La rivalità tra Cina e Stati Uniti sta ormai raggiungendo una gravità tale che anche nei vertici internazionali, solitamente caratterizzati da manifestazioni esteriori di cordialità e distensione, gli scontri verbali e sui contenuti stanno sempre più emergendo in maniera lampante, generando ulteriori tensioni e peggiorando ancora di più lo stato delle relazioni bilaterali.

 

Un esempio di ciò si è avuto nel corso dei due summit tenuti nei giorni scorsi a Singapore e a Port Moresby, in Papua Nuova Guinea, dove si sono riuniti rispettivamente l’Associazione delle Nazioni dell’Asia Sudorientale (ASEAN) e la Cooperazione Economica dell’Asia-Pacifico (APEC).

Nel corso di una conferenza dedicata alla “governance” della rete, il presidente francese, Emmanuel Macron, ha annunciato questa settimana un accordo raggiunto con i vertici di Facebook per rafforzare i meccanismi di censura del social network in linea con gli interessi del governo di Parigi. L’esperimento, che inizierà all’inizio del prossimo anno, è stato presentato ufficialmente come un passo avanti nella lotta alle “fake news” e all’intolleranza che circolano su internet.

 

Nel concreto, esso si risolverà piuttosto in un nuovo giro di vite contro la libertà di espressione, attuato sempre più frequentemente attraverso la collaborazione tra i governi e le multinazionali della tecnologia e della comunicazione.

La crisi politica in atto da quasi tre settimane nello Sri Lanka è esplosa da qualche giorno in una vera e propria disputa costituzionale all’interno di una classe politica sconvolta dagli stenti economici e dal crescente malcontento popolare nel paese dell’oceano Indiano. A fare da sfondo e a complicare la vicenda c’è poi la competizione internazionale per l’influenza sul governo cingalese e che mette di fronte l’India, gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali da un lato e la Cina dall’altro.

 

L’apice della crisi è stato raggiunto mercoledì dopo che il primo ministro incaricato, l’ex presidente Mahinda Rajapaksa, ha dovuto incassare una mozione di sfiducia dal parlamento di Colombo. Il voto, tenutosi in un clima di estrema tensione, è giunto dopo una serie di eventi drammatici iniziati il 26 ottobre scorso con la clamorosa rottura tra il presidente cingalese, Maithripala Sirisena, e il deposto premier, Ranil Wickremesinghe.

L’Onu lo ha definito un “successo storico” che apre la strada alla prossima Conferenza Nazionale ma, più prosaicamente, è probabile che l’ottimismo sia figlio della paternità Onu della Conferenza sulla Libia; la quale però, anche in considerazione dell’assenza di un documento conclusivo, può ben essere definita una parata dalle prospettive incerte. D’altronde, che l’esito non sarebbe stato particolarmente positivo era chiaro a tutti; non a caso i capi di governo occidentali si sono tenuti a debita distanza ed hanno delegato ai rispettivi sherpa la costruzione del percorso che avrà bisogno di diverso tempo per divenire un accordo (ammesso che ciò avvenga).

Sul complicato processo di pace in atto nella penisola di Corea continua a pesare non solo la duplicità dell’amministrazione Trump, ma anche e forse ancora di più i tentativi degli oppositori della Casa Bianca di boicottare un negoziato che ha implicazioni delicatissime per la posizione strategica degli Stati Uniti in Asia orientale.

 

A dare voce a quelle sezioni dell’apparato di potere americano che vedono con sospetto le aperture di Trump al leader nordcoreano, Kim Jong-un, è stato questa settimana ancora una volta il New York Times, con un articolo che è sembrato ricordare per certi versi la vergognosa campagna mediatica sulle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein che precedette l’invasione dell’Iraq nel 2003.

 

Basandosi su uno studio partorito dal programma “Beyond Parallel” del think tank di Washington, Center for Strategic and International Studies (CSIS), il Times ha pubblicato una storia che pretende di rivelare il persistere di attività belliche da parte del regime di Pyongyang, contrarie agli impegni presi da Kim nel vertice dello scorso giugno a Singapore con il presidente Trump.

 

L’articolo parla apertamente di un “grande inganno” orchestrato dalla Corea del Nord, che consiste nella continua produzione di missili balistici – convenzionali e nucleari – in una dozzina di siti rivelati da immagini satellitari recentemente acquisite. L’inganno o presunto tale di Kim è rappresentato dal fatto che il suo regime aveva annunciato e poi portato a termine la distruzione di un solo sito da utilizzare per il lancio di missili, così da mostrare la propria disponibilità al dialogo, lasciando però in funzione le altre strutture.

 

Questa realtà, secondo i reporter del Times, smentirebbe l’ottimismo della Casa Bianca nel caratterizzare lo stato delle relazioni con la Nordcorea e in particolare la dichiarazione di Trump sull’eliminazione della minaccia nucleare di Kim grazie all’operato del suo governo. L’unico obiettivo sostanziale effettivamente raggiunto finora dall’amministrazione repubblicana, conclude il giornale newyorchese, sarebbe perciò lo stop ai test missilistici.

 

Il punto di vista degli ambienti a cui dà spazio il New York Times è riassunto dalle parole del direttore del programma di studi sulla Corea del Nord del CSIS, il diplomatico americano Victor Cha, lo scorso anno considerato e poi bocciato come possibile ambasciatore a Seoul dalla Casa Bianca. Quest’ultimo ha spiegato che, alla luce della prosecuzione dei lavori presso le basi militari, ci sono timori che “Trump finisca per accettare una pessima intesa [con Kim]”, nella quale la Corea del Nord accetti di “smantellare un sito dove vengono eseguiti test missilistici e poco altro in cambio di un accordo di pace” che metta fine formalmente alla guerra del 1950-53.

 

Gli attacchi contro la Casa Bianca per una condotta presumibilmente troppo tenera nei confronti di Pyongyang seguono principalmente una doppia pista. La prima conduce ai tentativi di negare a Trump una qualsiasi vittoria diplomatica che possa incrementare il suo capitale politico sul fronte domestico.

 

La seconda e più importante riguarda invece questioni strategiche fondamentali per la classe dirigente di Washington e punta a far naufragare il processo diplomatico nel caso esso prospetti un indebolimento degli Stati Uniti in Estremo Oriente. Molti negli USA temono cioè che Trump, per ragioni di convenienza politica, decida di sottoscrivere un accordo con Kim senza ottenere in cambio la completa sottomissione della Corea del Nord e, soprattutto, il totale sganciamento dall’alleato cinese.

 

Essendo la distensione con Pyongyang un’arma da utilizzare contro la Cina, è evidente che la ratifica di un trattato di pace rischia di rendere superflua o, quanto meno, di mettere in discussione la massiccia presenza militare americana in Corea del Sud e nel resto dell’area asiatica orientale. Questa ipotesi contrasta fortemente con gli obiettivi strategici fondamentali di Washington, basati in parte su un impulso alla militarizzazione della regione in funzione di contenimento della minaccia cinese.

 

L’articolo del New York Times solleva ad ogni modo questioni quanto meno fuorvianti. L’inganno descritto questa settimana non può essere considerato tale poiché Kim non si è mai assunto gli impegni che il principale giornale “liberal” americano sostiene implicitamente che abbia violato. Né nell’incontro con Trump di cinque mesi fa né in seguito, il leader nordcoreano ha mai promesso la sospensione della produzione di missili balistici. Anzi, come hanno ricordato alcune testate di informazione alternativa, a partire dallo scorso anno e in varie occasioni Kim aveva annunciato espressamente lo sviluppo del programma missilistico del suo paese.

 

Nel vertice di Singapore, i due leader avevano concordato una “road map” per spianare la strada alle trattative e che prevedeva un generico impegno, da parte nordcoreana, alla “completa denuclearizzazione della penisola”, ma solo dopo il consolidamento dei rapporti con gli USA e la creazione di un clima “stabile e pacifico” a nord e a sud del 38esimo parallelo.

 

Kim continua in sostanza a chiedere provvedimenti distensivi da parte americana per riconoscere le iniziative prese dal suo regime, come il già ricordato smantellamento di un sito missilistico e lo stop ai test balistici. Una mossa di questo genere da parte degli Stati Uniti, a cominciare dall’accettazione di un trattato di pace definitivo, garantirebbe a Pyongyang un quadro di sicurezza sufficiente e contribuirebbe in maniera decisiva allo sblocco dei negoziati attualmente in stallo.

 

Al momento non ci sono però segnali che Trump intenda abbandonare la linea dura. Infatti, il governo USA continua a chiedere a Kim di liberarsi del proprio programma nucleare prima di fare concessioni significative. Il vice-presidente, Mike Pence, lo ha confermato questa settimana nel corso di una visita in Giappone, dove ha assicurato che le sanzioni contro la Corea del Nord resteranno in vigore fino alla denuclearizzazione “completa e verificabile” di questo paese.

 

Questa posizione è la prima responsabile degli stenti dei negoziati di pace e dell’atmosfera tesa tra le due parti. Una testimonianza della situazione si è avuta giovedì scorso, quando un incontro a New York tra il segretario di Stato, Mike Pompeo, e un emissario di Kim è stato cancellato all’ultimo minuto e senza spiegazioni ufficiali. Lo stesso secondo faccia a faccia tra Trump e Kim, anche se ancora ufficialmente in programma, è stato rinviato a una data ancora da decidere.

 

Nel diffondere notizie tendenziose, il New York Times favorisce dunque il persistere di un clima di sfiducia nella penisola coreana, con il rischio di far tornare le relazioni bilaterali al punto critico registrato nel corso del 2017. Ciò è confermato anche dal fatto che l’analisi del CSIS riportata dal giornale americano descrive, tra l’altro, un sito missilistico - quello di Sakkanmol, a circa 85 chilometri dal confine con la Corea del Sud - noto da tempo, non interessato da lavori recenti di ammodernamento e probabilmente usato per ospitare solo missili a corto raggio.

 

Estremamente rivelatrice delle intenzioni e della pericolosità della campagna del Times è stata la reazione all’articolo di questa settimana del governo sudcoreano del presidente Moon Jae-in, principale promotore del processo di distensione con Pyongyang. In un comunicato emesso martedì, l’ufficio presidenziale ha respinto le accuse di “inganno” rivolte a Kim, sostenendo che i siti missilistici descritti dal rapporto del CSIS sono già noti all’intelligence sudcoreana e a quella americana.

 

Inoltre, il portavoce di Moon ha anch’egli ricordato che il leader della Corea del Nord “non è vincolato a impegni specifici per rivelare o smantellare le infrastrutture” menzionate dal New York Times. Queste ultime, appunto, “non hanno nulla a che vedere con missili balistici intercontinentali o a medio raggio”, né sono in corso trattative che riguardano le questioni sollevate dal Times e dal CSIS. Piuttosto, ha concluso Seoul, l’esistenza di questi siti missilistici “dimostra la necessità di proseguire il dialogo con la Corea del Nord per mettere fine a qualsiasi minaccia militare”.


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