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Il voto di venerdì scorso nel referendum sulla legalizzazione dell’aborto a Dublino lascerà, nei prossimi mesi, le sei contee nordirlandesi l’unico territorio tra Gran Bretagna e isola d’Irlanda dove continuerà a non essere consentita l’interruzione di gravidanza volontaria.
Questa anomalia rischia di trasformarsi in un nuovo grattacapo per il governo di Londra, visto che le richieste già spuntate per estendere il diritto all’aborto nell’Ulster si scontrano con le posizioni ultra-conservatrici degli unionisti nordirlandesi, sul cui sostegno si fonda il gabinetto del primo ministro Theresa May.
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"Non parlano inglese. Non si integrano bene ". Così John Kelly, capo dello staff di Donald Trump, ha descritto le sue ragioni per la necessità di impedire agli immigrati messicani di entrare negli Stati Uniti. I bisnonni di Kelly venivano dall'Irlanda, ma da parte di sua madre erano di Avellino, in Italia. Poco si sa sulle loro capacità linguistiche, tuttavia alcune ricerche del Washington Post rivelano che la sua bisnonna non conosceva l'inglese dopo 30 anni di vita negli Stati Uniti.
L'esperienza linguistica della bisnonna di Kelly non è un'anomalia. I miei genitori, ora deceduti, impararono pochissimo inglese in quaranta anni di residenza in America. Perché la gente non impara l'inglese? Dopotutto, non è un gioco da ragazzi?
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- Scritto da Michele Paris
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Alcune delle modeste restrizioni agli abusi delle grandi banche americane, implementate dopo la crisi finanziaria del 2008, sono state di fatto smantellate la scorsa settimana con un voto sostanzialmente “bipartisan” della Camera dei Rappresentanti di Washington. A quasi dieci anni dall’esplosione della bolla dei mutui “subprime”, i giganti di Wall Street continuano ad avere il controllo pressoché totale sulla politica USA e anche le minime limitazioni alla speculazione e all’accumulo di profitti a spese della società risultano intollerabili.
La legge presa di mira dal voto dell’aula di martedì è la cosiddetta “Dodd-Frank”, approvata dal Congresso nel 2010. Questo provvedimento non sarà in effetti revocato, ma, con un atto di indescrivibile ipocrisia, il discrimine che farà scattare le regolamentazioni da esso previste viene quintuplicato fino a risultare applicabile al massimo a una decina di istituti bancari.
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- Scritto da Michele Paris
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A meno di tre settimane dalla data teoricamente fissata per lo storico incontro tra il presidente americano Trump e il leader nordcoreano, Kim Jong-un, molti degli aspetti centrali che dovrebbero caratterizzare l’evento restano tuttora irrisolti. Il faccia a faccia di questa settimana alla Casa Bianca tra lo stesso Trump e il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, ha fatto intravedere tutte le difficoltà del processo diplomatico in atto, assieme all’interesse di Washington e Seoul per un esito positivo della vicenda e, sia pure in maniera meno evidente, alle questioni di natura strategica che a esso si sovrappongono.
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- Scritto da Michele Paris
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Gli sviluppi più recenti del caso “Russiagate”, oltre a intensificare la lotta intestina alla classe politica americana, stanno mostrando come le presunte interferenze di Mosca nel processo elettorale degli Stati Uniti, se anche hanno avuto luogo, non sono state certo le più invadenti né le più pericolose per il sistema “democratico” d’oltreoceano. Un ruolo di gran lunga più importante lo ha svolto piuttosto l’apparato domestico di polizia e di intelligence, come ha chiarito la recente rivelazione sull’esistenza di una “talpa” introdotta dall’FBI nell’organizzazione della campagna elettorale di Donald Trump prima del voto del 2016.
Questa notizia ha scatenato le ire dello stesso presidente, come al solito pronto a sfruttare dal suo account Twitter qualsiasi occasione per scagliarsi contro l’indagine in corso nei suoi confronti, definendola, peraltro non senza ragioni, una “caccia alle streghe” in odore di maccartismo.
Domenica scorsa, Trump ha così chiesto al dipartimento di Giustizia di aprire un’indagine sull’FBI circa la correttezza del comportamento della polizia federale, motivato, a suo dire, da ragioni politiche e ordinato dall’allora amministrazione Obama per favorire la candidatura di Hillary Clinton.
La notizia dell’informatore dell’FBI infiltrato nello staff di Trump era stata data dal New York Times e i giornali ufficiali negli Stati Uniti, quanto meno quelli schierati contro la Casa Bianca, continuano a definire l’iniziativa come una normale procedura nel corso di un’indagine. L’utilizzo di informatori, anzi, non richiederebbe nemmeno il mandato o l’autorizzazione di un giudice.
In ogni caso, dopo la sfuriata di Trump, il dipartimento di Giustizia ha mostrato di voler accogliere l’invito a indagare eventuali “motivazioni politiche o improprie” nell’operato dell’FBI. Anche Rod Rosenstein, vice-ministro della Giustizia e diretto superiore del procuratore speciale Robert Mueller incaricato del “Russiagate”, nonostante in precedenza avesse messo in guardia da interferenze politiche nell’indagine, ha definito “inappropriata” l’eventuale infiltrazione di un informatore nella campagna elettorale di un candidato alla presidenza, per poi promettere azioni opportune se dovessero emergere particolari responsabilità.
La stampa USA ha invece optato per l’apertura di una nuova linea d’attacco contro la Casa Bianca, poiché le pressioni di Trump sul dipartimento di Giustizia sarebbero un altro tentativo illegittimo di far naufragare un’indagine che ha lo stesso presidente al centro dell’attenzione.
Il livello di isteria dei media “mainstream” è poi salito alle stelle lunedì, quando il presidente ha convocato una riunione alla Casa Bianca con rappresentanti del dipartimento di Giustizia e dell’apparato dell’intelligence per ribadire la sua richiesta. All’incontro hanno partecipato, tra gli altri, il già citato Rosenstein, il numero uno dell’FBI, Christopher Wray, e il direttore dell’Intelligence Nazionale, Dan Coats.
Trump ha inoltre insistito affinché il dipartimento di Giustizia metta a disposizione della commissione Intelligence della Camera dei Rappresentanti, e agli membri del Congresso che li hanno richiesti, tutti i documenti dell’FBI relativi allo stesso informatore e alle modalità con cui è stata condotta l’indagine del “Russiagate”. Su questa richiesta le polemiche negli USA sono in corso da tempo, visto che il dipartimento di Giustizia e l’FBI hanno sempre manifestato resistenze con la scusa di non volere rivelare informazioni sensibili che metterebbero a rischio i propri agenti e informatori.
Le richieste in questo senso della Casa Bianca e dei leader repubblicani sarebbero però ora state soddisfatte e il capo di gabinetto del presidente, John Kelly, dovrebbe a breve mediare tra gli alti funzionari della “sicurezza nazionale” e i membri del Congresso in vista della valutazione del materiale segreto relativo alle indagini. La svolta del dipartimento di Giustizia è comunque messa in dubbio da molti osservatori, i quali vedono in essa una tattica per prendere tempo o per smorzare le polemiche mostrando solo una parte dei documenti richiesti.
Se la condotta di Trump e i suoi scrupoli hanno poco o nulla a che fare con la democrazia e il diritto, è altrettanto vero che la vicenda del “Russiagate” sta evidenziando in maniera sempre più palese l’inconsistenza delle accuse di collusione tra il presidente e il suo staff e gli ambienti legati al Cremlino.
La questione centrale è invece il potere, il controllo e l’influenza dell’FBI e di altre agenzie governative, teoricamente dedite alla salvaguardia della “sicurezza nazionale”, sulla politica americana, con manovre che possono di fatto orientare un’elezione presidenziale. Infatti, il voto del novembre 2016 si era tenuto mentre l’FBI stava indagando su entrambi i candidati - Trump per le note accuse di collusione con la Russia e Hillary per l’utilizzo improprio di un server di posta privato nella corrispondenza ufficiale in veste di segretario di Stato - e in entrambi i procedimenti erano stati usati metodi profondamente antidemocratici.
Alla luce di quanto emerso in questi mesi, è poi innegabile che la maggior parte dei membri dell’apparato della sicurezza e dell’intelligence USA si sia adoperata per favorire l’elezione della Clinton, vista di gran lunga come il candidato più affidabile per gli interessi della classe dirigente USA, soprattutto nell’ambito della proiezione del potere di Washington all’estero. Coerentemente, proprio i politici democratici sono ora i più accesi accusatori di Trump e della Russia, mentre continuano a difendere strenuamente l’operato dell’FBI e dell’intelligence.
La stessa rivelazione della presenza di un informatore, e la sua identità, nell’organizzazione della campagna elettorale di Trump conferma gli interessi in gioco. Giornali come New York Times e Washington Post hanno a lungo taciuto il nome della “talpa” dell’FBI, ma altre pubblicazioni lo hanno da tempo identificato nel 73enne Stefan Halper. Quest’ultimo vanta una lunga carriera negli ambienti repubblicani di Washington. In particolare, Halper ha legami molto stretti, anche famigliari, con la CIA ed è stato protagonista in passato di manovre clandestine orchestrate dagli ambienti vicini a svariati presidenti, a cominciare da Richard Nixon.
Halper, ad ogni modo, su ordine dell’FBI nel 2016 avrebbe incontrato più volte vari membri dello staff di Trump, tra cui i consiglieri George Papadopoulos e Carter Page e il co-presidente della campagna elettorale del candidato repubblicano, Sam Clovis. Da costoro, Halper avrebbe presumibilmente dovuto ricavare informazioni sulla collaborazione illegale con il governo di Mosca per orientare gli elettori americani a favore di Donald Trump.
Secondo la versione ufficiale, l’indagine dell’FBI sulla campagna di Trump, che avrebbe poi previsto anche il ricorso al contributo di un infiltrato, sarebbe scaturita da una soffiata del diplomatico australiano Alexander Downer.
L’ex ministro degli Esteri e ora ambasciatore australiano in Gran Bretagna aveva allertato l’intelligence americana in seguito a un suo incontro in un bar di Londra con George Papadopouls, il quale aveva rivelato di essere in possesso di informazioni ottenute da Mosca che avrebbero potuto risultare dannose per la candidatura alla presidenza di Hillary Clinton.
La ricostruzione, oltre ad apparire di per sé esile, aveva inizialmente tralasciato di rivelare un aspetto determinante della figura di Downer, cioè i suoi legami con il clan Clinton. Sempre nel 2016, il diplomatico australiano aveva infatti svolto un ruolo cruciale nello stanziamento di ben 25 milioni di dollari da parte del suo governo a favore della Fondazione Clinton.
Questo e altri elementi rendono plausibile la tesi dell’operazione di natura tutta politica nel caso delle collusioni con Mosca. Un caso inaugurato nel 2016 per impedire l’elezione di Trump e proseguito dopo il voto per conservare un’arma utile, in caso di bisogno, ad affondare una presidenza considerata dannosa non tanto per la democrazia quanto per gli interessi strategici del cosiddetto “deep state” americano.
Quali che siano i prossimi sviluppi del “Russiagate”, appare dunque sempre più evidente che a influire sull’integrità della “democrazia” americana siano stati in primo luogo gli intrecci tra la politica e l’establishment della sicurezza nazionale, le cui attività clandestine hanno avuto un peso e una gravità ben maggiori di qualsiasi presunta “interferenza” progettata e messa in atto dal governo di Vladimir Putin.