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L’escalation di minacce e la mobilitazione militare degli Stati Uniti nelle ultime settimane sembrano alla fine avere convinto il governo russo e, in parte, quello siriano quanto a meno a rinviare l’attesa offensiva nel governatorato di Idlib per ripulire l’ultima enclave in mano ai “ribelli” fondamentalisti nel paese mediorientale in guerra dal 2011.
L’iniziativa di Damasco in questa regione era in fase di lancio a inizio settembre, quando il regime di Assad e le forze russe in Siria avevano iniziato a bombardare le postazioni dei gruppi armati dell’opposizione. Idlib rimane sotto il controllo di queste formazioni, tra le quali prevalgono Hayat Tahrir al-Sham (HTS), affiliata ad al-Qaeda, e il Fronte di Liberazione Nazionale, appoggiato dalla Turchia.
Soprattutto da Mosca si erano poi intensificati gli avvertimenti ai governi occidentali a non ostacolare l’eventuale avanzata delle forze siriane, russe e iraniane. In parallelo, il Cremlino aveva anticipato una nuova messa in scena da parte dei “ribelli”, come in passato attraverso la creazione di un finto attacco con armi chimiche da attribuire al regime di Assad.
L’amministrazione Trump non ha tuttavia mostrato di recedere dal proprio intento, portando, assieme ai propri alleati, forze navali consistenti nel Mediterraneo orientale e conducendo un’esercitazione militare in territorio siriano. Anche la retorica si è fatta a poco a poco più minacciosa, con esponenti del governo USA che promettono ora un possibile intervento militare contro Damasco non solo in caso di presunto uso di armi chimiche, ma semplicemente se la Siria dovesse muoversi contro Idlib per riprendere il controllo della regione.
La pausa imposta alle operazioni militari dalla Russia ha probabilmente dato maggiore sicurezza anche al governo israeliano, le cui forze aeree nel fine settimana hanno effettuato l’ennesimo bombardamento sulla Siria. I missili, destinati a un’area nei pressi dell’aeroporto internazionale di Damasco, dove sorge un presunto deposito di armi iraniane o di Hezbollah, sarebbero stati però abbattuti dalla contraerea siriana.
Lo stallo della situazione a Idlib contribuisce dunque ben poco a riportare la calma in Siria. Anzi, il temporeggiamento di Mosca e Damasco sta favorendo le manovre americane, con il rischio che gli USA e i loro alleati abbiano la possibilità di preparare una risposta più efficace se l’offensiva dovesse partire nelle prossime settimane.
La determinazione di Washington dimostra poi ancora una volta l’importanza strategica attribuita alla Siria, dove si gioca una parte importante della competizione tra Stati Uniti e Iran in Medio Oriente, ma anche tra USA e Russia in prospettiva globale. L’impegno rilanciato in Siria è da collegare alla dichiarazione, emessa dalla Casa Bianca in maniera relativamente sommessa ai primi di settembre, con la quale veniva di fatto smentita la posizione precedente di Trump sul possibile ritiro del contingente americano stanziato in maniera illegale in questo paese per passare invece a una presenza militare sostanzialmente “indefinita”.
Sull’evoluzione degli scenari a Idlib sta avendo una certa influenza anche la Turchia di Erdogan, così che l’equilibrio strategico entro il quale è costretta a muoversi la Russia risulta estremamente delicato e di difficile scioglimento. La complessità del quadro è sottolineata, tra l’altro, dai ripetuti vertici tra leader ed esponenti dei governi russo e turco nell’ultimo periodo.
Una decina di giorni fa, Putin, Erdogan e il presidente iraniano Rouhani si erano incontrati a Teheran nel quadro del processo diplomatico di Astana. In quell’occasione non era uscito alcun accordo su Idlib, mentre una proposta improbabile di Ankara era stata respinta da Putin e Rouhani.
Ancora nella giornata di lunedì, Putin e Erdogan sono stati protagonisti di un faccia a faccia a Sochi, dove la crisi siriana è stata la prima questione in agenda. I due leader avrebbero concordato la creazione di una “zona demilitarizzata” nella regione di Idlib a partire dal prossimo 15 ottobre, pattugliata dalle truppe dei due paesi e da cui i “ribelli” jihadisti dovranno ritirarsi.
Più di un osservatore ha fatto notare come siano state proprio le posizioni turche a ritardare l’assalto a Idlib. Putin, in parte forse contro l’opinione di Assad, ha deciso cioè di non forzare la mano in questo frangente, in modo da proteggere la convergenza di interessi tra il suo governo e quello di Ankara. Tanto più che Erdogan è apparso disposto a una scommessa rischiosa per raggiungere i propri obiettivi, come conferma il rafforzamento in questi giorni delle 12 postazioni, o “osservatori”, che i militari turchi controllano nella regione di Idlib in base agli accordi trilaterali di Astana.
Se Erdogan intende proteggere le fazioni “ribelli” sotto la sua protezione in Siria, per qualcuno il presidente turco potrebbe alla fine accettare un’azione limitata da parte di Mosca e Damasco, diretta a colpire soltanto i qaedisti di HTS. La necessità immediata della Russia è d’altra parte quella di proteggere la propria base sulla costa settentrionale siriana, minacciata recentemente dai droni “ribelli” provenienti dalle aree rurali delle regioni di Hama e Latakia.
L’eliminazione della filiale di al-Qaeda in Siria dal governatorato di Idlib è comunque un obiettivo primario anche della Turchia. La ragione principale di ciò è legata non tanto a scrupoli per l’attitudine terroristica di questo gruppo armato, quanto piuttosto all’intenzione di trasferire il controllo della regione settentrionale siriana al Fronte di Liberazione Nazionale che opera appunto sotto la protezione turca.
Una volta sfumata l’ipotesi del rovesciamento di Assad e di fronte al tracollo di una politica estera dissennata, Erdogan si ritrova ora a puntare sulla creazione di una sorta di protettorato turco nel nord della Siria che potrà servire fondamentalmente a due scopi. Da un lato a contrastare la formazione di una regione autonoma curda e, nell’immediato, neutralizzare le stesse milizie curde che godono dell’appoggio americano. Dall’altro a garantirsi una posizione consolidata in Siria per far sentire la propria voce in un futuro accordo di pace che metta fine al conflitto.
Da parte russa, la volontà di assecondare le richieste di Erdogan, almeno in parte e forse temporaneamente, deriva in primo luogo dal timore di favorire un riavvicinamento tra Turchia e Stati Uniti in caso di attacco contro i “ribelli” a Idlib. Sempre nella prospettiva dei rapporti tra Washington e Ankara, alcuni commentatori hanno comunque assicurato che la sospensione delle operazioni russo-siriane potrebbe non durare a lungo.
Putin punterebbe cioè ad attendere il probabile precipitare delle relazioni già tese tra i due alleati NATO, previsto nei prossimi mesi, quando il persistere degli attacchi speculativi contro la valuta turca e il rafforzamento del dollaro, assieme all’entrata in vigore delle restrizioni americane alle esportazioni di greggio iraniano, metteranno ancora più in difficoltà l’economia del paese euroasiatico.
Messo così alle strette, Erdogan potrebbe allontanarsi ulteriormente dagli USA e non avere altra scelta che chiedere aiuto a Mosca e Teheran, con ogni probabilità in cambio di un ammorbidimento delle posizioni sul fronte siriano.
Altri ancora ritengono infine che il Cremlino voglia congelare la situazione in Siria nelle sette settimane che mancano alle elezioni di metà mandato negli Stati Uniti. La situazione interna di Trump appare infatti sempre più delicata e le probabilità che la sua amministrazione cerchi una nuova avventura bellica all’estero per allentare le pressioni e risollevare le sorti dei repubblicani, in affanno nei sondaggi, è del tutto plausibile.
L’intenzione di Putin sarebbe perciò quella di non dare nessuna giustificazione agli Stati Uniti per scatenare un’aggressione militare contro il regime di Assad, rimandando ogni iniziativa a dopo il voto per il rinnovo del Congresso di Washington.
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Stragi deliberate di civili, distruzione di infrastrutture e abitazioni, carestie, epidemie di massa e appoggio a movimenti terroristici sono gli ingredienti della guerra criminale che da oltre tre anni l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi, in stretta collaborazione con gli Stati Uniti, stanno imponendo alla popolazione dello Yemen. Malgrado tutto ciò, mercoledì il dipartimento di Stato americano ha certificato ufficialmente che le due monarchie del Golfo Persico “stanno prendendo iniziative verificabili al fine di ridurre i rischi per civili e infrastrutture derivanti dalle operazioni militari”.
Per chiunque abbia anche solo superficialmente seguito fino a oggi il conflitto in Yemen, questa dichiarazione è del tutto assurda, oltre che profondamente cinica. Per gli yemeniti, costretti a fare i conti con una situazione disperata, suona inoltre come un’ulteriore beffa. Infatti, il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, ha approvato la condotta di Riyadh e Abu Dhabi proprio nel giorno in cui le forze armate dei due regimi assoluti, in collaborazione con mercenari e milizie varie, hanno intensificato l’offensiva nella città portuale di Hodeidah, sul Mar Rosso.
L’assedio a questa località strategica, nelle mani dei “ribelli” sciiti Houthi, era stata condannata dalla gran parte della comunità internazionale, poiché da qui transitano i rifornimenti di beni di primissima necessità destinati a milioni di persone, già a forte rischio di sopravvivenza a causa dell’embargo quasi totale applicato dall’Arabia Saudita nelle aree costiere sotto il proprio controllo.
Forze fedeli a Riyadh e al deposto governo yemenita del presidente-fantoccio, Abd Rabbo Mansour Hadi, hanno conquistato in questi giorni l’arteria stradale che collega Hodeidah alla capitale, Sana’a, mettendo in pericolo le aree dell’interno del paese e quelle controllate dagli Houthi.
La “certificazione” rilasciata questa settimana dal segretario di Stato americano, in ogni caso, è una formalità richiesta da una norma inserita dal Congresso di Washington nella legge di finanziamento che per l’anno 2019 ha stanziato la cifra record di 717 miliardi di dollari da destinare alle operazioni militari. Per rispondere in qualche modo al moltiplicarsi di critiche alla guerra in Yemen, senatori e deputati americani avevano appunto imposto al dipartimento di Stato di certificare che Arabia Saudita ed Emirati Arabi avevano fatto progressi nel proteggere i civili.
In caso contrario, sarebbero stati congelati i fondi che consentono agli Stati Uniti di rifornire in volo gli aerei da guerra delle due dittature del Golfo nelle operazioni di bombardamento sulla popolazione yemenita.
Che la prescrizione stabilita dal Congresso fosse ridicolmente inefficace era evidente fin dall’inizio, tanto che è stata superata con una semplice dichiarazione-farsa del segretario di Stato. Singolarmente, Pompeo ha accompagnato però la certificazione relativa allo Yemen con un rapporto, già pubblicato dall’agenzia di stampa AFP, nel quale egli stesso riconosceva il numero troppo alto di vittime civili nel conflitto in corso.
L’eventuale fine dei rifornimenti in volo assicurati dagli americani non avrebbe comunque fatto cessare la collaborazione degli USA nei crimini commessi in Yemen. Washington avrebbe tra l’altro potuto continuare in maniera indisturbata a vendere armi per decine se non centinaia di miliardi di dollari a Riyadh e Abu Dhabi, così come a fornire informazioni di intelligence per individuare gli obiettivi da bombardare e a impiegare le proprie forze speciali direttamente sul campo.
Se anche le rassicurazioni del dipartimento di Stato venissero prese sul serio, ci sarebbe da chiedersi quali sono i criteri con cui è stato giudicato l’impegno saudita nel limitare i massacri di civili in Yemen. Solo nel mese di agosto, le forze che fanno capo a Riyadh hanno commesso alcune delle stragi più atroci di una guerra già segnata da numerosissimi episodi raccapriccianti.
Una nuova ondata di orrore a livello internazionale aveva provocato ad esempio il bombardamento con un ordigno di fabbricazione USA di uno scuolabus il 9 agosto scorso nella località di Dahyan, sotto il controllo dei “ribelli” Houthi. In quell’occasione erano stati uccisi circa 40 bambini e 11 adulti. Il 23 dello stesso mese, poi, un altro bombardamento aveva causato la morte di oltre 20 bambini e quattro donne in fuga dalla città di Hodeidah.
Casi di questo genere hanno fatto registrare un’impennata negli ultimi tempi, a conferma anche dell’inutilità della speciale commissione con il compito di indagare sulle vittime civili in Yemen, creata dal regime saudita in seguito all’aumentare delle pressioni internazionali.
Il livello di criminalità di Arabia Saudita, Emirati Arabi e Stati Uniti nella loro condotta in Yemen trova riscontro anche nella gestione sia delle comunicazioni relative al conflitto, come appunto la “certificazione” di Mike Pompeo, sia del faticosissimo processo diplomatico in atto.
A questo proposito, le due monarchie del Golfo hanno sostenuto che l’offensiva di Hodeidah si è resa necessaria alla luce dello stallo dei negoziati mediati dall’ONU. Il tavolo convocato a Ginevra nei giorni scorsi era però saltato per l’assenza forzata dei rappresentanti Houthi, costretti a mancare l’appuntamento con la diplomazia dopo che il regime saudita aveva negato al loro volo l’autorizzazione a lasciare lo Yemen.
Da ricordare è anche una recente clamorosa indagine della Associated Press che ha dimostrato come in questi anni di guerra la “coalizione” guidata da Riyadh abbia intrattenuto rapporti più che sospetti con la filiale di al-Qaeda in Yemen (AQAP o al-Qaeda nella Penisola Arabica). Arabia Saudita ed Emirati hanno ad esempio pagato comandanti jihadisti per consentire l’ingresso delle loro forze armate in determinate località yemenite.
In altre occasioni, addirittura, combattenti di al-Qaeda sono stati arruolati per combattere a fianco della “coalizione” contro gli Houthi. Secondo la Associated Press, gli Stati Uniti erano al corrente di questi accordi e, spesso, hanno sospeso la campagna di bombardamenti con i droni che da anni conducono in Yemen in nome della lotta al terrorismo.
Con l’intervento di mercoledì, insomma, Washington ha dato il proprio sigillo ufficiale alla prosecuzione e all’intensificazione del massacro della popolazione yemenita, di cui gli USA sono tra i diretti responsabili, mettendo come sempre davanti alla vita di decine di milioni di civili i propri interessi strategici e quelli dei loro alleati.
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Dopo una pericolosa escalation di tensioni negli ultimi anni, da qualche tempo Cina e Giappone stanno facendo registrare un netto miglioramento nei rapporti bilaterali. Il fattore che sembra favorire una certa distensione tra i due vicini è prima di tutto l’agenda protezionista dell’amministrazione Trump, intenta a fare pressioni e ad applicare misure commerciali punitive contro entrambi i paesi in nome della pseudo-dottrina nazionalista “America First”.
In un’intervista a un giornale locale a inizio settembre, il premier giapponese, Shinzo Abe, aveva salutato il “completo ritorno alla normalità” di una relazione con Pechino che rischiava di precipitare in un vortice di provocazioni e minacce, in larga misura come conseguenza della “svolta” strategica americana in Asia, avviata ai tempi dell’amministrazione Obama.
L’abbandono sostanziale del multilateralismo da parte di Trump e le guerre commerciali lanciate precocemente anche contro alleati hanno portato a un rimescolamento strategico in Estremo Oriente come altrove. I primi passi verso la riconciliazione tra Tokyo e Pechino sono così caratterizzati da un’impronta polemica verso gli USA.
A confermarlo sono le varie dichiarazioni di esponenti di entrambi i governi in occasione di incontri bilaterali o nel quadro di summit aperti ad altri paesi. A fine agosto, il ministro delle Finanze nipponico, Taro Aso, in visita a Pechino aveva ad esempio avvertito, in un chiaro messaggio a Washington, che “il protezionismo non favorisce nessun paese”. Nel corso del recentissimo Forum dell’Asia Orientale, ospitato da Putin a Vladivostok, al termine di un faccia a faccia con il presidente cinese, Xi Jinping, Abe ha inoltre affermato che Giappone e Cina “hanno la responsabilità di promuovere la stabilità globale” e di giungere alla “denuclearizzazione della Corea del Nord”.
Proprio sul processo diplomatico in corso tra Washington e Pyongyang il governo giapponese si era trovato inizialmente spiazzato e continua tuttora a manifestare malumori. Secondo la stampa americana, Abe sarebbe stato escluso da ogni decisione presa dall’amministrazione Trump sulla Nordcorea.
Ufficialmente, le ansie di Tokyo sarebbero da collegare all’ipotesi che gli USA finiscano per accettare che Kim Jong-un conservi i propri missili nucleari a breve raggio, cioè in grado potenzialmente di colpire il Giappone, in cambio della distruzione degli ordigni in teoria capaci di colpire le città americane. In realtà, a pesare sull’irritazione di Abe è la prospettiva che la Corea del Nord cessi di essere dipinta come una minaccia alla sicurezza della regione, così da privare il suo governo di una delle principali giustificazioni per il processo di militarizzazione in atto a Tokyo.
Il primo ambito nel quale lo scontro, non solo retorico e diplomatico, ha fatto segnare un abbassamento dei toni tra Cina e Giappone è comunque quello della disputa territoriale attorno alle isole Senkaku (Diaoyu in cinese) nel Mar Cinese Orientale, controllate da Tokyo e rivendicate da Pechino. Su questa disputa i due paesi avevano rischiato in più occasioni il conflitto negli anni scorsi, soprattutto a causa dell’utilizzo delle contese marittime e territoriali da parte americana come leva per inasprire i rapporti tra la Cina e svariati paesi vicini.
Il lamento comune di Pechino e Tokyo nei confronti di Washington riguarda invece la politica commerciale dell’amministrazione Trump. La Cina ha già dovuto subire l’aumento dei dazi americani sulle proprie esportazioni verso gli USA per un valore di 50 miliardi di dollari. A breve, dopo che Pechino avrà inevitabilmente ignorato le richieste USA, la Casa Bianca potrebbe applicare nuove tariffe doganali su altri 200 miliardi di dollari di beni importati dalla Cina.
Il Giappone, da parte sua, è stato colpito dall’incremento dei dazi americani su acciaio e alluminio. Soprattutto, a differenza di altri alleati di Washington, il governo Abe si è visto respingere la richiesta di esenzione da queste stesse tariffe. Il business e la classe politica nipponica sono anche in fermento per le possibili misure punitive minacciate da Trump sulle esportazioni di automobili verso gli Stati Uniti.
Ancora prima dell’insediamento ufficiale alla Casa Bianca di Trump, Abe aveva cercato in tutti i modi di costruire un rapporto privilegiato con la nuova amministrazione repubblicana, mentre ancora oggi sono evidenti gli sforzi di ostentare la solida alleanza che lega il suo paese agli USA. Fin dall’inizio del mandato di Trump, tuttavia, erano emerse chiare tensioni tra Washington e Tokyo.
Anzi, proprio nelle prime settimane della presidenza Trump era arrivata probabilmente l’iniziativa più penalizzate per il Giappone, cioè il ritiro degli Stati Uniti dal controverso mega-trattato di libero scambio noto come Partnership Trans Pacifica (TPP). Abe aveva investito buona parte del proprio capitale politico per far digerire, soprattutto alla base rurale del proprio partito, un accordo che molti in Giappone ritenevano dannoso per l’economia del paese.
L’ingresso nel TPP a guida americana era visto inoltre dalla classe dirigente nipponica come il veicolo per la promozione dei propri interessi e delle ambizioni da grande potenza, com’è ovvio nel quadro della competizione con la Cina, significativamente esclusa dal trattato stesso. La decisione di Trump aveva insomma gettato le basi per le successive frizioni tra USA e Giappone. In seguito il governo di Tokyo - assieme a quello australiano, altro alleato storico di Washington - si sarebbe fatto promotore del rilancio di un TPP rivisto e orfano degli Stati Uniti.
In modo ancora più significativo, Abe ha aperto ai progetti infrastrutturali, commerciali e di integrazione che sono al centro delle politiche di sviluppo cinesi. Nell’ambito dei trattati di libero scambio, il Giappone ha accolto l’invito a entrare nella Partnership Economica Regionale Comprensiva (RCEP), considerata da molti come rivale e alternativa cinese del TPP. La RCEP include anche paesi come Australia, Corea del Sud, India e Nuova Zelanda. Tutti i firmatari hanno definito i punti principali dell’accordo in un recente vertice tenuto a Singapore, mentre un’intesa definitiva potrebbe essere raggiunta entro il mese di novembre.
Il Giappone, secondo il giornale di Hong Kong South China Morning Post, starebbe poi discutendo l’ipotesi di un trattato bilaterale di libero scambio con Pechino. Quest’ultimo seguirebbe quello da poco stipulato con l’Unione Europea e darebbe ulteriore impulso a una tendenza diametralmente opposta a quella di impronta protezionista del governo di Washington.
Alla luce di questi sviluppi è inevitabile che Tokyo abbia infine riconsiderato il proprio approccio al colossale piano di integrazione euro-asiatica cinese, noto col nome di Belt and Road Initiative (BRI). Il Giappone, in sintonia con gli USA, aveva nel recente passato ostacolato e cercato di boicottare i progetti di Pechino in questo senso, proponendosi tra l’altro come partner strategico-militare o come investitore alternativo alla Cina in svariati paesi nell’orbita della BRI.
Sotto la spinta delle dinamiche già esposte, invece, il governo Abe sembra ora guardare con interesse alla “nuova Via della Seta” cinese. Nel mese di ottobre, lo stesso primo ministro dovrebbe recarsi in visita a Pechino, dove è prevista la firma di una serie di accordi per la realizzazione di progetti che rientrano nel quadro della BRI. La natura di questi accordi, se implementati, rappresenta un salto qualitativo nei rapporti sino-giapponesi e prospetta benefici cruciali per i piani di Pechino, a fronte degli ostacoli che gli Stati Uniti stanno cercando di creare in tutti i modi.
Il think tank americano Stratfor, notoriamente legato agli ambienti dell’intelligence, in un’analisi pubblicata nei giorni scorsi sul proprio sito ha portato come esempio della partnership tra Cina e Giappone all’interno della BRI la realizzazione di linee ferroviarie ad alta velocità in Thailandia. Secondo Stratfor, una “joint venture col Giappone in un paese terzo segnerebbe un passo avanti negli sforzi cinesi di coinvolgere altre potenze, soprattutto tra i paesi avanzati, nei progetti infrastrutturali della Belt and Road Initiative”. La partecipazione del Giappone tornerebbe cioè utile in primo luogo per controbattere alle polemiche sull’espansionismo cinese e per superare resistenze e perplessità dei paesi che rientrano nella rete commerciale e strategica pianificata dalla Cina.
Nonostante il relativo disgelo, persistono numerosi fronti sui quali Tokyo e Pechino continuano a essere rivali strategici. Ciò dipende non solo da questioni storiche, ma anche dall’ambizione, in un clima internazionale sempre più competitivo, della classe dirigente nipponica di perseguire politiche indipendenti a seconda dei propri interessi. L’intenzione di Abe di intraprendere la strada della militarizzazione del paese, tramite una riforma costituzionale annunciata da tempo, è in quest’ottica un segnale delle intenzioni di Tokyo e, assieme, dei pericoli per un futuro scontro diretto con le altre potenze regionali.
La stessa influenza destabilizzante dell’amministrazione Trump ha un effetto tutt’altro che univoco sul ricalibramento strategico giapponese. Le pressioni USA sui propri principali rivali su scala globale stanno infatti contribuendo a consolidare una partnership a tutto campo tra Cina e Russia. Un processo, quest’ultimo, che in prospettiva minaccia di ridurre gli spazi di manovra di Tokyo nel trattare o cercare di ottenere concessioni da Pechino, così come dal governo di Mosca.
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Il primo importante discorso pubblico del consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Bolton, ha rappresentato questa settimana un messaggio chiarissimo per tutto il mondo circa le intenzioni degli Stati Uniti di mettersi anche formalmente al di sopra del diritto internazionale nel perseguimento dei propri interessi strategici, ovunque essi siano in gioco.
L’obiettivo principale dell’ex ambasciatore USA alle Nazioni Unite è stata la Corte Penale Internazionale (ICC), contro la quale ha pronunciato parole estremamente pesanti, tanto da far pensare a quest’ultima più come a un’organizzazione terroristica o uno stato nemico che un’istituzione ratificata da 123 paesi sovrani.
Bolton ha auspicato la “morte” della Corte, assicurando che, con essa, il suo paese “non coopererà”, né le “fornirà assistenza” o, tantomeno, ne entrerà a far parte. La vera escalation contro l’ICC è emersa poi con le aperte minacce a quei giudici che dovessero avere il coraggio di aprire procedimenti per crimini di guerra contro cittadini americani.
In questo caso, Washington adotterebbe sanzioni punitive, come il divieto di ingresso nel paese, il congelamento di eventuali beni in territorio americano e, addirittura, una incriminazione secondo la legge USA. A finire dietro le sbarre potrebbero essere cioè i giudici che indagano sugli svariati crimini commessi da leader politici e militari americani nel mondo.
Ben sapendo che la posizione americana è condivisa solo da una minoranza di paesi, Bolton ha anche annunciato pressioni, per non dire ricatti, su quelli che riconoscono la giurisdizione dell’ICC, così da negoziare trattati bilaterali che proibiscano la consegna di cittadini USA alla Corte con sede a L’Aia, in Olanda.
Sanzioni “secondarie” potrebbero inoltre arrivare per quei paesi che intendono collaborare con l’ICC. In perfetto stile mafioso, Washington “prenderà nota” di simili comportamenti e i responsabili potrebbero veder sparire eventuali aiuti economici americani o di organismi internazionali sui quali gli USA hanno il controllo.
Bolton ha promesso infine un’iniziativa presso le Nazioni Unite per impedire del tutto alla Corte Penale Internazionale di indagare e incriminare i cittadini dei paesi che non riconoscono questo tribunale. Secondo lo statuto dell’ICC, oggi questa possibilità esiste quando l’incriminazione è proposta dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Visti i precedenti del super-falco John Bolton, è stato quasi inevitabile che l’amministrazione Trump lo abbia scelto per condurre un attacco senza precedenti nei confronti della Corte de L’Aia. Da sotto-segretario di Stato e ambasciatore ONU durante l’amministrazione Bush jr., Bolton era stato uno dei “neo-con” più convinti della dannosità dell’ICC per gli Stati Uniti.
Nata con il cosiddetto Statuto di Roma, la Corte ha iniziato a operare nel 2002, ma la sua legittimità venne subito respinta dal governo americano. Il Congresso di Washington avrebbe anzi approvato leggi sia per proteggere i cittadini americani macchiatisi di crimini perseguibili dall’ICC sia, in seguito, per chiedere la chiusura di quest’ultima. Addirittura, la legge nota come “Hague Invasion Act” prevede il ricorso da parte degli USA alla forza militare per liberare cittadini americani eventualmente detenuti a L’Aia e sottoposti a incriminazione presso il tribunale.
I timori della classe dirigente americana, con Bolton in prima linea, erano ben giustificati già nel 2002, visto che di lì a qualche mese l’amministrazione Bush avrebbe dato il via a uno dei più gravi crimini del secondo dopoguerra, cioè l’invasione e la distruzione dell’Iraq con la scusa delle inesistenti armi di distruzione di massa.
I fronti su cui politici, militari e membri dell’intelligence degli Stati Uniti potrebbero finire alla sbarra per crimini di guerra sono comunque molteplici. Quello più immediato, e che ha motivato nello specifico il discorso di Bolton, è l’Afghanistan. Qualche mese fa, il pubblico ministero dell’ICC Fatou Bensouda aveva infatti sottoposto una richiesta per avviare un procedimento di indagine a carico delle forze di occupazione e del governo fantoccio di Kabul per torture di detenuti e altri gravissimi crimini.
Nonostante la sostanziale impotenza del tribunale, a Washington è evidente la preoccupazione non solo per i risvolti legali della vicenda, ma anche per l’effetto moltiplicatore che possibili incriminazioni formali potrebbero avere sul sentimento di profonda ostilità diffuso in Afghanistan e altrove nei confronti degli Stati Uniti.
Molti commentatori in questi giorni hanno fatto notare come il discorso sull’ICC di Bolton sia solo l’ultima delle mosse dell’amministrazione Trump che stanno segnando un progressivo allontanamento degli USA dall’impalcatura liberale e formalmente democratica che ha sostenuto il sistema internazionale negli ultimi sette decenni.
In effetti, il ritorno al potere a Washington della fazione “neo-con” della classe dirigente americana, assieme a quella ultra-nazionalista rappresentata da Trump, sta facendo registrare il progressivo abbandono anche delle pretese esteriori del ruolo degli Stati Uniti di difensori della democrazia e del diritto internazionale.
Questa immagine, anche se per nulla corrispondente a una realtà fatta di crimini e imposizione con la forza di interessi economici e strategici, ha comunque avuto un importanza decisiva per la stabilità globale. L’abbandono deliberato di questo equilibrio da parte del governo di Washington ha perciò implicazioni enormi, la prima delle quali è la prospettiva di crimini nuovi e ancora più gravi in nome della supremazia e dell’eccezionalismo americano.
Direttamente collegata al ruolo della Corte Penale Internazionale è anche un’altra decisione annunciata da Bolton nello stesso intervento di questa settimana, quella cioè della chiusura dell’ufficio di rappresentanza dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) a Washington, aperto dopo gli accordi di Oslo del 1993 con il governo di Israele.
Qui, l’intenzione della Casa Bianca è di difendere l’alleato israeliano dalle accuse per i crimini perpetuati nei confronti del popolo palestinese. A fine 2017 e ancora lo scorso mese di maggio, leader dell’Autorità Palestinese avevano chiesto all’ICC di avviare un’indagine formale sugli ovvi crimini commessi da Israele, incluse la continua costruzione di insediamenti illegali, la demolizione di abitazioni palestinesi e l’uccisione di manifestanti pacifici e disarmati.
Anche in questo caso, l’iniziativa di Trump suggella in maniera formale una condotta irriducibilmente filo-israeliana che ha caratterizzato tutte le precedenti amministrazioni americane. Allo stesso tempo, la chiusura dell’ambasciata di fatto della Palestina negli USA è l’ennesima misura che in poco più di un anno e mezzo ha seppellito il cosiddetto “processo di pace” in Medio Oriente, trasformandolo sempre più nell’imposizione di diktat modellati sugli interessi e sui crimini impuniti dello stato di Israele.
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Un’esclusiva del New York Times sulla situazione in Venezuela ha confermato nel fine settimana come gli Stati Uniti continuino a essere i principali responsabili delle interferenze indebite nei processi politici di altri paesi, nonostante le ripetute accuse rivolte in questo senso da Washington alla Russia. L’articolo dimostra anche la fondatezza degli avvertimenti del governo di Caracas e di altri osservatori sulle intenzioni americane di appoggiare un colpo di stato militare contro il presidente democraticamente eletto, Nicolás Maduro.
Membri dell’amministrazione Trump avrebbero incontrato alcuni ufficiali delle forze armate venezuelane in almeno tre occasioni tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 per discutere di un possibile colpo di mano contro Maduro. Se l’articolo del Times, basato sulla testimonianza anonima di 11 esponenti del governo USA e di un ex comandante venezuelano, ricostruisce un’operazione scaturita tra una parte dei vertici militari del paese sudamericano, l’amministrazione Trump è stata tutt’altro che spettatrice passiva.
Anche dando interamente per buona la ricostruzione del giornale americano, i contatti diretti tra le due parti si erano infatti concretizzati in seguito al messaggio pubblico di Trump nell’agosto del 2017, quando aveva ipotizzato una soluzione militare alla crisi in Venezuela. Oltre al presidente, altri membri del suo gabinetto si erano espressi apertamente su questa linea, tra cui l’ex segretario di Stato, Rex Tillerson, e l’allora consigliere per la sicurezza nazionale, H. R. McMaster.
I militari venezuelani sembravano anche aspettarsi dai rappresentanti del governo americano un contributo concreto per deporre Maduro, mentre da parte loro non avevano elaborato alcun piano d’azione. Secondo le fonti del Times, a Washington prevaleva tuttavia la prudenza e lo scetticismo. Ciò per varie ragioni, anche se nessuna da ricondurre a scrupoli per il ribaltamento, con ogni probabilità violento, dell’ordine costituzionale di un paese sovrano.
Gli ufficiali venezuelani ribelli non avrebbero comunque chiesto un intervento diretto dei militari americani. L’assistenza che cercavano sembrava essere soprattutto logistica, almeno nelle fasi iniziali. Un’eventuale golpe contro Maduro avrebbe comportato la necessità di arrestare numerosi membri dell’esecutivo, incluso il presidente, e dei vertici militari fedeli al governo, così che risultava fondamentale disporre di strumenti di comunicazione adeguati per portare a termine l’impresa.
L’amministrazione Trump aveva però deciso di negare gli aiuti richiesti e i piani sarebbero alla fine saltati. Uno dei motivi della freddezza di Washington è da collegare alla natura della controparte golpista venezuelana. I militari anti-Maduro pronti a intervenire erano al massimo tra i 300 e i 400, prima di una recente purga governativa che ne avrebbe dimezzato il numero.
Inoltre, sembrava non essere chiara l’autorità che i militari incontrati dagli americani avevano sulle frange ribelli delle forze armate venezuelane, né se alcuni di essi fossero già tenuti sotto controllo dal governo. In definitiva, il progetto descritto dal New York Times non aveva ricevuto la benedizione dell’amministrazione Trump perché i suoi promotori non davano alcuna garanzia di successo.
L’epilogo raccontato dall’articolo non comporta ad ogni modo un abbandono da parte americana delle mire sul governo Maduro. Anzi, le manovre stanno di certo continuando in vari modi. La relativa prudenza degli Stati Uniti è dovuta da un lato alle conseguenze politiche, in America Latina ma anche sul fronte domestico, che avrebbe il sostegno a un altro colpo di stato militare e, dall’altro, alla impopolarità dell’opposizione filo-americana che dovrebbe assumere il potere nel paese.
Non solo, per quanto riguarda il Venezuela è ancora vivo a Washington il ricordo del tentativo fallito di dare una spallata al governo di Hugo Chávez nel 2002. In quell’occasione, il presidente venezuelano fu rimesso al suo posto dopo un paio di giorni grazie alla mobilitazione popolare contro i golpisti e l’opposizione di destra sostenuta dagli USA. In merito a questo episodio, va ricordato che il New York Times fu una delle testate americane che appoggiò il mancato colpo di stato.
I membri della presunta “resistenza” contro il governo legittimo non erano e non sono in ogni caso una forza democratica o al servizio della democrazia, malgrado i tentativi del Times di definire quello dei militari ribelli come uno sforzo per liberare il Venezuela dalla dittatura di Maduro. Per avere un’idea della coerenza e della predisposizione democratica di Washington è sufficiente ricordare come alcuni degli alti ufficiali impegnati nel golpe abortito erano accusati o incriminati proprio negli Stati Uniti per atti di corruzione o traffico di droga.
Da non dimenticare è anche un altro aspetto dell’ipocrisia americana nell’approccio alla situazione in Venezuela, viste le evidenti le responsabilità degli USA nella crisi economica del paese, aggravata da pesanti sanzioni e sfruttata nondimeno per alimentare il dissenso interno al governo Maduro e negli ambienti militari.
La recente rivelazione del New York Times ribadisce come da Washington non ci sia alcuna intenzione di abbandonare la pratica dell’intervento nel continente latinoamericano per rovesciare governi o regimi sgraditi. Oltre che dalle operazioni dei decenni precedenti, l’amministrazione Trump ha tratto esempio anche dal suo predecessore. Nel 2009, Obama e l’allora segretario di Stato, Hillary Clinton, appoggiarono infatti un colpo di stato in Honduras contro il presidente legittimo Zelaya, la cui amministrazione stava da qualche tempo studiando iniziative di stampo progressista.
Anche nelle ultime settimane, minacce più o meno velate dirette contro il governo Caracas e inviti ai militari a ribellarsi contro Maduro continuano a essere inviati dalla classe politica americana. Tutto ciò mentre a Washington infuria la caccia alle streghe del “Russiagate”, basato su accuse senza fondamento contro Mosca di avere interferito nel processo elettorale degli Stati Uniti a favore di Donald Trump.
La Casa Bianca da parte sua ha risposto in maniera significativa all’articolo del Times sul Venezuela. Pur non replicando a domande specifiche su quanto descritto, l’amministrazione Trump ha emesso un comunicato che ha di fatto ammesso le manovre in atto contro Maduro, sostenendo in toni orwelliani l’importanza di intrattenere un “dialogo con tutte le parti che dimostrino il desiderio di democrazia”, così da indurre “un cambiamento positivo” nel paese latinoamericano.