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Si moltiplicano, in Italia, i casi di aggressioni ai danni di omosessuali. Mentre scriviamo, l’Arcigay denuncia l’ennesimo episodio: a Firenze, un ragazzo di 26 anni, a seguito di un’aggressione messa a segno da due uomini, ha riportato diverse fratture al volto, tanto che si è reso necessario un intervento chirurgico. Qual è la molla segreta in grado di trasformare in belve assetate di sangue quelli che altrimenti sarebbero solo soggetti bigotti, repressi e conformisti? L’inspiegabile tortuosità della psiche umana ha certamente un suo ruolo: c’è dunque da sperare che il lavoro di psichiatri e terapeuti riesca a riportare gli aggressori ad una dimensione (più) umana. E forse occorrerà ragionare anche degli effetti dell’immersione di menti deboli nel “brodo di coltura” da cui la destra italiana contemporanea non sembra potere (o voler) affrancarsi: machista, vaginocentrico e generalmente proclive al dileggio dei diversi, siano essi “abbronzati” (come dice il premier), “terroni” (epiteto caro ai leghisti) o, peggio che mai, di “froci”.
Dobbiamo dunque cercare spiegazioni nella psichiatria e nello spirito dei tempi. Non basta: se proviamo indignazione e orrore di fronte alla violenza, in particolare alla violenza “motivata” da questioni legate all’identità sessuale, non possiamo ignorare che l’omofobia ha solide radici culturali nel nostro Paese. Secondo un’indagine che l’istituto di ricerca Taylor Nelson Sofres (TNS) ha condotto a fine 2006 per l’Eurobarometro, per esempio, alla domanda “sareste d’accordo se i matrimoni omosessuali fossero riconosciuti in tutta Europa?” solo 31% del campione degli Italiani intervistati ha risposto favorevolmente; si noti che le percentuali di Irlanda, Francia, Spagna Germania e Gran Bretagna sono state rispettivamente del 41%, 48%, 56%, 52% e 46%. Parafrasando Nietzsche, si potrebbe dire che chi lotta contro i mostri deve guardarsi dal mostro che è dentro di sé: “E se guarderai a lungo nell’abisso, anche l’abisso guarderà dentro di te”.
Per sondare l’abisso occorre però, se non la stoffa del Super-uomo, per lo meno una buona dose di coraggio: virtù indispensabile quando si scopre che nella civile Gran Bretagna, patria del pensiero liberale, si é dovuto attendere il 1967 per avere una legge (il “Sexual Offences Act”) che depenalizzasse (almeno in parte) i rapporti omosessuali tra uomini consenzienti purché di età non inferiore ai 21 anni; peraltro, poiché la depenalizzazione era vincolata a condizioni assai stringenti, al di fuori della casistica prevista da quella legge, l’omosessualità continuava ad essere reato.
Nella Gran Bretagna del 1952, dunque, essere omosessuale poteva diventare un problema serio. Lo prova il caso di Alan Mathison Turing che, un giorno del 1952, si recò in una centrale di polizia di Manchester, la città dove viveva e lavorava, per denunciare un furto in casa. Il colpevole era Harry, amico dell’ex amante di Turing, il (diciannovenne) Arnold Murray. Tanto Harry che Arnold erano certi di farla franca: Turing non avrebbe sporto denuncia per timore di restare intrappolato in un outing involontario. Ma i due sbagliarono i loro calcoli, perché Turing non solo li denunciò, ma rese di pubblico dominio anche la sua relazione con Murray. Così, il 31 marzo del 1952, Turing da vittima di un crimine autentico venne trasformato dallo Stato in “criminale” immaginario.
Nel corso del procedimento giudiziario a suo carico, Turing si riconobbe “colpevole” di tutti e dodici i capi di accusa mossigli e, dimostrando quella rara forma di coraggio tipica degli uomini straordinari, dichiarò in più occasioni di non vedere alcun male nella sua condotta sessuale. Riconosciuto colpevole, per evitare la galera fu costretto a sottoporsi a una “terapia” obbligatoria settimanale di estrogeni - di fatto una castrazione chimica. Le conseguenze di questa vergognosa violenza di Stato furono devastanti, sia del punto di vista fisico che psicologico. Non solo il suo corpo sviluppò il seno, ma venne distrutta la straordinaria forma fisica di Turing, il quale, oltre al resto, era un asso della corsa (nel 1948 avrebbe partecipato alle Olimpiadi di Londra, se non fosse stato per un rovinoso incidente di cui era stato vittima).
Il professor Andrew Hodges, scienziato e biografo di Turing, ricorda che le disavventure di Turing non finirono lì: nel marzo del 1953 la polizia perquisì nuovamente la sua abitazione alla ricerca di un amico norvegese che era andato a fargli visita. Braccato e privato perfino del suo lavoro, Alan cadde in una grave forma di depressione che culminò con il suicidio. L’8 giugno del 1954 la donna delle pulizie lo trovò morto nella sua camera, una mela mangiata per metà vicino al letto: si scoprì che il frutto era stato imbevuto in un micidiale veleno: cianuro di potassio.
E’ solo relativamente sorprendente il fatto che Alan Turing abbia deciso di uscire di scena in modo tanto clamoroso ed originale; era una persona eccentrica e sono moltissimi gli aneddoti divertenti che lo provano. Girava in bicicletta con addosso una maschera antigas per difendersi da una fastidiosa rinite allergica, giocava a tennis con un impermeabile indossato sul corpo nudo, e si dice abbia intavolato una discussione filosofica con un bimbo sul fatto che Dio si sarebbe o meno raffreddato se si fosse seduto sulla terra umida.
Eppure c’è chi non ha escluso che la sua morte sia stata accidentale: Turing avrebbe toccato la mela che stava per mangiare con le mani sporche di veleno, o forse aveva cercato di mascherare da incidente il suo suicidio nell’intento di non aggravare il dolore di sua madre. Negli ultimi anni della sua vita, egli infatti si dilettava con il “gioco dell’isola deserta”, un passatempo di sua invenzione, le cui regole prevedevano curiosi compiti da portare a termine a casa sua, quali la produzione di un diserbante non velenoso o la placcatura in oro di un cucchiaio, procedimento in cui in effetti si impiega cianuro di potassio. Il fatto è, però, che Alan da almeno quindici anni canticchiava ossessivamente l’incantesimo della strega cattiva del film “Biancaneve e i Sette Nani” di Walt Disney (1937), che peraltro è sempre stato il suo film preferito: “Immergi la mela nella pozione, lascia che il sonno mortale la imbeva”.
Alan Turing è stato una delle menti più brillanti del nostro secolo: con uno scritto del 1936 “inventò” il computer come lo conosciamo oggi (non a caso, secondo alcuni, il logo della Apple, la mela morsicata, è appunto un omaggio al grande genio inglese); per prima volta nella storia della scienza teorizzò il concetto di intelligenza artificiale (che lui chiamava “intelligenza meccanica”) ideando il test che porta il suo nome; notevoli sono infine i suoi contributi alla “morfogenesi”, quella branca della scienza che, come spiega Piergiorgio Odifreddi, si sforza di comprendere “come l'informazione codificata in modo unidimensionale nella sequenza lineare del DNA, possa tradursi nella costruzione di un animale tridimensionale di forma specifica”. Per fare un esempio, banale ma suggestivo, Turing era alla ricerca del codice che spieghi perché le foglie di un albero siano posizionate in un determinato modo, o per quale ragione le macchie sulla pelliccia di un animale siano disposte come le vediamo.
E di codici Turing se ne intendeva davvero: infatti, il 3 settembre 1939, giorno in cui la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania, Turing iniziò a lavorare a tempo pieno per il dipartimento di Criptoanalitica del Governo, con sede a Bletchley Park, Milton Keynes (circa 100 chilometri da Londra). L’ufficio aveva l’obiettivo di decrittare i messaggi in codice con i quali i tedeschi gestivano le loro comunicazioni belliche. Le incredibili capacità analitiche, matematiche, logiche e statistiche di Turing consentirono agli Inglesi di violare più volte il codice Enigma ideato dai nazisti, cosa che costituì un fattore chiave della vittoria degli Alleati. Il professor Jack Good, collega di Turing a Bletchley Park, ha dichiarato al Daily Mail: “E’ stato un bene che le autorità non fossero venute a conoscenza dell’omosessualità di Turing durante il conflitto, perché se ciò fosse accaduto, lui sarebbe stato licenziato, ma noi avremmo perso la Guerra”.
Ma nella comunità scientifica, per fortuna, c’è chi non ha dimenticato: John Graham-Cumming, professore di informatica, ha lanciato una petizione on-line per chiedere al Governo inglese di chiedere ufficialmente perdono per il comportamento tenuto nei confronti del suo campione nazionale, senza il quale tutti noi forse oggi vivremmo sotto il Terzo Reich. All’appello, subito sottoscritto da intellettuali di peso come il professor Richard Dawkins dell’Università di Cambridge e lo scrittore Ian Mc Ewan, si sono velocemente aggiunte le firme di oltre 30.000 persone.
L’11 settembre, con largo anticipo rispetto alla scadenza dei tempi previsti per firmare la petizione, il premier britannico Gordon Brown si è scusato a nome del Governo britannico per il crimine commesso 57 anni fa: “Benché Turing sia stato giudicato secondo le leggi al tempo vigenti, e non sia possibile riportare indietro l’orologio, egli è stato trattato in modo assolutamente ingiusto, e sono lieto di avere la possibilità di dire quanto mi dispiace per tutto ciò che gli è successo. Alan, assieme alle molte altre migliaia di gay che sono stati condannati come lui a causa di leggi omofobiche, è stato trattato in modo indecente. Sono felice che tutto ciò faccia parte del passato.” La famiglia Turing ha espresso immediatamente soddisfazione per il riconoscimento della grave ingiustizia di cui Alan è stato vittima.
Sollevano le parole di Brown: è sempre una buona notizia, quando un governo chiede perdono per le infamie di cui si è macchiato. Anche se ormai è troppo tardi, abbiamo un gran bisogno di segnali culturali positivi come questo. Soprattutto, nelle parole di Brown è da apprezzare il riferimento a quelle moltitudini di gay che in Gran Bretagna sono stati castrati chimicamente o sbattuti in galera per aver amato o per avere avuto un’idea del piacere sessuale diversa rispetto a quella della maggioranza dei loro concittadini; in gran parte erano persone normali, come tutti noi, non geni che hanno cambiato la Storia e la Scienza come Turing. Ma nessuno, di solito, firma petizioni per loro.
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Nel G8 delle donne, mentre il pensiero e lo studio é sui numeri altissimi della violenza e degli abusi, il sottosegretario Roccella non si è risparmiata dall’esprimere le proprie convinzioni. Guai ad allargare il tema sulla violenza ai danni di tutti i diversi, agli episodi della Gay Street di Roma, per intenderci. Il pericolo di omofobia lei non lo vede, tantomeno la necessità di una legge specifica. E’ Anna Paola Concia, deputata del Pd e relatrice della legge contro l'omofobia, a ricordarle che quello che lei non vede c’è già costato asprissime critiche dell’Europa per la mancanza di un osservatorio “istituzionale” di monitoraggio e controllo. Se può essere vero che leggi specifiche sono comunque sempre sottese alla cornice inviolabile dei diritti umani e che nulla di nuovo possono “inventare”, è vero che non stigmatizzare reati e comportamenti discriminatori significa insabbiare lo scandalo e la riprovazione morale che certi episodi e pericolose correnti di umore sociale dovrebbero scatenare con la massima visibilità.
L’accoltellamento che a Roma ha visto coinvolto un giovane ragazzo e il suo aguzzino “svastichella” non deve essere accostato a una bravata, a un generico atto di teppismo. C’è un odio che ha radici nella differenza dell’orientamento sessuale e che induce a discriminare, a violentare in mille diversi modi chi non solo non nasconde quell’identità, ma la difende e ne rivendica pari diritti e pari dignità.
La Roccella viene dalla tradizione del femminismo. Conosce molto bene i termini del problema, sostiene di non “aver buttato a mare nulla” del suo passato, tanto da saper rivendicare l’argomento della differenza tra uomini e donne come tema principe del pensiero femminile, come differenza prima e assoluta, come inizio necessario di qualsiasi analisi di numeri e di opinione sulla violenza di genere. Proprio per questo la Roccella, sul tema della discriminazione ai danni degli omosessuali o dei trans, fa un errore di amnesia e cancella in una manciata di battute un metodo che il pensiero delle donne dovrebbe averle insegnato. L’errore del cattivo femminismo, che torna in queste interpretazioni frettolose, é quello di strappare una categoria concettuale importante come quella della differenza da ogni contesto sociale, assolutizzando il valore di un percorso culturale che sterilizzato da ogni battaglia contingente, diventa non solo inutile e svuotato di senso, ma dannoso per la stessa filosofia delle donne.
La scoperta della differenza è stata, prima di ogni altra cosa, la scoperta dei corpi. Portare la corporeità e ciò che la attraversa dentro le categorie neutre - o presunte tali - del pensiero. La rivoluzione delle donne è stata parallelamente una battaglia di piazza per l’uguaglianza e un lavoro speculativo meticoloso e difficile sulla differenza. Proprio il merito di aver scoperto un nuovo metodo di pensare il reale e i suoi contenuti, dovrebbe vederle in prima linea sulla difesa di tutte le differenze. Perché solo la differenza ha la potenzialità di essere un concetto singolare e plurale insieme. Non può per natura esserne soltanto una: é sé e ha in sé tutte le differenze possibili. Ha una tale dialettica intrinseca da non poter essere racchiusa in una specifica pagine della storia e della storia delle idee.
Il tema dell’omosessualità (e figuriamoci quello della transessualità) viene ancora vissuto e metabolizzato come una deviazione patologica dalla normalità. Come qualcosa da governare o da circoscrivere. E’ questo retroterra di sospetto che, favorendo il pregiudizio, compromette ogni battaglia politica di diritto e di riconoscimento. Questa impreparazione culturale, la stessa che pregiudica la società italiana in ogni percorso d’integrazione, azzera ogni possibile politica di emancipazione. Soltanto dopo arrivano le divisioni dovute a ideologie storiche di partito o alle fedi religiose.
Una legge ad hoc sarebbe una legge d’emergenza, non c’è dubbio. Forse persino un boomerang nel tempo, ma non ora. Ora forse è il momento di lanciare l’allarme e di individuare che un pericolo di discriminazione reiterata c’è. Ci sono potenziali vittime e vanno tutelate. Non è forse lo stesso ragionamento che può giustificare l’utilizzo di quote rosa obbligatorie come misura iniziale di uguaglianza? Si corre il rischio di veicolare un messaggio di subordinazione naturale delle donne? Forse sì, ma ben peggiore è il rischio di avere una politica senza le donne, declinata unicamente al maschile. Pensata dagli uomini e fatta su misura per loro.La cecità di chi non ravvede l’urgenza di un provvedimento sull’omofobia, è la stessa che in tante occasioni ha diffuso cattivo pudore, quando c’era da denunciare razzismo e xenofobia. Anche lì si era trattato di ragazzate ed episodi di violenza. Generici e generale. Un modo raffinato per non dover far nulla e mantenere uno status quo. La conservazione del più forte.
Il sottosegretario Roccella riconosce che esiste una forma di discriminazione a causa della condizione umana di chi è omosessuale o trans. Così la definisce. Una lettura un po’ troppo ecumenica di quello che accade da noi. Intanto definirla “umana” significa proprio abbandonare il linguaggio delle donne. E’ il gusto sessuale ad essere considerato fuori canone, inverso e malato. E’ l’identità sessuale a scatenare raid punitivi di pestaggio o d’insulto. Non è la vaga condizione umana. E’ una lettura meschina della natura e delle normalità che individua in queste persone un attentato al maschio, alla procreazione, alla famiglia. Questo significa voler parlare del problema omofobia, senza impaludarsi nella dottrina utilissima dell’inevitabile male umano.
L’allarme omofobia c’è, proprio perché rimane la tentazione di non vederlo proprio da chi avrebbe il potere di fare qualcosa. E’ qui che si annida il pericolo più grande per la società italiana e il suo futuro. Ogni forma di discriminazione non è mai neutra. C’è sempre una singola differenza da incarnare nell’uguaglianza, ideale che senza contenuto - come la libertà - diventa troppo sterile per appassionare, troppo debole per vincere. Se c’è una vittoria che le donne hanno riscosso nella storia è proprio quella di aver compreso che le idee hanno bisogno di incarnarsi e di essere partorite. Ogni donna racchiude in sé, in carne ed ossa, questo paradigma di esistenza e questo modello di valore. Nel corpo, nella cura, nella procreazione, nell’accoglienza, nella maternità. Un miracolo per quella filosofia che prima se ne stava aggrappata alle nuvole o chiusa nella testa dei maschi.
Le donne hanno guardato giù. Giù per dire qui, adesso, davanti a noi. Hanno scoperto che giù iniziava la verità. Da lì nasceva. E che ogni differenza andava chiamata per nome. Una vita pensata così non è mai cristallizzata in un sistema, é un moto perpetuo, un’incarnazione quasi mistica di sé. In mille forme e in mille tempi diversi. Non importa come si chiamerà domani quella differenza, essa avrà la sua dignità intellettuale e morale. Non vedere questo dato è “aver buttato quel mare alle spalle”, aver ridotto il femminismo a un manifesto superato di rivendicazioni anti-maschili e non aver capito che la differenza non è mai autoreferenziale. E’ tutte le differenze, è fuori e non è mai dentro. E’ ora e non è mai per sempre. E’ l’uguaglianza piena di storie, di corpi e colori. Basta saperla vedere.
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La legge che regolamenterà la fine della vita di tutti i cittadini italiani, è una legge che fonda le sue ragioni e i suoi cavilli proibizionisti in una concezione cristiana e cattolica dell’esistenza. Non sarà quindi quella che definiscono una legge laica “attenta alla vita”, ma una legge etica che garantirà l’esercizio della libertà individuale secondo il criterio della fede personale. Troppo, davvero troppo, anche per 41 sacerdoti che, su Micromega, cinque mesi fa, hanno difeso la libertà di coscienza che questa legge a molti toglierà. Il Sant’Uffizio appare di nuovo, stavolta trasformato in una cosa dolce e annacquata che si chiama Congregazione per la dottrina della fede. Ma intanto, questa morbida congregazione post conciliare, ha scritto ai vescovi cui quei sacerdoti fanno riferimento perché li richiamassero all’ordine e decidessero come reagire all’insubordinazione.
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Quella che leggiamo o vediamo in televisione è la trama di un’odissea inversa. Nessuna epica. Non c’è Calipso in quel mare, né la mappa per Itaca. La fuga sparge morti in acqua e sale senza eroismo. Corpi e non uomini, dissolti e non sepolti. Il mare è diventato fuoco che brucia gole e pance. Questo ha raccontato una giovane donna sopravvissuta al naufragio di uno degli ultimi barconi, dei 75 altri suoi compagni di viaggio che non ci sono più. Fa tremare di vergogna la sua testimonianza e assegna precise colpe e responsabilità. Come le chiamasse per nome e cognome.
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Pare che sia l'ultima novità, in fatto di controllo degli spazi pubblici. Evidentemente non sono sufficienti i milioni di telecamere posizionate nelle strade di quasi tutte le città del mondo, comprese le nostre. Evidentemente il controllo va esteso, e non basta vedere i volti di coloro che salgono sui treni o prendono l'autobus. L'esperimento pilota, per ora, riguarda la città americana di Baltimora, dove la MTA, Maryland Transportation Administration, la società che gestisce i trasporti pubblici, ha richiesto tutte le autorizzazioni legali per poter installare microfoni atti a captare e registrare tutte le conversazioni di passeggeri e personale sui treni metropolitani e sugli autobus della città.
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