Continua incessante il pressing dell’amministrazione di Donald Trump nei confronti dell’Iran percorso dalle proteste per il carovita e le rivendicazioni economico-sociali dei suoi cittadini. Le sanzioni economiche hanno devastato la vita quotidiana del popolo iraniano facendo arrivare il prezzo di qualsiasi prodotto a livelli vertiginosi.

I rapporti sempre più complicati tra gli Stati Uniti e il Pakistan rischiano di precipitare definitivamente in questi giorni dopo l’ennesimo durissimo scambio di accuse tra i due alleati. L’escalation delle tensioni con l’inizio del nuovo anno era stata segnalata dal primo “tweet” ufficiale di Trump del 2018, nel quale aveva denunciato l’atteggiamento dei precedenti governi americani, impegnati a finanziare Islamabad con “33 miliardi di dollari” per ricevere in cambio nient’altro che “menzogne e inganno”.

A quasi una settimana dall’inizio delle proteste che stanno avendo luogo in alcune delle principali città dell’Iran, i contorni e la natura delle manifestazioni ampiamente riportate dai media occidentali continuano a non essere del tutto chiari. Ciò che è evidente e poco sorprendente è invece il tentativo esplicito del governo americano di politicizzare gli eventi in corso per inglobarli in una strategia sempre più aggressiva diretta contro la Repubblica Islamica.

Il 16 aprile 1960 Irene Garza prese la macchina della madre promettendo di tornare presto a casa. Si diresse verso la chiesa del Sacred Heart di McAllen, la città del Texas dove la sua famiglia possedeva una catena di lavanderie. I parrocchiani la videro mettersi in fila per ricevere la comunione. Ma da quel momento in poi di Irene si persero le tracce come se non fosse mai esistita.

 

La madre e il padre all'inizio pensarono si fosse trattenuta fino alla messa di mezzanotte. Ma alle tre del mattino Irene non era ancora tornata e i Garza denunciarono la sua scomparsa alla polizia. Con gli occhi semi chiusi dal sonno, l'agente di guardia disse loro di non preoccuparsi.

 

Irene poteva essersi fermata da un'amica o incontrato un ragazzo che le piaceva tanto più che era maggiorenne. Ragionando tra sé e sé il poliziotto però pensava che  le ragazze di buona famiglia non sparivano all'improvviso di notte. Qualche ora dopo, sul muretto che separava un canale di irrigazione dal terreno fu trovata una scarpa senza tacco che i famigliari riconobbero come appartenente ad Irene. Da  quel momento in poi le indagini presero tutta un'altra piega.

 

Agenti e squadre di volontari formatesi spontaneamente si misero alla ricerca dì un eventuale cadavere. Il 21 aprile del 1960 una donna che camminava nei pressi di un  canale vide affiorare un corpo senza vita. A breve distanza dall'argine fangoso si vedevano delle impronte.

 

Il corpo apparteneva ad Irene Garza ma il problema sarebbe stato capire come fosse finita in quella zona desolata. Forse era stata gettata nel canale da qualcuno che voleva farla sparire per sempre. Fino a quel momento nessuno sapeva nulla ma la stesse Irene, che  era una cattolica devota, avrebbe detto che “Dio ha il potere di cancellare  ma spetta ai re scoprire la verità” (Proverbi 25:2 n.d.r.)

 

Irene Garza era nata nel novembre del 1934 a McCallen, una cittadina del Texas situata nella valle del Rio Grande. In base all'esame autoptico si scoprì che era stata semi soffocata prima di essere violentata, poi uccisa e quindi gettata nell'acqua del canale dove era affiorato il corpo. Il parroco del Sacred Heart, vecchio amico dei Garza, cercò in qualche modo di placare la rivolta minacciata dalla popolazione ispanica dopo che era stata diffusa la notizia del delitto.

 

In città si mormorava che l'assassino fosse John Feit, un giovane prete con cui la ragazza si era confessata la sera della sua morte. La stessa Irene aveva scritto ad un'amica di aver conosciuto un ragazzo non bello ma molto devoto. “Ma solo se Dio vorrà potremo pensare ad una vera unione” concludeva la lettera.

 

Nella sua ultima sera  di vita Irene era stata notata da molti parrocchiani e, del resto, non era difficile che soprattutto gli uomini la notassero. Oltre che avvenente la ragazza aveva un portamento regale che le aveva fatto già guadagnare il titolo di Miss South Texas Sweetheart e Miss Pan American College. La stampa locale era come ossessionata dall'avvenenza di Irene tanto che divulgò i suoi sentimenti più intimi come se volesse lavarne l'anima. I titoli dei giornali parlavano della “reginetta di bellezza dagli occhi neri” come di una donna perduta. Il sensazionalismo insomma aveva avuto la meglio sulla realtà.

 

In poche parole: una giovane donna  era andata a confessarsi per poi finire assassinata in un canale di irrigazione. Ma i giornalisti badavano più alla mancanza di indumenti intimi che alla atrocità alla sua fine. In realtà, Irene Garza era l'emblema del sogno americano.

 

Chi la conosceva bene sapeva che faceva l'insegnante elementare ed era innamorata del suo lavoro. Difficile pensare che una ragazza ammirata da tutti per l'impegno professionale avesse una doppia vita. Nel frattempo a Mc Allen si erano fatte sempre più insistenti le voci sull'eventualità che l'assassino di Irene fosse un sacerdote. Ben 500 uomini furono messi sotto torchio e sottoposti al test del poligrafo. Compreso John Feit, l'ultima persona ad aver visto Irene viva prima  della sua scomparsa. Feit er era uno dei sacerdoti più giovani del Sacred Heart e molti pensavano che avrebbe sicuramente fatto carriera  all'interno della Chiesa Cattolica.

 

Chi ha ucciso Irene Garza?

Nel 1960 l'ipotesi di un sacerdote assassino era inammissibile per qualunque cattolico.  Inoltre non esistevano testimoni. Le voci che giravano attorno alla figura di John Feit erano note anche agli altri preti che operavano nelle parrocchie nei dintorni di McAllen. Al Sacred Heart, Feit era stato visto confessare Irene Garza la  sera del 16 aprile 1960. Ma durante i molti interrogatori cui fu sottoposto dalla polizia disse che quella sera era tornato molto presto nel rettorato che l'ospitava.

 

Nella contea di Hidalgo i crimini a sfondo sessuale erano rari ma è anche vero che nel marzo del 1960 una ragazza era stata aggredita e molestata da un uomo molto somigliante a a Feit che indossava occhiali identici che il sacerdote disse di aver rotto proprio la sera della morte di Irene. John O'Brien, sacro del Sacred Heart, assicurò che Feit non aveva nulla a che fare con il delitto e, del resto, da che mondo è mondo, non è certo l'abito che fa il monaco  diceva celiando. Inoltre non esistevano indizi che collegassero la morte di Irene alla Chiesa Cattolica.

 

Per la verità di prove ce n'erano anche troppe, ad iniziare da un proiettore di diapositive trovato accanto al corpo della vittima appartenente a Feit. Quando era stato interrogato a circa tre mesi dal ritrovamento del corpo di Irene, il sacerdote non era riuscito a giustificare le ferite alla mano destra. In un modo o dell'altro le prove erano state nascoste per evitare che venissero a galla. Intanto il tempo passava e l'attenzione sul delitto iniziò a scemare. Nonostante i tanti indizi che portavano ad una sua colpevolezza Feit non fu mai incriminato. Riuscì a sfuggire alla giustizia grazie all'ipocrita cortina di silenzio eretta dalla Chiesa Cattolica ma moltissimi sacerdoti sapevano come erano andate le cose.

 

Era una giornata buia del novembre 2002 e una luce fluorescente rendeva ancora più deprimente l'atmosfera, quando nella centrale di Polizia di San Antonio squillò improvvisamente il telefono.  All'apparecchio una voce maschile chiese di parlare con un agente addetto alla soluzione dei cosiddetti “cold cases”. Il suo nome era Dale Tacheny ed era stato l'abate priore di un convento di Frati Trappisti. Stava invecchiando rapidamente e voleva liberarsi di un terribile di segreto che gravava sulle sue spalle.

 

E' raro che i “casi freddi” riemergano dopo tanto tempo. Ma il caso di Irene Garza suscitava ancora interesse. Il vecchio abate parlò con un agente dichiarando che John Feit gli aveva confessato che la sera del 16 aprile 1960 aveva ucciso la ragazza.

 

Nel 1960 le autorità ecclesiastiche non volevano rogne soprattutto nel momento che John Kennedy stava per diventare il primo presidente cattolico degli Stati Uniti. Comunque  erano passati oltre quaranta anni e il Gran Giurì decise di non di riaprire il caso, nonostante le nuove rivelazioni. Insomma, non c'era bisogno di rivangare un passato tanto lontano visto che John Feit si era fatto una nuova vita.

 

Gli ultimi parenti rimasti di Irene Garza non volevano abbandonare tuttavia la speranza di avere giustizia. I confratelli sapevano che era Feit l'assassino di Irene ma non lo avevano mai detto perché il loro dogma non prevede di consegnare un prete alla giustizia degli uomini. L'idea di sfidare la Chiesa terrorizzava ancora i cattolici anche tanto tempo dopo la morte di Irene.

 

A metà degli anni'90 il nome di Feit era riemerso nei documenti che riguardavano James Porter, un prete incarcerato per aver molestato 28 bambini. Era stato proprio Feit ad organizzare la faccenda in modi da continuare a proteggere Porter dargli così modo di molestare altri minori. L'eventuale responsabilità di Feit ancora nel 2004 per il procuratore distrettuale non era una cosa seria e solo dopo 12 anni le cose sarebbero cambiate grazie alla tenacia dei pochi Garza disposti a lottare.

 

Stava per essere eletto un nuovo procuratore che sembrava propenso a riaprire il caso Garza ricorrendo al Gran Giurì. Il Gran Giurì ha infatti il potere di decidere per l'incriminazione di un presunto colpevole e procedere verso il processo. Nel caso di Feit esistevano tutte le prove possibili per convalidare l'accusa e sbattere l'ex-prete in prigione. 

 

Oggi John Feit ha 85 anni e dice di non essere più lo stesso uomo. In una poesia di Sylvia Plath qualcuno direbbe di aver sempre saputo che quello era l'assassino di Irene. Ma la gente che vede Feit camminare appoggiato ad una deambulatore con l'apparecchio acustico visibile dalle orecchie potrebbe pensare che non corrisponde all'immagine di un assassino spietato. Eppure, 57 anni dopo la morte di Irene, Feit è entrato nell'aula del tribunale di Edinburg, in Texas, per rispondere di omicidio.

 

Subito ha escluso ogni eventuale ipotesi di colpevolezza. All'epoca dei fatti Feit si contraddisse più e più volte durante gli interrogatori e nei giorni scorsi è apparso stupito di trovarsi nell'aula di un tribunale. Ma per quelle comunità che abitano lungo il Rio Grande la tragedia dei Garza non è mai finita. Per processare Feit le autorità hanno dovuto estradarlo dall'Arizona dove viveva negli ultimi anni. Prima di allora aveva alloggiato presso una residenza per sacerdoti “deviati”.

 

Il processo è finalmente iniziato il 30 novembre scorso, preceduto  da una laboriosa revisione di oltre ventimila pagine accumulatesi negli anni. Dale Tacheny, 88 anni, era presente in aula ed ha ripetuto che Feit gli aveva confidato di aver assassinato Irene Garza già nel 1963 ma non poteva violare il segreto confessionale. Feit invece ha rifiutato di testimoniare.

 

A scagliare la prima pietra è stata una giuria unanime di 12 persone che ha condannato l'ex-sacerdote al carcere a vita. L'imputato è rimasto impassibile. Dopo 57 anni è ancora sicuro di essere un individuo al di sopra della legge. Attualmente Feit si trova in una cella di un carcere e forse vorrebbe rimettere indietro l'orologio . Aspetterà comunque l'appello ha detto al suo avvocato. Bisognerà vedere se ce ne sarà il tempo....

 

Con una consultazione interna dall’esito estremamente equilibrato, il partito di governo sudafricano ANC (African National Congress) ha scelto questa settimana come suo nuovo leader l’ex sindacalista e ora businessman multimiliardario, Cyril Ramaphosa, destinato tra meno di due anni a diventare anche presidente della prima economia del continente.

 

L’elezione va inquadrata in un contesto segnato sia dal deterioramento della situazione economica del Sudafrica sia dalla crescente disillusione nei confronti di un partito che, dal 1994 a oggi, ha presieduto al modellamento di una società profondamente iniqua. Il cambio ai vertici dell’ANC si è reso quindi necessario per cercare di risollevarne le sorti, soprattutto dopo i vari scandali e i guai giudiziari del presidente in carica, Jacob Zuma, considerato a capo di una cerchia di potere corrotta e al servizio di determinate sezioni dell’élite economica sudafricana.

 

Nella corsa alla guida del partito, Ramaphosa era in sostanza l’espressione dell’ala pragmatica e pro-business, mentre la sua rivale, Nkosazana Dlamini-Zuma, si era presentata con una piattaforma apparentemente più progressista, pur rappresentando gli interessi della base di potere dell’attuale presidente, del quale né è stata la consorte.

 

Il successo di Ramaphosa è la testimonianza dell’influenza determinante del capitalismo indigeno e internazionale sull’ANC, la cui nuova leadership sarà chiamata a creare le condizioni di mercato più favorevoli possibili dopo il discredito e la sfiducia generati nel corso della presidenza Zuma.

 

La borsa sudafricana e la valuta locale (rand) hanno risposto positivamente all’elezione di Ramaphosa, a conferma del sostegno incontrato dal 65enne ex leader sindacale negli ambienti del business nazionale ed estero. La sua parabola personale e politica è d’altra parte l’incarnazione stessa del percorso fatto dal partito che fu di Nelson Mandela, passato da movimento popolare di liberazione a strumento di una ristretta élite di colore ben disposta al compromesso con il “capitalismo bianco” e, grazie a ciò, arricchitasi enormemente.

 

Ramaphosa è stato in passato il numero uno del più importante sindacato sudafricano, quello dei minatori (NUM), per poi diventare segretario generale dell’ANC e svolgere un ruolo di primo piano nelle trattative che avrebbero portato alla fine della segregazione. Dalla metà degli anni Novanta, poi, Ramaphosa ha inaugurato una carriera imprenditoriale folgorante che lo ha proiettato, tra l’altro, alla guida del colosso delle telecomunicazioni sudafricano MTN e ad avere interessi in grandi aziende e banche sia nel suo paese che all’estero.

 

Viste le delicate condizioni politiche, sociali ed economiche del Sudafrica odierno, l’agenda con la quale Ramaphosa ha condotto la sua campagna elettorale per la leadership dell’ANC è apparsa comprensibilmente ambigua. Ancora nel suo discorso che ha chiuso il congresso del partito a Johannesburg, Ramaphosa ha invocato una “trasformazione socio-economica radicale” per il paese, nascondendo le implicazioni reazionarie dell’approccio neo-liberista che ciò comporta, dietro a slogan che promettono “crescita, posti di lavoro e lotta alle disuguaglianze”.

 

Più delle promesse di Ramaphosa contano però le reazioni al suo successo del business sudafricano e degli ambienti finanziari internazionali. L’agenzia di rating Moody’s ha ad esempio parlato di un “cambiamento positivo” per l’economia sudafricana che potrebbe far aumentare la “fiducia del mondo degli affari” e invertire il “graduale deterioramento dei fondamentali del credito” del Sudafrica.

 

Un paio di risoluzioni approvate dall’ANC sono sembrate andare invece in direzione contraria alla più che probabile linea neo-liberista di Ramaphosa. Il partito ha cioè promesso la nazionalizzazione della banca centrale sudafricana e l’espropriazione delle terre ancora in mano alla minoranza bianca.

 

Per quanto riguarda la prima iniziativa, il governo ha già assicurato che di fatto non ci saranno cambiamenti nelle funzioni e nell’indipendenza della banca centrale, oggi in mano privata. La questione delle terre è a sua volta più un annuncio propagandistico che serve a bilanciare le iniziative “anti working-class” in preparazione, facendo leva sul carico emotivo di un tema intrecciato alle ingiustizie razziali ereditate dall’epoca dell’apartheid.

 

Il governo dell’ANC ha comunque già fatto sapere che i tempi di eventuali espropri non sono ancora stati decisi e, in ogni caso, non saranno tollerate occupazioni illegali né episodi di violenza simili a quelli che caratterizzarono misure simili nel vicino Zimbabwe. Proprio come in quest’ultimo paese, peraltro, è altamente probabile che anche in Sudafrica una possibile redistribuzione delle terre, detenute ancora in larga misura dai bianchi, finirebbe per avere caratteri clientelari e favorire così un numero limitato di persone legate alla classe dirigente di colore dell’ANC.

 

A dare un’idea degli orientamenti che guideranno Ramaphosa nell’incarico di leader dell’ANC, ma anche di probabile presidente sudafricano dopo le elezioni del 2019, è il suo ruolo nel massacro di minatori nella località di Marikana, avvenuto nell’agosto del 2012. In quell’estate i lavoratori erano in sciopero contro la compagnia britannica Lonmin, proprietaria della miniera, per le pessime condizioni di lavoro e gli stipendi miseri. Ramaphosa sedeva nel consiglio di amministrazione della società e, in quanto membro di spicco dell’ANC ed ex leader sindacale, secondo molti avrebbe potuto mediare nella disputa che aveva portato allo sciopero.

 

Al contrario, Ramaphosa ebbe una parte importante nella strage che sarebbe seguita. Il neo-leader dell’ANC indirizzò infatti una comunicazione ai dirigenti di Lonmin, definendo il comportamento degli scioperanti “ignobilmente criminale” e invitando le forze di polizia ad agire, come in effetti fecero di lì a poco. Il risultato fu la morte di 34 lavoratori e decine di feriti, ma Ramaphosa sarebbe stato sollevato da qualsiasi responsabilità dalle conclusioni di un’indagine ufficiale sull’accaduto.

 

Il compito assegnato questa settimana a Ramaphosa di salvare l’African National Congress e il capitalismo sudafricano non sarà ad ogni modo agevole. In primo luogo, questo paese è attraversato da esplosive tensioni sociali, manifestatesi in un’impennata di scioperi e proteste, che renderanno difficile l’implementazione di misure destinate a favorire il “clima” per il business privato.

 

Molti giornali, soprattutto occidentali, hanno infine espresso preoccupazione per gli equilibri all’interno dell’organo direttivo dell’ANC usciti dal congresso di questa settimana. La fazione di Ramaphosa non dispone infatti di una chiara maggioranza che appoggi la sua agenda nei prossimi cinque anni, poiché i sostenitori di Jacob Zuma e di quella che era la sua candidata alla leadership, l’ex moglie Nkosazana Dlamini-Zuma, hanno ottenuto circa la metà dei seggi in palio. La maggioranza interna al partito sarà perciò decisa da una manciata di delegati la cui fedeltà appare al momento incerta.

 

Oltre che dalle resistenze nel paese, il programma di Ramaphosa sarà così ostacolato probabilmente da subito anche dalle divisioni all’interno di un partito già di per sé in profonda crisi e sempre più lontano da una base elettorale che, pur restando indiscutibilmente maggioranza nel paese, appare ormai da qualche anno in rapido restringimento.


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