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La conferenza annuale del Partito Laburista britannico, tenuta questa settimana a Liverpool, è stata dominata dalla questione dell’approccio all’imminente Brexit. Le divisioni sono emerse fin dalle prime battute del dibattito e la risoluzione finale sull’uscita di Londra dall’Unione Europea ha rispecchiato la necessità della leadership di Jeremy Corbyn di mediare tra le varie posizioni all’interno del partito. Il risultato finale, così, è apparso non del tutto chiaro e, soprattutto, dipenderà dall’esito dei complicati negoziati in atto tra Bruxelles e il governo conservatore di Theresa May.
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Nel suo secondo intervento davanti all’assemblea generale delle Nazioni Unite, martedì il presidente americano Trump ha sostituito la Corea del Nord, al centro di un bellico discorso nel settembre dello scorso anno, con l’Iran come bersaglio della politica estera del suo governo, improntata sempre più al confronto diretto con i propri principali rivali strategici.
Gli attacchi contro la Repubblica Islamica dalla pedana del Palazzo di Vetro erano attesi e si inscrivono in un’escalation di minacce e iniziative provocatorie inaugurate con la decisione, presa dalla Casa Bianca la scorsa primavera, di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), sottoscritto a Vienna nel 2015.
Trump ha cercato di usare la sua apparizione di fronte ai leader di tutto il mondo non tanto per raccogliere consensi attorno a una nuova offensiva internazionale contro l’Iran, quanto per intimidire gli altri paesi e convincerli ad assecondare le decisioni di Washington. Infatti, sull’Iran gli USA sono in sostanza isolati a livello globale e i paesi o le compagnie che si adeguano alle sanzioni unilaterali americane lo fanno esclusivamente in conseguenza delle pressioni esercitate da Washington grazie al peso della propria economia e della propria moneta.
Il presidente americano ha parlato della “dittatura corrotta” che guida la Repubblica Islamica e che utilizza i proventi dell’accordo sul nucleare per finanziare una campagna terroristica destabilizzante per l’intero Medio Oriente. Attribuendo alcune delle azioni tipiche degli Stati Uniti, Trump ha poi accusato l’Iran di non rispettare “la sovranità delle nazioni”.
Malgrado le scintille tra i leader dei due paesi, alla vigilia dell’annuale Assemblea Generale era circolata la notizia di un possibile incontro tra Trump e il presidente iraniano Rouhani. L’ipotesi era legata però a un’eventuale riapertura delle trattative tra Washington e Teheran, teoricamente per trovare un’intesa diplomatica che sostituisca quella di Vienna. Da parte iraniana, questa proposta americana più o meno esplicita è stata respinta seccamente e lo stesso Rouhani ha chiesto un ripensamento da parte di Trump sul JCPOA prima di prendere in considerazione l’idea di un vertice bilaterale a qualsiasi livello.
Il 4 novembre prossimo torneranno comunque in vigore a tutti gli effetti le sanzioni americane che erano state sospese con l’accordo di Vienna. Il settore petrolifero iraniano sarà al centro delle misure punitive, come conferma l’intenzione dichiarata degli USA di azzerare l’export di greggio del paese mediorientale.
I leader della Repubblica Islamica hanno da parte loro giudicato impossibile, oltre che assurda e illegale, l’applicazione di un embargo totale alle proprie esportazioni di petrolio. Se ciò dovesse accadere, in ogni caso, Teheran ha minacciato gravi ritorsioni, come ad esempio la chiusura al traffico navale dello stretto di Hormuz.
L’obiettivo principale dell’amministrazione Trump è di mettere in ginocchio l’economia iraniana, così da convincere la leadership del paese ad ammorbidirsi e accettare le richieste americane, oppure per cercare di alimentare il malcontento interno e favorire un colpo di mano contro l’attuale regime.
I diktat di Washington restano totalmente inaccettabili per l’Iran. Lo stop al programma missilistico difensivo e l’abbandono delle ambizioni da potenza regionale, ovvero, nel gergo americano, del proprio comportamento “maligno” in Medio Oriente, sono presupposti irrinunciabili, oltre che legittimi, per un paese che deve fare i conti da quasi quattro decenni con la minaccia degli USA e dei loro alleati.
Le posizioni americane, delineate dal discorso di Trump all’ONU, confermano dunque le pericolose tendenze ultra-nazionaliste dell’amministrazione repubblicana e il ritorno anche formale a una gestione unilaterale degli affari internazionali, senza vincoli d’alcun genere.
La dimostrazione di ciò si osserva proprio in relazione all’Iran con l’abbandono dell’accordo sul nucleare nonostante gli altri paesi firmatari (Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania) e le stesse Nazioni Unite abbiano finora sempre certificato il totale rispetto delle sue condizioni da parte della Repubblica Islamica.
Proprio il crescente isolamento che implicano gli sforzi di Trump per provare a conservare la posizione internazionale degli Stati Uniti stanno suscitando polemiche e accese critiche da parte di commentatori ed esponenti di altre fazioni dell’apparato di potere americano. Pur condividendo in generale la necessità di contenere la “minaccia” iraniana in Medio Oriente, in molti a Washington temono che un confronto diretto con Teheran, derivante dall’affondamento deliberato di un trattato che include anche alcuni alleati cruciali, possa incrinare seriamente le relazioni con questi ultimi.
I timori in questo senso hanno trovato una nuova conferma lunedì. Presso la sede dell’ONU, i ministri degli Esteri di Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania, assieme alla responsabile degli Affari Esteri dell’Unione Europea, Federica Mogherini, hanno rilasciato una dichiarazione che annuncia il loro impegno per la creazione di un “meccanismo legale” che consenta di proseguire gli scambi commerciali con l’Iran anche dopo l’entrata in vigore delle sanzioni “secondarie” americane.
Questi paesi hanno ribadito il rispetto degli impegni internazionale dell’Iran e, nel concreto, proveranno a studiare un mezzo per facilitare le transazioni finanziarie con questo paese, in modo da proteggere le compagnie coinvolte dalle misure punitive decise da Washington. I dettagli dell’operazione non sono noti, visto che gli stessi paesi che l’hanno presentata sostengono che il funzionamento del meccanismo allo studio sarà sviluppato nel corso di altri vertici nel prossimo futuro.
Per alcuni commentatori una delle idee percorribile potrebbe essere quella del pagamento del petrolio e del gas iraniani non con denaro ma con merci, così da aggirare il sistema bancario. L’efficacia dell’eventuale provvedimento che potrebbe essere adottato sarà tutta da verificare. In molti continuano a essere scettici in questo senso, a cominciare da un certo numero di grandi compagnie che erano tornate a fare affari in Iran dopo l’accordo di Vienna ma che hanno deciso in questi mesi di rinunciare per non essere penalizzate dalle sanzioni americane.
Più che l’incisività dell’iniziativa dei firmatari del JCPOA, sembra essere per il momento l’aspetto simbolico quello più significativo. Soprattutto i paesi europei coinvolti e la stessa UE hanno cioè deciso, almeno come principio, di non assecondare gli alleati americani nella loro strategia iraniana, aggiungendo così un altro fronte all’escalation di tensioni transatlantiche registrate dall’inizio del mandato di Donald Trump.
Nonostante gli avvertimenti, il pericolo di un conflitto rovinoso e il deteriorarsi dei rapporti anche con partner e alleati, la Casa Bianca sembra essere intenzionata a proseguire sulla strada dello scontro con Teheran. Anzi, le provocazioni saranno a tutto campo e, oltre che sul fronte del nucleare, continueranno a consumarsi principalmente nel teatro di guerra siriano.
Infatti, sempre questa settimana il consigliere per la Sicurezza Nazionale, il falco “neo-con” John Bolton, ha assicurato che il contingente militare americano, stanziato illegalmente in Siria, non lascerà il paese in guerra nemmeno dopo la sconfitta definitiva dello Stato Islamico (ISIS), ma rimarrà fino a quando le truppe di Teheran, o le formazioni armate a esse affiliate, saranno impiegate al di fuori dei confini iraniani.
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Fino a un paio di settimane fa, la ratifica da parte del Senato americano della nomina a nuovo giudice della Corte Suprema del giurista di estrema destra, Brett Kavanaugh, sembrava dover essere una semplice formalità. Un’accusa di molestie sessuali risalente a 36 anni fa ha invece messo in discussione il prescelto del presidente Trump, i cui guai, con l’approssimarsi delle elezioni di “metà mandato”, rischiano anche di aggravare la situazione della Casa Bianca e del Partito Repubblicano, già costretti a fare i conti con un gradimento in picchiata e la prospettiva di perdere il controllo del Congresso di Washington.
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Un clamoroso scontro pubblico tra la cancelliera tedesca, Angela Merkel, e il capo dei servizi segreti federali (BfV), Hans-Georg Maassen, sta provocando in questi giorni nuove pericolose tensioni all’interno del sempre più fragile governo di “grande coalizione”. Soprattutto, la vicenda che ha portato al licenziamento di Maassen o, per meglio dire, alla sua promozione, ha mostrato ancora una volta i legami tra l’intelligence tedesca e gli ambienti di estrema destra, così come il costante spostamento a destra del baricentro politico della prima potenza economica europea.
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La visita di questa settimana in Corea del Nord del presidente sudcoreano, Moon Jae-in, ha confermato il costante miglioramento delle relazioni tra Pyongyang e Seoul. I due leader hanno sottoscritto una serie di accordi più o meno rilevanti, mentre Kim Jong-un ha annunciato ulteriori impegni e concessioni che sarebbe pronto a fare in cambio di qualche gesto reciproco da parte degli Stati Uniti.
Moon è diventato in questi giorni il terzo presidente della Corea del Sud a recarsi a Pyongyang, dopo le trasferte del 2000 di Kim Dae-jung e del 2007 di Roh Moo-hyun nel quadro della cosiddetta “Sunshine Policy”. Moon e l’attuale leader nordcoreano si erano già incontrati in due occasioni, entrambe lungo il confine, ad aprile e maggio di quest’anno.
L’obiettivo dichiarato della delegazione sudcoreana per quest’ultima visita era il tentativo di rilanciare il processo diplomatico tra Pyongyang e Washington dopo lo stallo subentrato agli entusiasmi suscitati dallo storico incontro tra Trump e Kim a Singapore nel mese di giugno. Come ha scritto la testata on-line governativa cinese Global Times, il compito di Moon sembra essere in buona parte quello del “lobbista” per l’amministrazione Trump e, infatti, a Pyongyang si è assicurato varie promesse da parte di Kim dirette senza dubbio alla Casa Bianca.
Kim ha parlato pubblicamente e davanti a membri della stampa estera nel corso di una conferenza con il collega sudcoreano, durante la quale ha assicurato come i due paesi concordino nel fare della penisola coreana “una terra di pace senza armi né minacce nucleari”. Nel concreto, il numero uno del regime nordcoreano si è detto pronto a chiudere, alla presenza di osservatori dei “paesi interessati”, il sito missilistico di Dongchang-ri. Questo impianto è situato nel nord-ovest del paese ed è ritenuto il centro nevralgico del programma di missili balistici intercontinentali, in teoria capaci di raggiungere il territorio americano.
Sempre nel quadro di iniziative reciproche, Kim ha inoltre ipotizzato lo smantellamento permanente della principale infrastruttura nucleare nordcoreana, quella di Yongbyon, a nord della capitale. Dopo il vertice di Singapore, dove aveva espresso un generico impegno per la denuclearizzazione della penisola, Kim ha già congelato i testi missilistici e nucleari, mentre alla vigilia di esso era stata portata a termine la distruzione di un altro sito missilistico.
Il gesto che Pyongyang si aspetta dalla Casa Bianca è una dichiarazione formale che chiuda ufficialmente la guerra del 1950-53 e conduca a un trattato di pace al posto dell’armistizio siglato dalle parti in causa oltre sei decenni fa. Il regime di Kim ha evidentemente necessità di ricevere rassicurazioni dai propri nemici prima di procedere con misure concrete per lo smantellamento del proprio arsenale nucleare e missilistico, visto comprensibilmente come una garanzia di sopravvivenza di fronte alla concreta minaccia americana.
All’interno dell’amministrazione Trump non sembra esserci invece una posizione univoca sull’approccio alla Corea del Nord e la richiesta di Kim. In linea generale, i media americani sostengono che la Casa Bianca non intende fare concessioni significative prima della denuclearizzazione del regime. Più precisamente, al di là delle promesse di Kim, a Washington ci sono forti resistenze a formalizzare la fine della guerra, poiché ciò comporterebbe il venir meno anche a livello ufficiale della minaccia nordcoreana. Minaccia o presunta tale che gli Stati Uniti utilizzano convenientemente per mantenere quasi 30 mila soldati in Corea del Sud e per giustificare politiche aggressive nei confronti di Pechino.
Anche se gli impegni presi questa settimana da Kim, così come le modalità con cui sono stati espressi, risultano insoliti per il regime e per certi versi quasi straordinari, i media americani hanno per lo più smorzato gli entusiasmi. Molti hanno ricordato ad esempio come Pyongyang non abbia ancora accettato altre richieste degli USA, come la consegna di un elenco delle armi nucleari in proprio possesso o una tabella di marcia precisa per il processo di denuclearizzazione.
Quasi sempre vengono inoltre ricordati alcuni rapporti e indagini che nelle scorse settimane avevano mostrato come le attività in ambito nucleare in Corea del Nord fossero continuate dopo il summit di Singapore. In realtà, Kim in quell’occasione non aveva preso alcun impegno specifico in questo senso, né era stato siglato un accordo esplicito, né, ancora, l’amministrazione Trump ha ricambiato le aperture nordcoreane con iniziative o promesse chiare, ad eccezione della sospensione delle esercitazioni militari con Seoul.
In definitiva, la questione che deve essere posta a questo punto del processo diplomatico non è, come sostiene la stampa ufficiale, se Kim o Moon riusciranno a convincere Trump della sincerità delle intenzioni nordcoreane. Se mai, è il governo americano a dover sciogliere i dubbi e a risolvere le divisioni interne, aprendo a una trattativa di pace che, in quanto tale, non può basarsi su minacce e diktat unilaterali, ma su un percorso graduale fatto di concessioni reciproche.
Trump, da parte sua, ha comunque accolto positivamente il summit di Pyongyang, definendo su Twitter “entusiasmanti” le promesse di Kim. Resta tuttavia da vedere se nell’immediato ci saranno le condizioni per un secondo faccia a faccia tra i due leader, come lo stesso Trump aveva lasciato intendere dopo avere ricevuto una lettera da Kim ai primi di settembre. Il sentimento prevalente a Washington lo ha espresso forse il senatore repubblicano Lindsey Graham, tradizionalmente ascrivibile ai “falchi” della politica estera USA. Graham ha addirittura condannato la visita di Moon a Pyongyang perché in contrasto con la politica di “massima pressione” sulla Corea del Nord condotta dalla diplomazia americana.
Nel corso del vertice di questa settimana, i leader delle due Coree hanno trovato un’intesa anche su varie questioni bilaterali. La più rilevante è l’accordo militare per evitare scontri armati lungo la linea di confine e non solo. Seoul e Pyongyang si impegnano cioè a cessare tutte le esercitazioni lungo il 38esimo parallelo e a ritirare le guardie di frontiera, in modo da creare un’area demilitarizzata dal Mar Giallo al Mar del Giappone.
Kim ha poi sollevato l’ipotesi di un suo viaggio a Seoul in quella che sarebbe una prima assoluta per un leader nordcoreano. Il presidente Moon ha affermato che la visita potrebbe avvenire entro la fine dell’anno. I due governi continuano infine a cercare di favorire le relazioni bilaterali anche attraverso lo sport. Seoul e Pyongyang proveranno a candidarsi per ospitare assieme le Olimpiadi estive del 2032, mentre sarà possibile la partecipazione con un team congiunto ai giochi di Tokyo del 2020. Un’unica squadra rappresentante le due Coree aveva già preso parte alle Olimpiadi invernali dello scorso febbraio nella località sudcoreana di PyeongChang, contribuendo a creare un clima propizio per i successivi sviluppi diplomatici.
Queste e altre iniziative già prese nei mesi scorsi confermano come tra le due Coree il processo diplomatico sia ben avviato e in una certa misura promettente, malgrado le resistenze all’interno di entrambe le classi dirigenti.
Da parte di Seoul, nonostante la retorica della pace e della fratellanza tra i due popoli, c’è soprattutto la ferma intenzione di sfruttare gli aspetti economici del disgelo. Da un lato, il governo Moon e il business sudcoreano puntano a partire da una posizione di privilegio in caso di apertura del vicino settentrionale, in modo da avere a disposizione una vasta manodopera disciplinata e conveniente, innescando nel contempo una competizione che abbassi il costo del lavoro anche in Corea del Sud. A dimostrazione degli interessi in questo ambito, Moon si è recato a Pyongyang con una folta delegazione di top manager, tra cui quelli di Samsung e Hyundai.
Dall’altro, il governo sudcoreano guarda con interesse al coinvolgimento della Corea del Nord nei molteplici piani di integrazione economica, commerciale e infrastrutturale che si propongono di collegare i paesi del continente asiatico e questi ultimi con l’Europa. La Corea del Nord potrebbe cioè diventare un punto di transito importante per i traffici commerciali e le forniture energetiche da e per la Corea del Sud.
Tutte queste dinamiche sono in ogni caso vincolate alle decisioni che prenderà il governo americano sulla questione coreana nel prossimo futuro. Per Washington, il nodo centrale resta il quadro più ampio della competizione con Pechino e se il regime di Kim, come ha spiegato un paio di settimane fa il segretario di Stato Pompeo, sarà pronto in sostanza a voltare le spalle all’alleato cinese, operando quella “svolta strategica” chiesta da Washington in cambio della normalizzazione dei rapporti bilaterali.