di Giovanna Pavani

Il caso Meocci, come previsto, è arrivato alla sua logica e inevitabile conclusione: l'ex consigliere dell'Authority tlc in quota Udc, arrivato sulla poltrona più alta di viale Mazzini per aver contribuito alla stesura della legge Gasparri, e' incompatibile con la carica di direttore generale della Rai e deve quindi lasciare, immediatamente a parere dell'Autorità, l'incarico che attualmente ricopre a viale Mazzini.
Ci sono volute tre riunioni, ma alla fine l'Autorità per le Comunicazioni si é espressa con grande severità su una questione che, già al momento della nomina di Mocci, era apparsa palesemente in contrasto con la legge: tuttavia si è voluta trascinare fino ad oggi nell'attesa, probabilmente, di conoscere quale sarebbe stato il nuovo assetto politico del Paese. Anche l'Authority, a quanto sembra, tiene famiglia. Il neo incompatibile dg della Rai si é visto anche comminare una multa di 373 mila euro, mentre la Rai, per averlo nominato dg, sarà chiamata a pagare 14,3 milioni di euro, una cifra pari all'attivo di bilancio aziendale che proprio ieri pomeriggio il cda Rai ha approvato. Nonostante gli appigli giuridici siano piuttosto labili, c'è da ritenere che la Rai decida di ricorrere al Tar del Lazio contro la delibera, se non altro nella speranza di veder ridotta la sanzione.

di Lidia Campagnano

Il fascismo è un'invenzione italiana, e il 25 aprile di ogni anno è un'occasione buona per sputarne un altro pezzetto. Perché se è vero che oggi si festeggia la liberazione dell'Italia dal fascismo bisogna tuttavia badare a raccogliere e a buttare via tutte le scorie, le radichette tenaci, i semi che il fascismo sradicato ha lasciato in giro. Sono lavori stagionali, buoni per ogni giardino compreso il giardino politico, sociale e culturale.
L'ultimo sapore di fascismo in ordine di tempo lo abbiamo sentito in occasione delle elezioni, come un veleno che serpeggiava a proposito del senso stesso del votare, nell'arroganza con cui la coalizione battuta dichiarava di non essere battuta. E forse il più pienamente fascista dei suoi esponenti non va ricercato tra gli ex fascisti, tra i rumorosi, o nel personaggio più noto e platealmente imitativo di questi ultimi anni, ma nel più moderato, insignificante, normale e tradizionale dei suoi ministri, nei suoi silenzi, nel suo tramare e sparire, dichiarare e smentire a seconda degli scatti di nervi del suo capo. No, non diremo il nome perché indovinarlo sarà un utile esercizio di antifascismo profondo, di riconoscimento del "tipo" del fascista italiano, sempre un po' vigliacco, appannato nella fisionomia, caratterizzato da un'identità servile, un pochino tardo ma pronto a modificare, se è il caso, il colore della giacchetta.

di Domenico Melidoro

Che governare un Paese complesso e politicamente diviso come l'Italia fosse tutt'altro che un'impresa agevole era una cosa di cui Prodi non dubitava e, le vicende degli ultimi giorni, rafforzano le sue certezza in proposito. Non è stato facile far comprendere ai propri avversari (Berlusconi escluso, che ancora non si rassegna alla sconfitta) che avevano perso il confronto elettorale. Adesso è arrivato il momento della composizione dell'esecutivo e della scelta dei Presidenti delle due camere, ed è stata sufficiente la contesa tra D'Alema e Bertinotti per la presidenza della Camera dei deputati per far vivere momenti di tensione all'interno della maggioranza di Centro-Sinistra che si appresta a governare il Paese. La situazione si è apparentemente tranquillizzata quando il Presidente dei DS ha ritirato la sua candidatura creando di fatto le condizioni perché il leader di Rifondazione comunista possa assumere in breve tempo quel ruolo istituzionale che nei decenni scorsi fu ricoperto, tra gli altri, da figure storiche della Sinistra Italiana come Pietro Ingrao e Nilde Iotti. La rinuncia di D'Alema ha evitato che l'Unione si trascinasse in un vortice di polemiche che l'avrebbe ulteriormente indebolita e lacerata, ma soprattutto ha sottratto Prodi (al giudizio del quale Piero Fassino si era appellato per porre fine alla contesa) all'imbarazzante compito di esprimere la sua preferenza per uno dei due contendenti.

di Ilvio Pannullo

Finalmente ritorna la politica. Ad una settimana dal voto, dopo aver ascoltato, soppesato e valutato le dichiarazioni della Cdl, tutte dirette a delegittimare l'Unione di Prodi, iniziano, nei partiti, le prime frizioni del periodo post-elettorale. Chiuse le urne e data finalmente ufficialità alla vittoria del Professore, quello che ci attende è un periodo di grande incertezza. Nonostante la Suprema Corte di Cassazione abbia finalmente messo la parola fine a dieci giorni di polemiche, chiarendo che Prodi ha vinto le elezioni e Berlusconi le ha perse, la situazione di stallo si è tutt'altro che risolta. L'unica certezza riguarda l'Unione che, nonostante il risultato etichettabile come modesto, è a tutti gli effetti lo schieramento vincente, l'unico possibile per la formazione del nuovo governo.
La chiara vittoria ottenuta alla Camera dei Deputati dal centro-sinistra è, però, fortemente ridimensionata dall'altrettanto chiara ingovernabilità al Senato. Ingovernabilità che rischia di trasformarsi in crisi, se l'Unione non dovesse da subito mostrarsi compatta e leale nell'attuare il programma elettorale.

di Sara Nicoli

Forse tra una decina d'anni qualcuno racconterà che nella lunga notte elettorale del 10 aprile, al ministero dell'Interno, non appena sono cominciati ad affluire i risultati che davano per vincente l'Unione, qualcuno ha tentato goffamente di inquinare il responso delle urne. Non è stato solo l'assurdo e sguaiato grido di Berlusconi nella notte, quell'urlo ai brogli che ha fatto sobbalzare prima il Quirinale e poi l'Italia intera: forse era il segnale di un tentativo di delegittimazione del voto attraverso il mancato riconoscimento dei conti, tramite insinuazioni e manovre perché alla fine, non tornassero e si dovesse ritornare alla urne in grande fretta. I dettagli di questa torbida storia, forse, non li conosceremo mai, ma una cosa ora la possiamo dire con certezza: il ministro Pisanu ha avallato Silvio Berlusconi nella ormai infinita strategia del broglio e della tensione. Nel tentativo, penoso, di ritardare il più possibile l'insediamento di Prodi e la conseguente sua uscita di scena, il Cavaliere si è avvalso della lentezza della macchina elettorale del Viminale per intorbidire le acque rendendo dubbio l'esito reale del voto e delegittimando così la vittoria dell'avversario.


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