La crisi politica in atto da quasi tre settimane nello Sri Lanka è esplosa da qualche giorno in una vera e propria disputa costituzionale all’interno di una classe politica sconvolta dagli stenti economici e dal crescente malcontento popolare nel paese dell’oceano Indiano. A fare da sfondo e a complicare la vicenda c’è poi la competizione internazionale per l’influenza sul governo cingalese e che mette di fronte l’India, gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali da un lato e la Cina dall’altro.

 

L’apice della crisi è stato raggiunto mercoledì dopo che il primo ministro incaricato, l’ex presidente Mahinda Rajapaksa, ha dovuto incassare una mozione di sfiducia dal parlamento di Colombo. Il voto, tenutosi in un clima di estrema tensione, è giunto dopo una serie di eventi drammatici iniziati il 26 ottobre scorso con la clamorosa rottura tra il presidente cingalese, Maithripala Sirisena, e il deposto premier, Ranil Wickremesinghe.

 

 

Quanto meno a livello ufficiale, Sirisena aveva sollevato quest’ultimo dal suo incarico principalmente per due motivi. Il primo era la crescente divergenza tra i due leader sulla politica economica, con Wickremesinghe, esponente del Partito Nazionale Unito (UNP) di centro-destra, accusato di avere implementato impopolari misure neo-liberiste senza l’appoggio del presidente. L’altra ragione era invece un complotto per assassinare lo stesso Sirisena con l’aiuto dell’intelligence indiana, la cui esistenza non è stata però supportata da alcuna prova concreta.

 

Al posto di Wickremesinghe, il presidente aveva richiamato il suo predecessore Rajapaksa, con il quale condivide, anzi condivideva fino a un paio di giorni fa, la militanza nell’altra principale formazione del panorama politico dello Sri Lanka, il Partito della Libertà (SLFP). La riconciliazione tra Sirisena e Rajapaksa era avvenuta in seguito al collasso dell’accordo che nel gennaio del 2015 aveva portato l’attuale presidente alla guida del paese dell’Asia meridionale. In quell’occasione, la fazione filo-indiana e filo-occidentale dell’SLFP aveva unito le forze con l’UNP all’opposizione e, con una manovra sostenuta da Washington, era riuscita ad assicurarsi il successo alle urne di Sirisena.

 

L’operazione aveva avuto esteriormente l’aspetto di una campagna contro la deriva anti-democratica di Rajapaksa, grazie anche alle pressioni internazionali dovute ai crimini commessi dalla sua amministrazione nelle ultime fasi della sanguinosa guerra contro i separatisti delle “Tigri Tamil” (LTTE). In realtà, a spingere Washington e Nuova Delhi ad attuare un colpo di mano contro Rajapaksa erano in primo luogo i crescenti legami di quest’ultimo con Pechino, suggellati da alcune partnership nella costruzione di importanti opere infrastrutturali e nel possibile accesso cinese a una base militare in territorio cingalese.

 

Dopo il richiamo di Rajapaksa, in ogni caso, il partito di Wickremesinghe e altre formazioni politiche rappresentate in parlamento hanno iniziato una dura battaglia contro la decisione di Sirisena. Lo stesso Wickremesinghe ha respinto il suo licenziamento e si trova tuttora barricato nella residenza ufficiale del primo ministro, difesa dall’intervento delle forze di sicurezza grazie alla costante presenza di gruppi di sostenitori.

 

Con un’altra iniziativa condannata da molti come illegale, Sirisena aveva allora sospeso il parlamento fino al 16 novembre, verosimilmente per dare tempo a Rajapaksa di “convincere” un numero sufficiente di deputati da garantirgli il superamento di un voto di fiducia in aula. Le polemiche immediatamente seguite avevano però spinto il presidente ad anticipare la riconvocazione del parlamento al 14 novembre, ma, vista l’impossibilità per Rajapaksa di mettere assieme una maggioranza, venerdì scorso Sirisenza aveva alla fine sciolto l’assemblea e indetto nuove elezioni per il 5 gennaio prossimo.

 

Sia la decisione di liquidare il premier Wickremesinghe sia quella di terminare anticipatamente la legislatura hanno sollevato seri dubbi di costituzionalità, visto che entrambe le misure sarebbero contrarie a recenti modifiche della Costituzione cingalese, adottate dallo stesso Sirisena nel quadro di una riforma per ridurre i poteri presidenziali. Così, rispondendo a una serie di ricorsi, la Corte Suprema dello Sri Lanka martedì ha sospeso l’ordine di scioglimento, in attesa di un verdetto definitivo previsto per il 7 dicembre, e il giorno successivo il parlamento si è riunito per votare la sfiducia a Rajapaksa.

 

Poco prima dell’intervento nella crisi della Corte Suprema, un altro evento aveva evidenziato l’estrema volatilità del clima politico nel paese asiatico. Lo stesso Rajapaksa aveva cioè annunciato l’uscita dal Partito della Libertà per confluire nel Fronte Popolare dello Sri Lanka (SLPP), guidato dal fratello Basil. I vertici dei due partiti hanno in ogni caso annunciato un’alleanza con la quale prenderanno parte alle prossime elezioni, sempre che vengano confermate per il mese di gennaio.

 

L’SLPP era stato fondato solo qualche mese fa con l’intenzione di creare uno strumento che consentisse alla fazione dell’SLFP favorevole a Rajapaksa di presentarsi alle elezioni locali e raccogliere consensi significativi. Ciò è effettivamente avvenuto, grazie all’impopolarità del governo di “unità nazionale” guidato da Wickremesinghe, responsabile dell’implementazione di politiche anti-sociali dettate dal Fondo Monetario Internazionale (FMI).

 

Sia Rajapaka sia l’SLPP avevano fatto dunque segnare risultati positivi nel voto locale e questo dato, assieme al peggioramento del clima economico, ha avuto un peso probabilmente decisivo nel convincere Sirisena a disfarsi di Wickremesinghe e a nominare l’ex presidente alla guida di un nuovo governo. La manovra era insomma un tentativo disperato di contenere le tensioni nel paese, puntando su un ex uomo forte che gode ancora di un seguito imponente tra la maggioranza buddista cingalese e che aveva fatto opposizione al governo promettendo un’inversione di rotta rispetto alle politiche di rigore adottate finora.

 

Questi fattori avevano fatto così passare in secondo piano le accuse, rivolte non più di quattro anni fa da Sirisena a Rajapaksa, di avere instaurato una dittatura strisciante in Sri Lanka. Allo stesso modo, le denunce all’ex presidente per avere svenduto il paese alla Cina si sono trasformate ora nella tacita speranza che Rajapaksa possa usare i suoi legami con Pechino per rilanciare l’economia cingalese grazie, ad esempio, all’integrazione nella cosiddetta “Nuova Via della Seta” o, ufficialmente, “Belt and Road Initiative” (BRI).

 

La bocciatura della manovra di Sirisena e Rajapaksa da parte della Corte Suprema e del parlamento di Colombo solleva tuttavia seri dubbi sul futuro immediato di questo paese. A influire sui fatti delle ultime settimane sono anche le trame delle potenze con i maggiori interessi strategici nello Sri Lanka. Da Washington e Bruxelles le pressioni su Sirisena per ritornare sui suoi passi sono state infatti costanti dal 26 ottobre scorso, mentre più recentemente i governi occidentali hanno emesso una serie di dichiarazioni ufficiali per condannare lo scioglimento del parlamento e chiedere il rispetto delle procedure democratiche.

 

Gli scrupoli di Stati Uniti ed Europa non riguardano però tanto i diritti democratici, quanto il timore che il ritorno di Rajapaksa possa accelerare l’avvicinamento alla Cina di un paese collocato in una posizione strategica cruciale nell’oceano Indiano. Tanto più considerando che la stessa leadership Sirisena-Wickremesinghe, installata nel 2015 con un’agenda anti-cinese, era essa stessa tornata a guardare a Pechino per ottenere aiuti finanziari e investimenti economici difficilmente reperibili in Occidente o altrove.

 

I prossimi sviluppi della situazione nello Sri Lanka saranno comunque tutti da verificare. Le prospettive non lasciano per il momento intravedere una soluzione pacifica allo scontro interno alla classe politica cingalese. Rajapaksa e i suoi sostenitori hanno infatti dichiarato di non volere accettare il verdetto del parlamento, mentre il presidente Sirisena ha già cercato di concentrare nelle proprie mani i poteri di controllo sui militari e le forze di sicurezza del paese.

 

Gli oppositori di Sirisena e Rajapaksa, a loro volta, promettono di continuare a combattere quello che definiscono un tentativo di colpo di stato, forti anche dell’appoggio garantito più o meno apertamente dal governo dell’India e dalle potenze occidentali.

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