di Rosa Ana De Santis

Via libera dall’AIFA (Agenzia Italiana del farmaco): la pillola abortiva RU486 potrà essere commercializzata negli ospedali ed utilizzata entro la settima settimana di gravidanza. Con ritardo e alla fine di un dibattito ingessato in apologie di fede, finalmente l’Italia si allinea ad altri Paesi Europei. La voce del No tuona dal Vaticano, che minaccia scomuniche per quanti la prescriveranno e quante vi faranno ricorso. Tuona anche dai cattolici seduti in Parlamento, che ufficialmente reclamano maggiori chiarimenti sugli effetti collaterali del farmaco, ma che sotto banco s’indignano per un’accessibilità probabilmente più fluida, meno irta di ostacoli e più ampia al diritto dell’aborto che, allo stato attuale, pur con la sacrosanta legge 194, continua a veicolare - per come viene spesso applicata dalle istituzioni preposte - una subcultura di sospetto e controllo psicologico e corporeo sulle donne che decidono di interrompere la gravidanza. Che non si tratti di un farmaco ad uso e consumo “fai da te” è stato ampiamente ribadito. Che sarà per questo utilizzata in ambito ospedaliero, l’ha ribadito l’assessore alla Sanità della Regione Emilia-Romagna, Bissoni. Che non sia da confondere con la pillola del giorno dopo, considerata come “contraccettivo d’emergenza”, per composizione e metodo di dosaggio ed azione, è stato chiarito. Ma la posizione dominante del dibattito di casa nostra è sempre quella della “china pericolosa”, del rischio incontrollato e delle conseguenze cosiddette indirette.

Non si parte mai dal presupposto che il farmaco sarà dispensato in modo corretto e che le donne che vi ricorreranno saranno ben informate e consapevoli dell’azione che compiono. E’ questa l’altra faccia del paternalismo. Il medico che guida, lo Stato che decide, la Chiesa che insegna la morale per cittadini, i quali - se ne deduce - sono poco più che inetti e incapaci di scegliere. Il trittico che inchioda gli italiani al regresso della cultura morale è esattamente questo.

Al fondo c’è la storia di un paese che non è confessionale sulla carta, ma che il diritto all’aborto non l’ha digerito. Ha tradotto la problematicità morale di una scelta difficile e articolata con la tentazione di restringere il diritto il più possibile, di sopportarlo, di collocarlo in una zona d’ombra che non è più clandestina per legge, ma che lo rimane nella cultura diffusa. Se l’aborto conserva lo status a priori di azione sbagliata nell’opinione pubblica, è soprattutto perché non esiste il riconoscimento pieno dell’autodeterminazione delle donne. L’idea che colei che vuole abortire possa essere aiutata in termini economici per decidere diversamente, o che sia spesso raccontata come una donna di basso profilo culturale, o come una donna dai costumi leggeri che ricorre all’aborto come un contraccettivo qualunque, è un modo, soltanto più sofistico, di non riconoscere come pienamente legittima la scelta di una donna che ricorre all’aborto.

Accanto a questa clandestinità diffusa esiste un problema parallelo che è quello del pensiero del dolore. Un marchio italiano. Entra e si diffonde come un’arteria in ogni spazio del pensiero morale. L’equazione tra sofferenza e rigore morale è piuttosto implicita e scontata. E’ la croce, un simbolo che vale un pensiero unico. E, come ci insegna la dottrina, se questo vale per tutti, vale un po’ più per le donne che nel dolore di Eva dovranno partorire, figurarsi abortire.

Distillare sofferenza sembra essere propedeutico a una maggiore comprensione della gravità morale della propria scelta o forse, molto più volgarmente, a comminare punizioni - meritate dice la società giusta - per il peccato commesso. L’idea che l’aborto possa diventare non chirurgico, meno invasivo, più tollerabile per il corpo delle donne, sembra da un lato un modo per assolvere la Medea, dall’altra l’invito ad abortire con disinvoltura.

Desta panico, par di capire, la via farmacologica all’interruzione di gravidanza, anche perché azzera del tutto i ruoli di quanti, all’interno dell’ospedale, sul dolore e sul dramma delle donne che faticosamente scelgono, s’impiegano a tempo pieno come delegati urbi et orbidel senso di colpa. E persino gli uomini, la cui condivisione della scelta e il cui supporto è auspicato, trovano minore rilevanza nell’ingestione di una pillola che in un intervento chirurgico. Pur senza nessuna superficialità, senza l’ombra di disinvoltura, ora le donne acquistano ulteriore libertà, autonomia, responsabilità. Questo spaventa.

E lo spavento, quando non dispone di scomuniche, si dota di dichiarazioni scomunicanti di aspiranti tutori della pubblica morale. Su tutte, le dichiarazioni dell’on. Volontè, che riemerge dal sarcofago solo quando le donne assurgono a notizia invece che a veline. Emblematiche per il taglio catechistico, per la faziosa lontananza dai termini autentici del problema. La medicina e la paura degli effetti del farmaco come scusa per una restrizione del diritto all’aborto, inteso anche come diritto delle donne a scegliere. La cultura che Volontè definisce mortifera, è invece solo cultura. Punto. Senza inquinamenti pubblici di dogmi e derivati.

La cantilena è la stessa che abbiamo sentito persino sul vaccino contro il cancro dell’utero, sia nella sua forma tetravalente che bivalente. La scusa erano i protocolli, le reazioni collaterali, i rischi. Quelli che sono presenti in tutte le casistiche dei farmaci, persino dei banali antidolorifici. La ragione sostanziale era il timore che il vaccino potesse deresponsabilizzare e indurre le adolescenti, le candidate migliori, ad avere una normale e consueta vita sessuale. Potremmo chiamarlo il serio e il vecchio male di tutta la farmacia allopatica. L’ospedale pubblico sarà garante massimo su questa linea.

Vorremo scandalosamente osare di più. Ci piacerebbe pensare ad uno Stato davvero laico, nel quale negli ospedali pubblici fosse rispettata talmente in toto la legge e i diritti contemplati da mettere al bando le restrizioni penalizzanti, de facto dovute alla presenza degli obiettori di coscienza. Obiezione che dovrebbe diventare talmente legittima e riconosciuta da mettere i medici e farmacisti obiettori nelle condizioni di andare a lavorare in strutture religiose e non più negli ospedali della Repubblica Italiana o nelle farmacie comunali. Obiezione che rende le donne cittadine di serie B, meno tutelate e meno riconosciute da un diritto che, ancora una volta, parla a tutti ma intende maschi, penalizzando la libertà delle sole donne.

Quanto alla scelta e alla responsabilità che la governa, il vero nervo scoperto dell’affanno veterodemocritiano, non c’è garanzia che lo Stato possa istituire per legge un’assicurazione su un tema che è rigorosamente privato. Bisogna rassegnarsi. Sarà sovrano l’esercizio di responsabilità di ogni singola donna. L’attacco alla RU486 è un attacco volgare ed ignorante all’aborto e va denunciato per quello che è. Se questa pillola consentirà alle donne di interrompere una gravidanza prima di arrivare alla 194, questo non genererà automaticamente una facilitazione emotiva e di pensiero alla scelta di non diventare madri. Chi pensa questo riduce la maternità all’essere gravida. Un dato sconfessato dal patrimonio culturale del pensiero delle donne e da un conseguente riscatto sociale che questo Paese, vecchio e troppo padre, non ha ancora perdonato.

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