di Rosa Ana De Santis

Loro sono i detenuti, i cittadini invisibili. La loro é una voce scomoda, inopportuna. Quasi un pudore impedisce di parlare delle loro storie, di come vivano la detenzione, di come passino le giornate nelle gabbie dell’allevamento dove l’ossigeno si beve a sorsi di cannuccia . Del resto non è raro vedere le smorfie del fastidio sul viso della gente comune nel sentire di persone per le quali la pena è diventata davvero un’occasione di recupero e una possibilità di reintegro nella società. I colpevoli sono colpevoli. La libido forcaiola perde le staffe quando i numeri e le inchieste raccontano di condizioni di vita disumane, di sovraffollamento, di disagi sanitari, di totale abbandono. Perché la pena ha bisogno di un surplus di cattiveria. Sono 20.000 i detenuti in più rispetto al limite della “tollerabilità”. L’Italia ne conta ormai 63.460. L’Emilia Romagna vanta il record di un sovraffollamento del 193%. Questi sono solo alcuni numeri della matematica preoccupante dei penitenziari italiani.

di Rosa Ana De Santis

La storia di Omar Ba, senegalese di 29 anni, è strana. Insolita e un po’ stonata per la nostra coscienza collettiva ormai satura, quasi appagata dalla marea continua che porta dall’Africa folle di bisognosi sulle nostre spiagge. E’ normale sentire radicato un canone culturale di superiorità su quel tappeto di stranieri che quando non muoiono immediatamente di povertà, fuggono e rimangono nascosti, o stanno a guardare, impotenti, familiari e compagni di viaggio inghiottiti dall’odissea della miseria. Un viaggio così è quello che ha fatto Omar Ba e lo ha raccontato in un libro dal titolo “Sono venuto, ho visto e non credo più”. Ha provato a raggiungere l’Europa dal deserto algerino, poi ancora con un’imbarcazione che l’ha portato a Lampedusa. Dopo 48 ore di fermo è stato rispedito in Marocco. Ce l’ha fatta passando per le Canarie e rimanendo clandestino per due anni a Madrid. Chiuso nel frigorifero di un camion è poi arrivato in Francia. Oggi studia all’Università di Parigi e lavora per un ONG.

di Mario Braconi

Vi presento Milo, un ragazzino di dieci, dodici anni, un visetto sveglio e simpatico. Quando lo chiamiamo, siede sull’altalena dietro la sua casa, un edificio elegante e un po’ pretenzioso con tanto di peristilio: si alza in piedi e ci viene incontro. “Come stai?” gli domandiamo. “Tutto a posto, e tu?”. Rispondiamo: “Bene, un po’ nervoso”. “Tu nervoso? Non ci credo”, risponde. “Questa è la prima volta che migliaia di persone faranno questa esperienza…”. “Migliaia di persone?”, si domanda Milo, scrutando nervosamente dietro alle nostre spalle. “Hai fatto i compiti?”, gli chiediamo. Il ragazzino abbassa lo sguardo e si mette a camminare verso un piccolo stagno abbozzando qualche scusa imbarazzata, senza guardarci negli occhi; è chiaro, lo abbiamo preso in castagna. Quando gli proponiamo di aiutarlo nella ricerca che deve fare per la scuola, ci chiede di raggiungerlo presso la sua postazione, sulla riva dello stagno; lui ci arriva con un salto spericolato. Sussultiamo.

di Rosa Ana De Santis

Domenica 7 giugno Mario Balotelli passeggiava a Roma, zona Ponte Milvio, quando è stato insultato da un gruppo di tifosi giallorossi. Lancio di banane e cori denigratori per il colore della pelle. Il giovane attaccante dell’Inter non sporgerà denuncia e ha minimizzato l’accaduto ricevendo pubblicamente i complimenti del Presidente Moratti per la reazione composta e matura avuta di fronte a un episodio tanto grave quanto volgare. Stesso apprezzamento da parte del CT Under 21, Gigi Casiraghi. Marcello Lippi, CT della nazionale, gli ha consigliato di”non occuparsi di imbecilli”. Richiesta accettabile, non fosse che sono razzisti imbecilli, non imbecilli e basta. Mario Barwuah Balotelli è un talento da fuoriclasse in un corpo maestoso. Ha origini ghanesi, è nato a Palermo ed è stato cresciuto a Brescia da una famiglia italiana. Lo tradisce uno slang in ottimo stile padano. Un precoce esordio nel mondo del calcio a 15 anni, maglietta nero blu nella squadra dei grandi dopo soli 4 mesi nella Primavera. Mario è un cittadino italiano.

di Rosa Ana De Santis

Il capo dei vescovi, Cardinale Bagnasco, sull’onda delle proposte del Cardinal Martini, presentate nel suo ultimo libro Siamo tutti sulla stessa barca, scritto con don Verzè, riconosce l’urgenza di una pastorale cattolica più attenta ai divorziati risposati, alla nuova immagine e sostanza della famiglia italiana. Spaccati di società e costume rimasti finora fuori dalle porte delle basiliche, in totale noncuranza della loro fede, forse ora potranno trovare nuova considerazione nel catechismo per gli adulti. Sul sacramento dell’eucaristia Bagnasco non sposa le proposte di Carlo Maria Martini, troppo attente alle metamorfosi sociali della contemporaneità, all’incarnazione nel tempo storico della religione. I due non condividono una medesima lettura del significato del peccato, tantomeno del perdono. Eppure la distinzione tra errore ed errante è al centro di tutta l’escatologia cristiano-cattolica ed è la caratteristica distintiva di un dio che non punisce come giudice da vecchio testamento, ma sa usare misericordia. Una distinzione che aveva ispirato tutta l’enciclica di Giovanni XXIII Pacem in Terris.


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