasse per i redditi più alti, con il progressivo smantellamento del welfare e la deregolamentazione di ogni settore dell’economia.
Il vero problema, suggerisce l’ignoto oppositore interno di Trump, è principalmente la “politica estera” e l’atteggiamento non abbastanza fermo e aggressivo nei confronti di rivali strategici come Russia e Cina, mentre in parallelo vengono messi in discussione rapporti e alleanze consolidate, come con i governi europei.
Come già anticipato, Trump e i suoi fedelissimi hanno accolto l’articolo del Times, così come il libro di Bob Woodward, con estrema irritazione, sia per la gravità del contenuto sia come riflesso di una crisi politica sempre più profonda. Il presidente ha minacciato di ordinare al giornale newyorchese di rivelare la fonte dell’editoriale sulla base delle necessità della “sicurezza nazionale”.
In uno dei vari tweet prodotti mercoledì, inoltre, Trump ha sollevato l’ipotesi del “tradimento” da parte dell’anonimo membro della sua amministrazione. La portavoce della Casa Bianca, Sarah Sanders, ha invece riservato parole durissime per l’autore del pezzo, definendolo “patetico”, “irresponsabile”, “egoista” e invitandolo a rassegnare le proprie dimissioni.
Gli sviluppi di questi giorni a Washington indicano quindi un nuovo aggravarsi del conflitto politico interno, se non altro per il coincidere dei nuovi attacchi contro Trump con importanti eventi che, da un lato, rischiano di umiliare il presidente – come l’imminente assemblea generale dell’ONU – e dall’altro fanno aumentare le pressioni e richiedono decisioni delicate, come l’offensiva militare nella provincia siriana di Idlib pianificata da Mosca e Damasco.
Com’è ovvio, le ultime rivelazioni su Trump avranno implicazioni anche sul voto di “metà mandato” del prossimo novembre. Nonostante gli attacchi rischino di trasformarsi in un boomerang per gli oppositori del presidente, è evidente l’intenzione di preparare il campo a un possibile procedimento di “impeachment” nel caso i democratici riuscissero a riconquistare la maggioranza nel nuovo Congresso che si insedierà all’inizio del prossimo anno.
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- Scritto da Fabrizio Casari
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Le Nazioni Unite non ritengono il Nicaragua un “caso” su cui discutere e deliberare. Smentendo l’attività dei suoi solerti funzionari che hanno stilato un rapporto sulla base di quanto dettato dall’opposizione e dai suoi finti organismi per i diritti umani, il Consiglio di Sicurezza ha respinto la richiesta USA di discutere della situazione in Nicaragua. E’ una solenne sconfitta per i piani d’ingerenza statunitensi e rappresenta anche una sostanziale smentita dell’attività di alcuni funzionari ONU e OEA che, invece di investigare i fatti, elaborano progetti politici.
La vittoria diplomatica nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU rappresenta un ostacolo oggettivo per i golpisti e per la strategia statunitense che vuole esercitare una pressione internazionale tale da mettere il Presidente Ortega sulla difensiva. Il governo però, dopo aver dato segno di disponibilità nell’accogliere delegazioni delle diverse istituzioni internazionali ed aver ricevuto in cambio ostilità politica preconcetta e scorrettezza nei procedimenti investigativi, ha deciso di rendersi indisponibile ad una sorta di osservazione speciale, ipocrita e di parte, esigendo il riconoscimento delle istituzioni nicaraguensi e il rispetto della sua sovranità nazionale imprescindibili nelle relazioni internazionali.
Nel frattempo, a Managua, mentre a parole la destra golpista e la chiesa chiedono la riapertura del dialogo nazionale, con singolare simultaneità, l’arrivo di 1,5 milioni di dollari provenenti dalla USAID e destinati al MRS, ha coinciso con il rigurgito di incidenti ed atti di teppismo nel corso di una manifestazione della cosiddetta Alleanza Civica a Managua. Ma se quest’ultima provocazione doveva essere la dimostrazione che la contesa politica è ancora viva, l’appuntamento è fallito. E’ servita solo a dimostrare come il legame tra i proclami dell’Alleanza Civica e i delinquenti che si scatenano nelle strade siano strutturali e non circostanziali.
Il Paese è in cammino verso la piena normalità. Il governo ha dato il via all’unico dialogo nazionale possibile, definito “cammino della riconciliazione”, ovvero assemblee popolari ovunque dove gli esponenti religiosi, se vorranno, potranno partecipare e contribuire. Parallelamente si svolgeranno le assemblee per la sicurezza tra le popolazioni e la polizia nazionale, mentre la Procura Generale della Repubblica continuerà ad assegnare i titoli di proprietà alle famiglie aventi diritto. Sostegno pieno all’iniziativa da parte degli evangelici: il loro presidente, Miguel Angel Casco, ha elogiato “il dialogo tra il popolo” ed ha affermato che “con i distruttori e i golpisti non si deve dialogare. I golpisti dicono di amare il Nicaragua ma preferiscono vederla distrutta in mille pezzi piuttosto che governata dal Frente Sandinista, a causa dell’odio malato che abita nei loro cuori”.
A rendere impraticabile il dialogo richiesto dalla destra, vi sono le condizioni poste che non tengono minimamente conto della situazione nel Paese. Nella recente lettera dei golpisti al Presidente Ortega, si chiedeva la ripresa del dialogo con la Chiesa nel ruolo di mediatrice, la liberazione dei delinquenti arrestati (trasformati per l’occasione in prigionieri politici) e l’anticipazione delle elezioni. Esattamente quanto chiesto in Aprile, a parte l’abbandono del paese da parte del Presidente. Come se nel mentre il golpe non fosse stato schiacciato, come se la maggior parte della cupola golpista non fosse già scappata tra USA e Costa Rica, come se la fantomatica Alleanza, della quale non si conoscono numeri, rappresentanza e riferimenti, fosse un interlocutore credibile.
Le richieste dimostrano che il dialogo è per l’opposizione un asset di propaganda per acquisire un ruolo politico al fine di smuovere i portafogli stranieri e il governo, comprensibilmente, non ha risposto. La propaganda sfacciata non ha a che vedere con il dialogo. D’altra parte perché esso potesse ipotizzarsi nella forma fin qui conosciuta sarebbe necessaria la presenza di almeno tre attori: il governo, l’opposizione e i mediatori che mediano tra i due poli. Il governo c’è, è evidente. Ma gli altri soggetti sono in grado di rappresentare i loro ambiti?
L’opposizione
Divisa al suo interno, non ha identità, non esprime un blocco politico riconoscibile e riconosciuto. Non ci sono partiti che, forti del loro insediamento sociale ed elettorale, legalmente rappresentati nelle istituzioni, possano sedersi al tavolo. I liberali sono due partiti in guerra tra loro. I conservatori sono ridotti a percentuali ridicole. I partiti che si sono presentati alle elezioni in opposizione al Frente sono accusati dalla stessa destra golpista di essere stati al giogo dei sandinisti. Quindi con chi dialogare?
L’MRS è una organizzazione di ultradestra golpista diretta da esponenti delle famiglie ricche del paese (Cuadra, Chamorro, Belli, Cardenal etc..). Furono sandinisti quando il Fsln governava e smisero di esserlo quando finì all’opposizione e oggi provano a riconsegnare il Paese alle loro famiglie oligarchiche. Il loro programma è solo odio e rancore. Godono dell’appoggio statunitense ed europeo, sono uno dei maggiori collettori di denaro e relazioni e proprietari occulti delle diverse ONG, fondate allo scopo di ottenere appoggi internazionali e denaro. Ma rappresentano al massimo il 2% dell’elettorato e di conseguenza è difficile cucirgli un ruolo politico che gli stessi liberali non gli riconoscono.
Gli imprenditori
Il Cosep? Rappresenta le aziende che producono il 30% del PIL, che per il 70% è prodotto da chi del Cosep non fa parte, ovvero dalle micro imprese, cooperative e piccole società e lavoro informale. La stessa incidenza delle imprese straniere nelle zone franche supera di gran lunga, per occupazione e investimenti, il valore delle associate Cosep. Benché la gestione di questi mesi sia stata disastrosa, generando una pesante sconfitta politica e d’immagine e perdite multimilionarie che hanno prodotto oltre 3000 licenziamenti, il direttivo ha appena confermato Aguerri come presidente e addirittura promosso Healy a vice. Con ciò confermando la linea golpista fin qui seguita, che pone gli imprenditori oltre il margine possibile di ogni dialogo.
Nelle scelte dell’associazione hanno certamente inciso le pressioni statunitensi, che con la Nica Act (legge che ordina agli USA di bloccare i prestiti degli organismi internazionali al Nicaragua) votata dal Congresso e in attesa del voto al Senato e la piratesca legge Magnitsky (sanziona a totale capriccio degli USA ipotetici “corrotti”, come del resto già succede con “terroristi” e “violatori di diritti umani”, tutti guarda caso avversari di Washington ndr) hanno contribuito a determinare un brusco cambio di rotta per chi, con il governo di riconciliazione, aveva ottenuto diversi vantaggi e a cui, fino a 10 giorni prima del tentato golpe, gli riconosceva successi straordinari, guardandosi bene dal definirlo una “dittatura”.
Ma la secolare dipendenza dai voleri statunitensi, la naturale inclinazione verso la dimensione di colonizzati dall’esterno e padroni verso l’interno, il noto fastidio per il concetto di patria e di sovranità nazionale, ha riproposto il ruolo del Cosep nella sua versione storica. I cosiddetti imprenditori nicaraguensi sono sempre stati solo latifondisti e burguesia compradora. Non dispongono di nessuna idea di come sviluppare il Paese che non sia la consegna della sua economia nelle mani del latifondo e l’inginocchiamento di fronte a Washington, nessuna idea di modernizzazione, bensì la riedizione del rapporto schiavistico senza nemmeno curarsi della dimensione 2.0.
Del resto hanno governato per 16 anni il paese e, nonostante la condonazione del suo debito e i massicci aiuti economici venuti da USA ed Europa, lasciarono il Nicaragua in un abisso: corruzione ai massimi livelli, saccheggio delle risorse pubbliche, assenza di elettricità, istruzione e salute pubblica, infrastruttura viaria vicina al collasso, insicurezza diffusa e reddito procapite pari a quello di Haiti, il paese più povero dell’intero continente americano. Proprio in considerazione di ciò il popolo nicaraguense si guarda bene dall’andargli dietro.
La Chiesa
Quanto alla Chiesa, che ormai divide con le comunità evangeliche la leadership religiosa, la sua credibilità è totalmente compromessa, visto il sostegno ai gruppi golpisti. Solo il Nunzio inviato da Papa Francesco potrebbe sedere in un ipotetico dialogo. Non è possibile, infatti, far partecipare i somozisti Baez, Alvarez o Mata in rappresentanza della chiesa.
Sono stati istigatori di odio al riparo dell’immunità diplomatica, alcuni loro sottoposti hanno partecipato direttamente alle operazioni paramilitari ed altri persino alle torture dei sandinisti prigionieri. La copertura politica, logistica e mediatica che le gerarchie ecclesiali hanno offerto al tentato colpo di stato ne rende oggettivamente impossibile qualunque loro ruolo di mediazione. Non sono mediatori, sono parte integrante e attiva della strategia golpista.
Di quale dialogo si parla?
Appare quindi strumentale la richiesta dell’opposizione di aprire di nuovo il tavolo del dialogo nazionale. Il Presidente Ortega, sin dalla vittoria elettorale del 2006, aveva stabilito una modalità di governo basata sul dialogo e sulla concertazione tra le diverse forze sociali (sindacati, imprese, governo) in considerazione della necessità storica di chiudere con le scorie del conflitto armato e del sottosviluppo cronico del Paese.
Ed effettivamente così avvenne: quel modello di governance ridusse al minimo il conflitto sociale, stabilì le fondamenta della sovranità energetica ed alimentare (oggi il Nicaragua produce la maggior parte dell’energia che utilizza e del cibo che consuma) e diede il via alla più grande opera di modernizzazione del Paese che, solo per citare un dato tra i tanti, pone il Nicaragua al sesto posto su 144 nel Gender gap report 2017 del Foro Economico Mondiale.
Nonostante l’intento golpista di Cosep, destra e Chiesa, un tavolo di conciliazione e mediazione era stato proposto dal governo anche nei primi giorni della crisi, nella speranza che fermare gli scontri potesse essere tema caro a tutti. Venne però rifiutato, tanto dai golpisti in abiti civili come da quelli in tonaca. Furono infatti gli esponenti del M19 a dichiarare, nella prima riunione, che erano disposti solo ad accettare dimissioni e fuga del governo e fu la Chiesa a sospenderlo unilateralmente contro il parere del governo. Riproporlo ora che si è perso, dopo averlo rifiutato quando si sperava di vincere, non è serio.
Il dialogo non è una passerella mediatica, bensì un momento decisivo per una politica di concertazione; ha valore politico sistemico di per sé e non può diventare un autobus della propaganda su cui salire o scendere a piacimento. Proprio quel modello di governo, che aveva nel dialogo tra le parti sociali una leva determinante, è stato la prima vittima del tentativo di colpo di stato. All’ordine del giorno c’è il recupero della tranquillità e della pace e la ripresa dell’economia danneggiata dai golpisti, non la legittimazione del golpismo con una passerella mediatica per battere cassa a Washington e Miami.
Il tempo necessario a curare le ferite e a depurare l’aria dall’odio dei golpisti stabilirà le condizioni per il confronto politico interno al paese. Il Nicaragua riprende la strada interrotta verso il suo sviluppo, ma ricominciare a camminare non comporta chiudere gli occhi e guardare al futuro non implica dimenticare il passato. Riconciliazione quindi, ma non impunità: questa è la strada su cui l’idea di nazione sfiderà e sconfiggerà, come sempre in passato, l’ossessione statunitense di una impossibile annessione.
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- Scritto da Michele Paris
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Con una serie di bombardamenti contro le postazioni di al-Qaeda in Siria nord-occidentale, la Russia e il regime di Assad hanno di fatto iniziato questa settimana la prima fase della fondamentale offensiva che dovrebbe riportare il governatorato di Idlib sotto il controllo di Damasco dopo oltre sette anni di guerra istigata dall’Occidente.
Le operazioni russe sono solo l’antipasto di una campagna che deve ancora essere delineata dalle potenze coinvolte nel conflitto attraverso la riconciliazione di interessi disparati e contrastanti. L’incontro di venerdì a Teheran tra i presidenti di Russia, Iran e Turchia servirà probabilmente a chiarire le rispettive posizioni e a pianificare i tempi e le modalità di un attacco che potrebbe risultare decisivo per l’esito finale della guerra.
A Idlib, com’è noto, sono stati fatti convergere decine di migliaia di guerriglieri delle milizie “ribelli” anti-Assad costretti ad abbandonare i territori man mano riconquistati dal regime. Il governatorato settentrionale è l’unico ancora controllato dalle organizzazioni armate dell’opposizione e in questo stesso territorio sono giunti anche civili sfollati da altre località dopo gli scontri dei mesi scorsi quasi sempre favorevoli alle forze governative.
Nonostante in queste settimane i governi occidentali abbiano ripetuto in varie occasioni che l’offensiva di Idlib rischia di provocare un bagno di sangue, Mosca e Damasco hanno da tempo creato corridori umanitari per l’evacuazione della popolazione civile. Alla maggior parte di essa i “ribelli” continuano però a impedire di lasciare la provincia. Questi ultimi hanno anche respinto qualsiasi accordo con Assad e il Cremlino per consentire l’allontanamento dei civili.
Attorno alla sorte di Idlib sono in corso frenetiche manovre diplomatiche e militari. Tutte le parti impegnate nella crisi condividono ufficialmente l’idea che la presenza jihadista nel governatorato debba essere in qualche modo affrontata ed eliminata. Per Siria, Russia e Iran il tempo delle trattative è scaduto e l’opzione militare appare ormai l’unica in grado di ripulire l’area dalle milizie fondamentaliste e ristabilire su di essa il legittimo controllo di Damasco.
Turchia, Stati Uniti e i loro alleati arabi stanno invece cercando in tutti i modi di prendere tempo e, in sostanza, di difendere terroristi e “ribelli” armati stanziati a Idlib. Questi paesi sono costretti ad ammettere che qui la presenza di uomini di al-Qaeda è massiccia, ma la loro soluzione basata sulla separazione di guerriglieri “buoni” e “cattivi”, che avrebbe dovuto essere applicata da tempo, non ha nessuna possibilità di successo.
Questo compito era stato assegnato alla Turchia nel quadro dei negoziati di Astana tra Ankara, Mosca e Teheran. Erdogan non è però mai stato in grado di portare a termine l’incarico ed evitare un attacco militare da parte di Damasco. Le formazioni armate di tendenze fondamentaliste si sono infatti sempre rifiutate di abbandonare le armi o di trattare con Assad. Inoltre, le milizie relativamente più “moderate”, spesso appoggiate dalla stessa Turchia, hanno fatto intendere di essere pronte piuttosto a unirsi ai jihadisti nel caso Siria e Russia dovessero sferrare un attacco nel territorio di Idlib.
Qui le fazioni sul campo sono sostanzialmente due, anche se al loro interno ci sono numerosi sottogruppi più o meno indipendenti. Una è quella filo-turca dominata dal Fronte di Liberazione Nazionale (NLF), vicino ai Fratelli Musulmani, che comprende varie milizie, tra cui la tutt’altro che moderata Ahrar al-Sham. Quest’ultima è stata fondata da un ex militante di al-Qaeda ed è diventata tristemente famosa qualche anno fa in seguito alla pubblicazione di un filmato che documentava la decapitazione di un ragazzo dodicenne.
Nel fronte teoricamente rivale spicca invece la presenza di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), cioè l’ex Fronte al-Nusra, ovvero la succursale di al-Qaeda in Siria. Ancor più dei gruppi sostenuti dalla Turchia, questa e le formazioni a essa collegate sono composte in larga misura da combattenti provenienti da altri paesi, a conferma della natura non esattamente indigena della “rivolta” contro il regime di Damasco.
Secondo la maggior parte degli osservatori, un assalto delle forze russe e siriane a Idlib potrebbe concludersi in tempi relativamente brevi, visto che le milizie “ribelli” si ritrovano a corto di forniture di armi dopo il disimpegno in questo senso deciso dall’amministrazione Trump e dagli altri principali sponsor. Molti negli USA continuano in ogni caso a chiedere il trasferimento di armi all’opposizione anti-Assad a Idlib come condizione fondamentale per impedire l’avanzata del regime e il mantenimento di una situazione di caos nel paese.
Anche se questa ipotesi dovesse rimanere sulla carta, l’impegno occidentale per la difesa dei guerriglieri fondamentalisti a Idlib non è certo venuto meno. Gli avvertimenti e le minacce lanciate contro Damasco in queste settimane, così come i movimenti di forze registrati in particolare da parte statunitense, indicano la persistente disponibilità a intervenire direttamente nel conflitto.
Da Washington i messaggi inviati ad Assad sono molteplici. Quasi tutti agitano ancora una volta lo spettro di un attacco contro i civili con armi chimiche come la “linea rossa” oltre la quale il regime tornerebbe a essere il bersaglio di un’offensiva militare. Blitz, o presunti tali, condotti utilizzando sarin, cloro o altre sostanze tossiche sono stati attribuiti più volte in questi anni al regime di Damasco, nonostante ricerche e indagini giornalistiche indipendenti abbiano sempre ricondotto le operazioni a “false flag” orchestrate dai “ribelli” per far ricadere la colpa su Assad.
Oggi, perciò, il riferimento alle armi chimiche degli esponenti del governo americano suona come un invito alle formazioni armate arroccate a Idlib a inscenare una nuova operazione di questo genere. Ciò fornirebbe la giustificazione per un intervento dell’Occidente contro il regime sotto forma di supporto aereo a difesa dei “ribelli” stessi.
Trump, da parte sua, pur non parlando di armi chimiche, qualche giorno fa è intervenuto sulla questione di Idlib, mettendo in guardia Siria, Russia e Iran dal creare una “potenziale tragedia umana” con un’offensiva a Idlib. Le opzioni degli USA sono ad ogni modo limitate e, alla luce degli avvertimenti e del dispiegamento di forze russe, un’azione contro il regime di Damasco risulterebbe estremamente rischiosa.
Se è evidente che un’operazione in piena regola delle forze governative siriane per la riconquista di Idlib comporterebbe un alto livello di distruzione e sofferenza per la popolazione civile, è altrettanto innegabile che USA e Turchia non hanno soluzioni percorribili per risolvere una situazione di cui sono i primi responsabili e nella quale quasi due milioni di persone continuano a vivere sotto la dominazione di gruppi terroristici sul territorio di un paese sovrano.
La sorte dei civili di Idlib è comunque l’ultima delle preoccupazioni degli Stati Uniti e dei loro alleati. Basti pensare, per quanto riguarda la sola crisi siriana, alla distruzione e al numero di morti provocati dagli assedi americani contro le roccaforti dello Stato Islamico (ISIS) a Raqqa, sempre in Siria, e a Mosul, in Iraq. Lo stesso conflitto siriano è in larga misura responsabilità degli USA, i quali hanno in definitiva fomentato e alimentato una tragedia immane per i propri fini strategici in Medio Oriente.
A Washington si cercherà comunque di impedire o ritardare in tutti i modi l’operazione di Damasco a Idlib. Le già ricordate provocazioni dei “ribelli” con armi chimiche non sono da escludere, visto anche che i preparativi per una nuova messa in scena di questo genere sembrano essersi messi in moto.
Come minimo, l’amministrazione Trump, assieme ai media ufficiali, continuerà a tenere alti i toni della retorica anti-russa e anti-siriana. Venerdì alle Nazioni Unite, ad esempio, il Consiglio di Sicurezza terrà una riunione dedicata alla situazione di Idlib ed è scontato attendersi nuovi pesanti attacchi contro Damasco.
A parte il futuro della Siria, la battaglia di Idlib e i suoi preparativi sono di estrema importanza perché sembrano segnare anche a livello formale l’abbandono, in atto da qualche tempo, della quasi ventennale “guerra al terrore” da parte degli Stati Uniti come obiettivo cardine della loro strategia planetaria a favore dello scontro con entità statali che minacciano la supremazia di Washington, a cominciare da Russia e Cina.
Significativamente, la fine della guerra alla minaccia terroristica come priorità strategica americana giunge con una mobilitazione per la difesa esplicita di organizzazioni fondamentaliste, inclusa la propaggine di al-Qaeda in Siria, su cui Washington aveva peraltro puntato e investito fin dall’inizio per rovesciare il regime di Damasco assieme ai propri alleati in Europa e nel mondo arabo.
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- Scritto da Mario Lombardo
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A pochi giorni dal primo vertice di alto livello tra esponenti dell’amministrazione Trump e il nuovo governo pakistano del premier Imran Khan, le tensioni tra i due alleati sono tornate ad aggravarsi in seguito all’ennesimo attacco contro Islamabad da parte di Washington. 300 milioni di dollari in fondi destinati ai militari sono stati infatti cancellati con la scusa che il paese dell’Asia meridionale continua a non fare abbastanza per contrastare i gruppi militanti islamici armati che combattono le forze di occupazione NATO nel vicino Afghanistan.
I contrasti tra USA e Pakistan sono evidenti a livello pubblico da tempo e derivano non solo da questioni legate al conflitto afghano ma, sempre di più, anche dall’evolversi del quadro strategico della regione, in relazione soprattutto al ruolo di India e Cina all’interno del sistema di alleanze asiatiche del governo americano. In questo quadro, la questione degli aiuti finanziari diretti da Washington a Islamabad serve alternativamente da incentivo o ricatto, così che lo sblocco o il congelamento di fondi portano spesso a dibattiti molto accesi, se non a un aperto ripensamento dell’alleanza tra i due paesi.
Già a inizio anno, il presidente Trump si era scagliato con un “tweet” contro il Pakistan, accusato, a suo dire, di avere ricevuto dagli USA 33 miliardi di dollari in quindici anni dando in cambio “nient’altro che menzogne e inganni”. Il Congresso di Washington aveva in seguito bloccato 500 milioni di dollari già stanziati a favore di Islamabad, così che il totale congelato quest’anno ammonta ora a ben 800 milioni.
Tecnicamente, il denaro americano negato al Pakistan non è riconducibile alla voce “aiuti”, visto che rientra tra i cosiddetti “Fondi di Supporto della Coalizione” che dovrebbero servire a compensare i paesi alleati di Washington delle spese sostenute nella cosiddetta “guerra al terrore”.
Per questa ragione, la notizia dei giorni scorsi ha incontrato la reazione stizzita del neo-ministro degli Esteri pakistano, Shah Mehmood Qureshi, il quale ha respinto la definizione generalmente offerta dai media di un taglio degli aiuti americani. Qureshi ha definito i 300 milioni di dollari congelati come denaro “nostro”, utilizzato per “rafforzare la sicurezza regionale” e per il quale gli Stati Uniti “ci devono rimborsare”.
Secondo quanto riportato domenica dalla Reuters, il segretario alla Difesa americano, James Mattis, ha preso la decisione durante l’estate di non autorizzare lo stanziamento dei 300 milioni di dollari, non avendo osservato “azioni concrete contro gli insorti” da parte del governo pakistano. Se ora il Congresso USA lo consentirà, questa somma verrà dirottata verso “altre priorità”, mentre il Pakistan potrà tornare a beneficiare dei fondi il prossimo anno, nel caso si adegui alle richieste USA.
La decisione relativa al Pakistan non riguarda solo l’aspetto finanziario, come aveva spiegato ancora la Reuters già qualche settimana fa. L’amministrazione Trump, “senza fare troppo rumore”, avrebbe da qualche tempo iniziato a ridurre anche il numero di ufficiali pakistani che tradizionalmente partecipano a programmi di formazione militare negli Stati Uniti.
Le decisioni prese da Washington non contribuiscono a creare la migliore atmosfera in previsione dell’incontro di mercoledì in Pakistan, dove giungeranno il segretario di Stato, Mike Pompeo, e il numero uno delle forze armate americane, generale Joseph Dunford. Anzi, l’annuncio del ritiro dei fondi appare una nuova iniziativa deliberata da parte dell’amministrazione Trump per colpire un alleato sempre più scomodo.
In particolare, lo stop ai fondi è un messaggio lanciato al governo da poco installato di Imran Khan, le cui prese di posizione durante la campagna elettorale erano state spesso critiche della condotta americana nel suo paese e nella regione. Il leader del partito Tehreek-e-Insaf (“Movimento per la Giustizia”) aveva condannato soprattutto le incursioni con i droni in territorio pakistano per colpire esponenti dei Talebani o presunti appartenenti a organizzazioni terroristiche.
Oltre a inserirsi nella delicata fase di transizione politica in atto a Islamabad, il blocco dei fondi arriva anche in un momento critico per il Pakistan dal punto di vista economico. Da tempo si inseguono le voci sulla necessità, da parte del nuovo governo, di chiedere un prestito al Fondo Monetario Internazionale (FMI). Se così fosse, è evidente che il peso determinante di Washington all’interno di questa istituzione potrebbe influenzare l’esito del prestito da destinare a Islamabad.
A livello ufficiale, esponenti del governo e dei vertici militari americani insistono nel ricondurre le tensioni bilaterali all’atteggiamento del Pakistan nei confronti dei talebani che troverebbero rifugio nel territorio di questo paese. In realtà, il raffreddamento dei rapporti e l’aumentare delle pressioni USA sulla classe dirigente pakistana sono da collegare anche al costante avvicinamento di Islamabad alla Cina e, in misura minore, alla Russia.
Il riallineamento strategico del Pakistan, sia pure ancora nelle fasi iniziali, è peraltro un riflesso del rimescolamento delle carte in Asia centrale e meridionale operato proprio dagli Stati Uniti. In un processo avviato almeno dall’amministrazione di George W. Bush, Washington ha incessantemente corteggiato l’India nel tentativo di costruire con questo paese una partnership strategica nell’ambito dei piani di contenimento dell’ascesa cinese.
La promozione dell’India come potenza regionale da contrapporre alla Cina, e per la quale gli USA vedono anche un ruolo di primo piano in Afghanistan, rappresenta una minaccia esistenziale per la classe dirigente pakistana. Queste manovre americane devono avere suscitato a Islamabad il sospetto di tradimento da parte dell’alleato americano e le ansie scatenate si esprimono spesso nelle frequenti dichiarazioni che ricordano a Washington l’enorme costo economico e umano sostenuto dal Pakistan in una guerra lanciata e condotta in maniera dissennata dagli Stati Uniti.
Il Pakistan, ad ogni modo, sembra intenzionato a proseguire sul percorso di integrazione euroasiatica promosso da Pechino. La Cina, tradizionale alleato di Islamabad, ha già investito o promesso di investire svariate decine di miliardi di dollari soprattutto in progetti di infrastrutture in Pakistan, a cominciare dal cosiddetto “Corridoio sino-pakistano” che dovrebbe collegare con una serie di opere i territori centro-asiatici della Cina con il porto di Gwadar, affacciato sul Mare Arabico.
Sul fronte dei rapporti con la Russia, più o meno gelidi dai tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, si registrano invece finora progressi nell’ambito della cooperazione militare e strategica. Non solo, il Pakistan continua anche a lavorare in maniera produttiva con l’Iran, con particolare attenzione agli aspetti energetici e della sicurezza della regione.
Dietro alle richieste americane di un maggiore impegno contro il fondamentalismo nelle aree di confine con l’Afghanistan vi sono dunque serie preoccupazioni per la direzione strategica che sembra potere intraprendere il Pakistan. Ciò non solo alla luce della natura del nuovo governo, ma anche delle tendenze centrifughe e multipolari che stanno interessando principalmente il continente asiatico e a cui Islamabad potrebbe adeguarsi in un futuro non troppo lontano.
Per il momento, l’attitudine americana sembra essere quella di mescolare iniziative ostili, come il recente blocco di fondi, a una tattica attendista per dare tempo all’esecutivo guidato da Imran Khan e, ancor più, ai militari, che rappresentano il vero centro di potere pakistano, di chiarire quali saranno gli indirizzi di politica estera che intenderanno dare al loro paese nei prossimi anni.
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- Scritto da Michele Paris
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La persecuzione sistematica dei migranti negli Stati Uniti da parte dell’amministrazione Trump ha fatto segnare una nuova escalation dopo la pubblicazione nei giorni scorsi di un’esclusiva del Washington Post che rivela come il governo di Washington stia da qualche tempo prendendo di mira anche cittadini a tutti gli effetti americani ma di origine ispanica.
Questo accanimento contro centinaia o forse migliaia di persone, nate negli USA e con regolare passaporto americano, non ha di fatto alcuna giustificazione logica né legale. Al contrario, è un’altra delle iniziative xenofobe della Casa Bianca per colpire deliberatamente immigrati e cittadini di origine straniera al fine di coltivare una base di sostegno di estrema destra nel paese.
L’articolo del Post descrive una serie di situazioni che hanno coinvolto individui a cui, tra l’altro, è stata negata la richiesta di rinnovo del passaporto oppure il documento è stato ritirato, spesso senza nessun preavviso, lasciandoli in una situazione di estrema precarietà dopo decenni di vita e lavoro negli Stati Uniti. La cittadinanza di queste persone viene messa improvvisamente in discussione sulla base di accuse inconsistenti. Alla base di questo assurdo giro di vite ci sono vecchie accuse rivolte a ostetriche e ad almeno un ginecologo, operanti tra gli anni Cinquanta e Novanta del secolo scorso in località del Texas meridionale, che in un numero molto limitato di casi avrebbero falsificato documenti di nascita di neonati venuti effettivamente alla luce in Messico.
Queste accuse erano venute a galla già più di un decennio fa e per svariati anni avevano tenuto occupati i tribunali federali. Per un certo periodo di tempo, il governo di Washington aveva negato il rinnovo del passaporto ai sospettati di essere in possesso di falsi documenti di nascita americani. I procedimenti si erano però quasi sempre risolti a favore degli imputati dopo la presentazione, da parte di questi ultimi, di altri documenti che ne attestavano la nascita in territorio americano. A partire dal 2009, perciò, casi simili erano diventati molto rari.
Ora, invece, l’amministrazione Trump ha riesumato le accuse, tanto che attivisti e avvocati specializzati in questioni migratorie segnalano il rapido moltiplicarsi degli episodi di passaporti negati o revocati. A ben vedere, al di là dell’impatto e delle conseguenze effettive prodotte finora da queste misure, esse denotano un’evidente intensificazione della guerra all’immigrazione negli USA, con una tendenza di fondo almeno potenzialmente assimilabile a un tentativo di pulizia etnica.
La portata delle accuse e il numero di persone coinvolte, come già ricordato, non hanno fondamento se si pensa all’esiguità dei casi fraudolenti dimostrati. Secondo le indagini del Washington Post, una delle ostetriche coinvolte nella vicenda avrebbe ammesso di avere preso del denaro negli anni Novanta per falsificare due sole nascite sulle migliaia a cui ha assistito nella sua intera carriera professionale.
A carico di un noto ginecologo, attivo nel Texas del sud e morto nel 2015 dopo avere contribuito a dare alla luce qualcosa come 15 mila neonati, ci sarebbe poi una sola accusa provata di avere falsamente certificato la nascita negli Stati Uniti di un bambino in realtà partorito in Messico.
Gli esempi raccontati dal giornale di Washington sono numerosi e includono anche individui di origine messicana che hanno servito nell’esercito USA o che, addirittura, sono agenti dell’immigrazione. Le accuse nei loro confronti sono emerse al momento della richiesta del rinnovo del passaporto oppure, in altri casi, le forze di polizia si sono presentate senza preavviso nelle abitazioni degli accusati per prelevare i loro passaporti.
Ancora, si registrano esempi di cittadini americani bloccati in Messico perché i loro passaporti sono stati confiscati e revocati alla frontiera al momento di rientrare negli Stati Uniti. Incredibilmente, infine, persone in possesso di certificati di nascita americani a cui è stato ritirato il passaporto risultano rinchiuse in centri di detenzione per immigrati irregolari e nei loro confronti sono stati aperti procedimenti di espulsione.
Le associazioni impegnate in difesa degli immigrati ammettono che per il momento le deportazioni sono state molto rare. Tuttavia, è diffusa la sensazione che il governo intenda lasciare migliaia di persone in una sorta di limbo legale che li espone a provvedimenti con un impatto devastante sulle loro vite nel caso, tutt’altro che improbabile, le politiche migratorie di Trump dovessero assumere un impronta ancora più estrema nel prossimo futuro.
Che questa caccia alle streghe sia motivata da ragioni politiche è confermato anche da uno dei casi riportati dal Post. Un 40enne texano a cui è stato ritirato il passaporto ha infatti presentato al governo alcuni dei documenti extra richiesti per provare la sua nascita negli Stati Uniti. Ciononostante, il suo passaporto risulta ancora revocato e il caso tuttora in sospeso.
Dal muro al confine col Messico alla separazione forzata di genitori e figli immigrati, dallo stop all’ingresso negli USA di cittadini di paesi musulmani all’irrigidimento delle norme per ottenere il diritto di voto mirate contro i cittadini di origine straniera. Le politiche anti-migranti della Casa Bianca sembrano dunque spostarsi sempre più verso destra, con l’obiettivo di dirottare su una delle fasce più deboli della popolazione le tensioni sociali e l’avversione più o meno latente nel paese contro la deriva classista e ultra-reazionaria che sta caratterizzando l’amministrazione Trump.