L’evolversi del caso del giornalista saudita Jamal Khashoggi sta sempre più coinvolgendo un’amministrazione Trump impegnata a concordare con gli ambienti reali a Riyadh una versione degli eventi che salvaguardi l’alleanza con gli Stati Uniti. La vicenda ha però svariate implicazioni che si incrociano alle mire strategiche di USA, Turchia e Arabia Saudita, così come alle divisioni interne ai governi di Washington e Riyadh, col rischio di produrre una miscela esplosiva che minaccia di esplodere qualunque sia la soluzione alla fine proposta dalle parti coinvolte.

 

Il viaggio improvvisato del segretario di Stato americano, Mike Pompeo, in Arabia Saudita e in Turchia ha dato qualche indicazione sia della posta in gioco sia della possibile via d’uscita per il regime del Golfo Persico. Il presupposto dell’azione della Casa Bianca è chiaramente la natura cruciale dell’alleato saudita per la propria strategia mediorientale, basata su una rinnovata offensiva a tutto campo contro l’Iran.

Il processo diplomatico in corso nella penisola di Corea sembra avanzare a un ritmo chiaramente diverso a seconda dei governi coinvolti nei negoziati con il regime di Kim Jong-un. Se quello sudcoreano del presidente, Moon Jae-in, continua a spingere per un’accelerazione del disgelo, sollecitando iniziative concrete a livello internazionale, l’amministrazione Trump, nonostante la retorica, appare ancora incerta o quanto meno in attesa di ulteriori concessioni in aggiunta alle aperture già mostrate da Pyongyang.

 

Lunedì, nel corso di una visita di stato in Francia, il presidente sudcoreano ha sollevato a questo proposito la questione della sospensione delle sanzioni applicate a Pyongyang attraverso l’intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Moon ha fatto appello all’omologo francese Macron in quanto leader di un paese con un seggio permanente all’interno del Consiglio stesso.

A due settimane dalla sparizione del giornalista saudita, Jamal Khashoggi, all’interno del consolato del suo paese a Istanbul, le ramificazioni e le problematiche sollevate dalla vicenda ancora non risolta continuano a emergere in tutta la loro complessità, riflettendosi su un’atmosfera mediorientale fatta di crescenti tensioni tra alleati o presunti tali e i governi occidentali.

 

Le accuse rivolte ai vertici della monarchia saudita da parte di Ankara sono state supportate nei giorni scorsi dalla notizia che le autorità turche sarebbero in possesso di registrazioni che documentano l’interrogatorio, le torture e l’assassinio del giornalista nella rappresentanza diplomatica di Istanbul. Il materiale esplosivo proverrebbe dall’Apple watch di Khashoggi, sincronizzato col suo telefono rimasto nelle mani della fidanzata, o più probabilmente da dispositivi di sorveglianza installati dall’intelligence turca nel consolato saudita.

La generosità disinteressata degli Stati Uniti nei confronti degli alleati europei ha avuto occasione di manifestarsi nuovamente questa settimana dopo che, grazie a un’iniziativa bipartisan del Senato di Washington, è stata depositata una proposta di legge per rafforzare la sicurezza energetica del vecchio continente. Il “European Energy Security and Diversification Act” è stato scritto e presentato mercoledì dal senatore democratico Chris Murphy e da quello repubblicano Ron Johnson.

 

In un comunicato diffuso alla stampa, i due politici si sono scagliati contro “l’influenza maligna” sul mercato energetico europeo della Russia, vero obiettivo del neonato provvedimento. Il linguaggio usato dai due senatori nasconde a malapena il loro ruolo di promotori, da un lato, degli interessi dell’industria energetica americana e, dall’altro, di quelli strategici della classe dirigente americana.

 

Se ancora vi erano dubbi sul pessimo stato delle relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Cina, questi sono stati fugati nei giorni scorsi con la visita a Pechino in un clima estremamente teso del segretario di Stato americano, Mike Pompeo. Il capo della diplomazia USA è stato protagonista di un acceso scambio di battute con il suo omologo cinese, in quella che è sembrata la logica conseguenza di un’escalation di provocazioni messe in atto da Washington nelle ultime settimane.

 

Già il fatto che il presidente cinese, Xi Jinping, non abbia incontrato personalmente Pompeo ha dato il polso della situazione tra le prime due potenze economiche del pianeta. Il segretario di Stato ha visto invece il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, il quale di fronte alla stampa internazionale ha rimproverato gli Stati Uniti per le “continue interferenze negli affari interni ed esterni della Cina”.


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