A pochi giorni dal primo vertice di alto livello tra esponenti dell’amministrazione Trump e il nuovo governo pakistano del premier Imran Khan, le tensioni tra i due alleati sono tornate ad aggravarsi in seguito all’ennesimo attacco contro Islamabad da parte di Washington. 300 milioni di dollari in fondi destinati ai militari sono stati infatti cancellati con la scusa che il paese dell’Asia meridionale continua a non fare abbastanza per contrastare i gruppi militanti islamici armati che combattono le forze di occupazione NATO nel vicino Afghanistan.

 

I contrasti tra USA e Pakistan sono evidenti a livello pubblico da tempo e derivano non solo da questioni legate al conflitto afghano ma, sempre di più, anche dall’evolversi del quadro strategico della regione, in relazione soprattutto al ruolo di India e Cina all’interno del sistema di alleanze asiatiche del governo americano. In questo quadro, la questione degli aiuti finanziari diretti da Washington a Islamabad serve alternativamente da incentivo o ricatto, così che lo sblocco o il congelamento di fondi portano spesso a dibattiti molto accesi, se non a un aperto ripensamento dell’alleanza tra i due paesi.

 

Già a inizio anno, il presidente Trump si era scagliato con un “tweet” contro il Pakistan, accusato, a suo dire, di avere ricevuto dagli USA 33 miliardi di dollari in quindici anni dando in cambio “nient’altro che menzogne e inganni”. Il Congresso di Washington aveva in seguito bloccato 500 milioni di dollari già stanziati a favore di Islamabad, così che il totale congelato quest’anno ammonta ora a ben 800 milioni.

 

Tecnicamente, il denaro americano negato al Pakistan non è riconducibile alla voce “aiuti”, visto che rientra tra i cosiddetti “Fondi di Supporto della Coalizione” che dovrebbero servire a compensare i paesi alleati di Washington delle spese sostenute nella cosiddetta “guerra al terrore”.

 

Per questa ragione, la notizia dei giorni scorsi ha incontrato la reazione stizzita del neo-ministro degli Esteri pakistano, Shah Mehmood Qureshi, il quale ha respinto la definizione generalmente offerta dai media di un taglio degli aiuti americani. Qureshi ha definito i 300 milioni di dollari congelati come denaro “nostro”, utilizzato per “rafforzare la sicurezza regionale” e per il quale gli Stati Uniti “ci devono rimborsare”.

 

Secondo quanto riportato domenica dalla Reuters, il segretario alla Difesa americano, James Mattis, ha preso la decisione durante l’estate di non autorizzare lo stanziamento dei 300 milioni di dollari, non avendo osservato “azioni concrete contro gli insorti” da parte del governo pakistano. Se ora il Congresso USA lo consentirà, questa somma verrà dirottata verso “altre priorità”, mentre il Pakistan potrà tornare a beneficiare dei fondi il prossimo anno, nel caso si adegui alle richieste USA.

 

La decisione relativa al Pakistan non riguarda solo l’aspetto finanziario, come aveva spiegato ancora la Reuters già qualche settimana fa. L’amministrazione Trump, “senza fare troppo rumore”, avrebbe da qualche tempo iniziato a ridurre anche il numero di ufficiali pakistani che tradizionalmente partecipano a programmi di formazione militare negli Stati Uniti.

 

Le decisioni prese da Washington non contribuiscono a creare la migliore atmosfera in previsione dell’incontro di mercoledì in Pakistan, dove giungeranno il segretario di Stato, Mike Pompeo, e il numero uno delle forze armate americane, generale Joseph Dunford. Anzi, l’annuncio del ritiro dei fondi appare una nuova iniziativa deliberata da parte dell’amministrazione Trump per colpire un alleato sempre più scomodo.

 

In particolare, lo stop ai fondi è un messaggio lanciato al governo da poco installato di Imran Khan, le cui prese di posizione durante la campagna elettorale erano state spesso critiche della condotta americana nel suo paese e nella regione. Il leader del partito Tehreek-e-Insaf (“Movimento per la Giustizia”) aveva condannato soprattutto le incursioni con i droni in territorio pakistano per colpire esponenti dei Talebani o presunti appartenenti a organizzazioni terroristiche.

 

Oltre a inserirsi nella delicata fase di transizione politica in atto a Islamabad, il blocco dei fondi arriva anche in un momento critico per il Pakistan dal punto di vista economico. Da tempo si inseguono le voci sulla necessità, da parte del nuovo governo, di chiedere un prestito al Fondo Monetario Internazionale (FMI). Se così fosse, è evidente che il peso determinante di Washington all’interno di questa istituzione potrebbe influenzare l’esito del prestito da destinare a Islamabad.

 

A livello ufficiale, esponenti del governo e dei vertici militari americani insistono nel ricondurre le tensioni bilaterali all’atteggiamento del Pakistan nei confronti dei talebani che troverebbero rifugio nel territorio di questo paese. In realtà, il raffreddamento dei rapporti e l’aumentare delle pressioni USA sulla classe dirigente pakistana sono da collegare anche al costante avvicinamento di Islamabad alla Cina e, in misura minore, alla Russia.

 

Il riallineamento strategico del Pakistan, sia pure ancora nelle fasi iniziali, è peraltro un riflesso del rimescolamento delle carte in Asia centrale e meridionale operato proprio dagli Stati Uniti. In un processo avviato almeno dall’amministrazione di George W. Bush, Washington ha incessantemente corteggiato l’India nel tentativo di costruire con questo paese una partnership strategica nell’ambito dei piani di contenimento dell’ascesa cinese.

 

La promozione dell’India come potenza regionale da contrapporre alla Cina, e per la quale gli USA vedono anche un ruolo di primo piano in Afghanistan, rappresenta una minaccia esistenziale per la classe dirigente pakistana. Queste manovre americane devono avere suscitato a Islamabad il sospetto di tradimento da parte dell’alleato americano e le ansie scatenate si esprimono spesso nelle frequenti dichiarazioni che ricordano a Washington l’enorme costo economico e umano sostenuto dal Pakistan in una guerra lanciata e condotta in maniera dissennata dagli Stati Uniti.

 

Il Pakistan, ad ogni modo, sembra intenzionato a proseguire sul percorso di integrazione euroasiatica promosso da Pechino. La Cina, tradizionale alleato di Islamabad, ha già investito o promesso di investire svariate decine di miliardi di dollari soprattutto in progetti di infrastrutture in Pakistan, a cominciare dal cosiddetto “Corridoio sino-pakistano” che dovrebbe collegare con una serie di opere i territori centro-asiatici della Cina con il porto di Gwadar, affacciato sul Mare Arabico.

 

Sul fronte dei rapporti con la Russia, più o meno gelidi dai tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, si registrano invece finora progressi nell’ambito della cooperazione militare e strategica. Non solo, il Pakistan continua anche a lavorare in maniera produttiva con l’Iran, con particolare attenzione agli aspetti energetici e della sicurezza della regione.

 

Dietro alle richieste americane di un maggiore impegno contro il fondamentalismo nelle aree di confine con l’Afghanistan vi sono dunque serie preoccupazioni per la direzione strategica che sembra potere intraprendere il Pakistan. Ciò non solo alla luce della natura del nuovo governo, ma anche delle tendenze centrifughe e multipolari che stanno interessando principalmente il continente asiatico e a cui Islamabad potrebbe adeguarsi in un futuro non troppo lontano.

 

Per il momento, l’attitudine americana sembra essere quella di mescolare iniziative ostili, come il recente blocco di fondi, a una tattica attendista per dare tempo all’esecutivo guidato da Imran Khan e, ancor più, ai militari, che rappresentano il vero centro di potere pakistano, di chiarire quali saranno gli indirizzi di politica estera che intenderanno dare al loro paese nei prossimi anni.

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