di Lidia Campagnano

Il fascismo è un'invenzione italiana, e il 25 aprile di ogni anno è un'occasione buona per sputarne un altro pezzetto. Perché se è vero che oggi si festeggia la liberazione dell'Italia dal fascismo bisogna tuttavia badare a raccogliere e a buttare via tutte le scorie, le radichette tenaci, i semi che il fascismo sradicato ha lasciato in giro. Sono lavori stagionali, buoni per ogni giardino compreso il giardino politico, sociale e culturale.
L'ultimo sapore di fascismo in ordine di tempo lo abbiamo sentito in occasione delle elezioni, come un veleno che serpeggiava a proposito del senso stesso del votare, nell'arroganza con cui la coalizione battuta dichiarava di non essere battuta. E forse il più pienamente fascista dei suoi esponenti non va ricercato tra gli ex fascisti, tra i rumorosi, o nel personaggio più noto e platealmente imitativo di questi ultimi anni, ma nel più moderato, insignificante, normale e tradizionale dei suoi ministri, nei suoi silenzi, nel suo tramare e sparire, dichiarare e smentire a seconda degli scatti di nervi del suo capo. No, non diremo il nome perché indovinarlo sarà un utile esercizio di antifascismo profondo, di riconoscimento del "tipo" del fascista italiano, sempre un po' vigliacco, appannato nella fisionomia, caratterizzato da un'identità servile, un pochino tardo ma pronto a modificare, se è il caso, il colore della giacchetta. Sarà il caso, in questo 25 aprile del 2006, che badiamo ad aumentare nel numero e a rinnovare nella qualità gli strumenti di identificazione dei residuati di fascismo, visti gli anni che ci lasciamo, si spera, alle spalle. Non avere un sussulto antifascista quando ci spiegano la ragionevolezza della guerra è cattivo segno, per esempio. E ancora, sarà il caso di ricordare che l'elogio della disuguaglianza sociale, l'affermazione della sua "naturalità" ci devono allarmare. E il tono matriarcale con cui è stata raccomandata al paese la selezione dei bambini degni di procedere negli studi dalla massa indegna è ancor più allarmante, nella sua ferinità.
Altrettanto devono allarmare i richiami ai valori immarcescibili, perché ciò che è immarcescibile è già mummificato: quando si parla troppo di famiglia, per esempio, con volto grave e vaga commozione, è perché qualcuno sta raccomandando a tutto il paese quella vecchia arte di arrangiarsi tra parenti, affettuosi o meno, che evita accuratamente sia la distribuzione della ricchezza sociale che l'incivilimento delle relazioni umane primarie, e a pagarla saranno soprattutto donne e bambini, ma le donne saranno dette colpevoli e immorali (insieme a immigrati e gay). Per non parlare del risvolto anche solo vagamente mafioso, o extralegale, o "semplicemente" egoista che tanta devozione alla famiglia porta con sé.


E occorre stare all'erta davanti a quel sintomo avvertibile quando le Chiese di tutto parlano tranne che di Dio, che sarà pure ineffabile, ma certo non è sostituibile con l'abitudine, la tradizione, l'identità patria e neppure con il trafficare con tutte le astuzie della politica, o con ogni sorta di ossessione normativa nel campo della sessualità. E davanti a quell'altro sintomo che si esprime in un gran parlare di Tutela della Vita Fin Dall'Embrione (non si chiama più stirpe, è stato privatizzato) e in una sorta di parallela incapacità di proteggere i bambini reali, anche dalle famiglie, anche dalle parrocchie.

E che altro? Ciascuno si guardi attorno e pensi (pensare è un diritto, ma garantirselo è lotta, lotta interiore prima di tutto). Perché è dallo spessore umano, culturale e politico del proprio e altrui antifascismo che può venire una gioiosa giornata di liberazione. Anche questo, una buona giornata, non è dato senza un gran lavorare con passione su idee e comportamenti e relazioni umane.
Non è data, non è naturale, la libertà. Che è come l'amore, se non la si coltiva muore di tristezza.
Detto questo, auguri, buon 25 aprile, si faccia festa.

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