di Rashid Khalidi *

Il cambiamento nella percezione degli arabi dimostra quanto superficiali e false fossero le immagini di questa regione mostrate dai media occidentali, che vedevano in despoti brutali e corrotti l’unica opzione per controllare degli "individui indesiderabili". Improvvisamente, essere un arabo è diventata una cosa positiva. Le persone in tutto il mondo arabo provano un senso d’orgoglio nel liberarsi di anni di timorosa passività sotto dittature che hanno regnato senza riguardo per la volontà del popolo. Essere arabo è diventato qualcosa di rispettabile anche in Occidente.

L’Egitto ora è visto come un luogo stimolante e progressista; espressioni di solidarietà al suo popolo sono accolte dai manifestanti a Madison, Wisconsin; e i suoi brillanti giovani attivisti sono visti come modelli per un nuovo tipo di mobilitazione del XXI secolo. Gli eventi nel mondo arabo sono trattati dai media occidentali più di quanto non abbiano mai fatto e sono discussi positivamente in una maniera che non ha precedenti. Prima, quando si parlava di qualcosa di musulmano o mediorientale o arabo, lo si faceva quasi sempre con una connotazione fortemente negativa. Ora, durante questa primavera araba, ciò non accade più. Un’area che era un modello di stagnazione politica è ora testimone di una rapida trasformazione che ha catturato l’attenzione del mondo.

Tre cose devono essere dette a proposito di questo cambiamento nella percezione degli arabi, musulmani e mediorientali. La prima è che ciò dimostra quanto superficiali e false fossero le immagini di questa regione mostrate dai media occidentali. Praticamente tutto ciò di cui sentivamo parlare erano gli onnipresenti terroristi e radicali barbuti e le loro donne velate che cercavano di imporre la Sharia, mentre i despoti brutali e corrotti erano l’unica opzione per controllare questi individui indesiderabili. Nei discorsi del governo americano, fedelmente ripetuti dai principali media, la maggior parte di quella corruzione e brutalità era spazzata via da termini menzogneri come “moderati” (cioè coloro che fanno e dicono ciò che vogliamo). Quel termine, e quello usato per denigrare i popoli della regione, “the Arab Street”, ora devono essere ritirati in modo definitivo.

La seconda caratteristica di questo cambiamento nella percezione è che essa è molto fragile. Anche se tutti i despoti arabi fossero abbattuti, vi è un enorme investimento nella visione “noi contro di loro” della regione. Questo include non solo gli interi imperi burocratici impegnati nella “guerra al terrorismo”, non solo le industrie che sovvenzionano questa guerra e le miriadi di collaboratori e consulenti tanto generosamente ricompensati per i loro servizi; include anche un vasto arcipelago ideologico di false competenze, con numerosi “esperti di terrorismo” profondamente impegnati a propagare questa caricatura del Medioriente.

Queste teste parlanti che passano per esperti hanno affermato senza sosta che i terroristi e gli islamisti sono l’unica cosa da cercare e vedere. Sono coloro che hanno sistematicamente insegnato agli americani a non vedere il vero mondo arabo: i sindacati, coloro che sono impegnati a favore dello Stato di diritto, i giovani interessati alla tecnologia, le femministe, gli artisti e gli intellettuali, coloro che hanno una ragionevole consapevolezza della cultura e dei valori occidentali, le persone comuni che vogliono semplicemente avere opportunità decenti e una voce in capitolo riguardo a come sono governati. Gli esperti ci hanno invece insegnato che questo era un popolo di fanatici, un popolo senza dignità, un popolo che si meritava i suoi terribili governanti appoggiati dall’America. Coloro che hanno potere e influenza e che hanno questa prospettiva quasi razzista non la cambieranno in fretta, se mai lo faranno; per averne una prova basta vedere quella vergogna che è Fox News.

Terzo, le cose possono facilmente e molto velocemente volgersi al peggio nel mondo arabo, e questo potrebbe rapidamente corrodere queste nuove percezioni. Niente finora è stato risolto in alcun paese arabo, nemmeno in Tunisia o Egitto, dove i despoti se ne sono andati ma una nuova trasformazione è a malapena cominciata. Questo è vero nonostante entrambi i paesi posseggano la maggior parte dei prerequisiti per un governo costituzionale, una democrazia matura, progresso economico e giustizia sociale come una forte società civile, una storia di organizzazione del lavoro, molti individui con un elevato livello di istruzione e alcune forti istituzioni. E nonostante il coraggio di coloro che sono stati picchiati, respinti con gas lacrimogeni e a cui è stato sparato, negli altri paesi arabi è cambiato ancora meno. Tutto questo può peggiorare, trasformarsi in guerra civile in Libia o Yemen, in una paralisi in Tunisia ed Egitto, o in contestazioni contro il potere senza fine e senza frutto in Bahrein, Giordania, Marocco, Oman, Iraq e altrove.

Mentre l’Occidente impara qualcosa di più su questa importante parte del mondo, ci sono ancora alcune verità da trasmettere. Una è che questa non è una regione inadatta alla democrazia, o che non ha tradizioni costituzionali o che ha sempre sofferto sotto governanti autocratici. Il Medioriente ha certamente sofferto di recente sotto una serie di regimi spaventosi. Ma questa è anche una regione dove i dibattiti su come limitare il potere dei governanti hanno portato al fervore costituzionale in Tunisia ed Egitto degli anni Settanta dell’Ottocento e alla creazione di una Costituzione nell’Impero Ottomano nel 1876. In quel periodo l’impero includeva non solo l’attuale Turchia ma la maggior parte del mondo arabo orientale, inclusi Siria e Iraq. Più tardi, nel 1906, in Iran fu istituito un regime costituzionale. Ancora dopo, nel periodo tra le due guerre mondiali e posteriore, i paesi semi-indipendenti e indipendenti della regione erano governati principalmente da regimi costituzionali.

Questi erano esperimenti difettosi che incontrarono grandi ostacoli nella forma di interessi radicati, la tendenza autocratica dei governanti, l’analfabetismo e la povertà delle masse. Tuttavia, i fallimenti nello stabilire regimi costituzionali e parlamentari non furono dovuti solamente a questi fattori. Questi governi erano sistematicamente minati dai grandi poteri imperialisti, le cui ambizioni e interessi erano spesso ostacolati dai parlamenti, dall’opinione pubblica nascente e da una stampa che insisteva sulla sovranità nazionale e su un’equa distribuzione delle risorse.

Dai poteri europei che minavano i governi costituzionali iraniano e ottomano all’inizio del XX secolo, all’interferenza dell’America in Siria e Libano e al suo rovesciamento del governo iraniano negli anni Cinquanta del Novecento, lo schema veniva continuamente ripetuto. I poteri occidentali non solo diedero poco appoggio - o non lo diedero affatto - a un governo democratico in Medioriente; spesso lo minarono attivamente, preferendo avere a che fare con autocrati sottomessi che eseguivano i loro ordini. In altre parole, l’appoggio occidentale a regimi dittatoriali facilmente manipolabili non è una novità.

Nelle ultime settimane è stato detto molto a proposito del potenziale di applicazione del “modello turco” nel mondo arabo. In effetti, la Turchia e i paesi arabi sono giunti alla loro comprensione della modernità - e con essa delle costituzioni, della democrazia, dei diritti umani, civili e politici - attraverso un comune passato tardo-ottomano. Questo periodo, dagli anni Sessanta dell’Ottocento al 1918, permise a questi popoli di comprendere questi concetti, nonostante i nazionalisti sia turchi che arabi abbiano fortemente negato qualsiasi impatto ottomano nei loro stati-nazione moderni.

Oggi la Turchia fornisce un modello di riconciliazione tra un potente establishment militare e la democrazia, e tra un sistema secolare e l’orientamento religioso di gran parte della popolazione. Offre anche un modello di successo economico, di una possibile sintesi culturale tra Oriente ed Occidente, e di influenza a livello mondiale. In tutti questi aspetti, è percepito come un modello più attraente di ciò che è largamente visto nel mondo arabo come un’alternativa fallita: il sistema teocratico iraniano che dura da 32 anni.

Gli Stati arabi hanno una lunga strada da percorrere per disfare il terribile lascito di repressione e stagnazione e muoversi verso la democrazia, lo stato di diritto, giustizia sociale e dignità, che sono state le richieste universali dei loro popoli durante questa primavera araba. Il termine “dignità” include due richieste: primo, per la dignità dell’individuo di fronte ai governanti che trattano i loro sudditi come esseri senza diritti e indegni persino di essere disprezzati. Ma c’è anche una richiesta di dignità collettiva di Stati orgogliosi come l’Egitto, e degli arabi come popolo. Questa era la richiesta dei leader nazionalisti quando arrivarono al potere a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, quando presero di mira il colonialismo e il neocolonialismo.

Dopo i fallimenti di quella generazione, i leader nazionalisti furono rimpiazzati da dittatori che fornirono la “stabilità” tanto cara all’Occidente, stabilità acquisita al prezzo della dignità individuale e collettiva. È questa umiliazione, davanti a governanti repressivi e di fronte al mondo esterno, che i dimostranti da Rabat a Manama cercano di eliminare. Finora si sono concentrati quasi interamente sulle cause dei loro problemi, che sono largamente interne. C’è stata poca o nessuna enfasi sulla politica estera, nessuno sentimento anti-occidentale visibile e poche menzioni a Israele e Palestina.

Sarebbe molto pericoloso ignorare questa richiesta di dignità collettiva, sia che si riferisca criticamente al modo paternalistico in cui gli Stati Uniti hanno finora trattato la regione, sia che si riferisca alla scarsa attenzione da essi dedicata alla convinzione  di molti arabi che i palestinesi non hanno avuto giustizia in passato e non la hanno tuttora. Se il popolo nel mondo arabo sarà fortunato a raggiungere transizioni democratiche, e potrà cominciare a confrontarsi con i profondi problemi che la società affronta, è fondamentale che un nuovo mondo arabo, nato dalla lotta per la libertà, la giustizia sociale e la dignità, sia trattato col rispetto che merita, e che per la prima volta sta cominciando a guadagnare.

Fonte: Nena news

*Rashid Khalidi è uno storico di origine palestinese, docente presso la Columbia University. E’ considerato l’erede di Edward Said, di cui ricopre la cattedra dopo la sua morte. In italiano sono pubblicati: La resurrezione dell’impero. L’America e l’avventura occidentale in Medio Oriente, Bollati-Boringheri, Torino, 2004; Identità palestinese. La costruzione di una moderna coscienza nazionale, Bollati- Boringheri, Torino, 2003.

di Nena news  

Il Cairo. Migliaia di egiziani nelle ultime ore hanno assaltato al Cairo e in altre località dell’Egitto varie sedi dell’Amen el Dawla, la Sicurezza dello Stato, braccio violento del regime dell’ex presidente Hosni Mubarak. L’Esercito, al potere nel paese dall’11 febbraio, non ha ancora toccato questo corpo di polizia accusato di abuso di potere, della scomparsa di persone poi ritrovate morte a causa di torture e abusi di ogni genere.

Così quando si è sparsa la notizia, non si sa se infondata, che fosse in atto un tentativo da parte degli agenti segreti di distruggere documenti compromettenti, è scattata la rabbia popolare.

Gli assalti alle sedi dell’Amen el Dawla hanno causato diversi feriti. Il bilancio più grave è stato registrato venerdì sera ad Alessandria, con 21 agenti sono stati feriti. A Medinet Nasr (Cairo) i manifestanti sono riusciti ad impossessarsi di documenti che si temeva stessero per essere bruciati e a consegnarli all’esercito. A città 6 Ottobre incendi appiccati dagli stessi poliziotti sono stati domati da vigili del fuoco e dagli stessi manifestanti, desiderosi di recuperare fascicoli e dossier.

L’Egitto della rivoluzione del 25 gennaio non vuole che la protesta si fermi e, più di tutto, che rimanga in piedi la struttura di potere dell’ex raìs Mubarak. Meno che mai l’Amen el Dawla responsabile di corruzione diffusa, di prepotenze e di torture, di aver imposto nomi per la direzione di media, fino alle morti di persone detenute, grazie alla legge d’emergenza che consentiva di non notificare gli arresti ai parenti e di trattenere all’infinito i «sospetti».

Intanto, ad appena due mesi dalla strage di Alessandria, un nuovo scontro tra musulmani e cristiani copti, scoppiato a villaggio di Sol, a sud del Cairo, è costato la vita a due persone. Poco dopo, una folla inferocita ha dato alle fiamme la chiesa della piccola comunità. Quando la polizia è intervenuta per riportare la calma ma l’edificio era già devastato. E secondo l’agenzia Asianews, un prete e tre diaconi risultano tuttora dispersi dopo l’attacco alla chiesa.

A far scattare la scintilla dell’odio religioso è stata una storia d’amore tra un cristiano e una musulmana. A restare uccisi sarebbero stati i genitori dei due giovani. Dopo i funerali del padre della ragazza, una folla inferocita di musulmani ha attaccato la chiesa di Shahedain, situata nello stesso villaggio, devastandola e dandola alle fiamme.

 

di Nunzio Corona

Gerusalemme, 11 gennaio 2011, Nena News - Qual’é la vera posizione delle istituzioni europee nei confronti delle politiche israeliane, che continuano ad essere oggetto di condanna della comunità internazionale? A giudicare dall’entità degli scambi commerciali e degli aiuti offerti all’Autorità Palestinese, l’Unione Europea sembrerebbe svolgere un ruolo di assoluta importanza nel sostegno alla creazione di un futuro stato palestinese. Almeno dal punto di vista economico.

Tuttavia, analizzandone con più attenzione l’operato, viene da chiedersi quale sia effettivamente la sua posizione nei confronti delle politiche israeliane oggetto di condanna della comunità internazionale. Il libro di David Cronin Europe’s Alliance with Israel: Aiding the Occupation (PlutoPress, 2011), offre una scrupolosa documentazione di come le varie istituzioni (Parlamento Europeo, Consiglio Europeo, Consiglio dei Ministri e Commissione Europea) e i singoli stati dell’UE siano maestri nel “predicare bene ma razzolare male”.

Lo Stato di Israele pretende legittimità e rispetto nel consesso internazionale amando definirsi l’unico bastione della democrazia nel Medio Oriente. Tuttavia, oltre ad avere piu’ volte violato l’art. 2.4 della Carta delle Nazioni Unite che proibisce “la minaccia o l’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”, é in flagrante violazione di oltre 30 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. In tali risoluzioni il Consiglio di Sicurezza chiede una chiara azione di risposta da parte di Israele, come, per limitarci a quelle di maggiore attualità, nel caso della 446 del 1979 che esige la cessazione della costruzione di insediamenti colonici ebraici nel territorio occupato, compresa Gerusalemme, e la rimozione di quelli già costruiti.

O come nel caso della risoluzione 252 del 1968, poi seguita dalle 267/69, 298/71, 476/80, e 478/80 che chiedono a Israele di annullare l’annessione di Gerusalemme Est. O come per la 487/81 che chiede a Israele di aprire i suoi impianti nucleari all’ispezione dell’Autorità Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA). E’ importante notare che queste risoluzioni pongono veri e propri obblighi allo Stato di Israele, e Israele soltanto. Ciò significa che dipende soltanto dalla volontà di Israele rispettarle o no, senza dovere negoziare alcunchè con i palestinesi o con gli Stati confinanti. Insomma Israele non ha bisogno di aprire trattative con nessuno per interrompere la costruzione di colonie o per cancellare l’annessione di Gerusalemme Est o per aprirsi alle ispezioni dell’IAEA

Di fronte ad un partner del genere, ci si aspetterebbe che una potenza economica come l’UE che si presenta come “onesto mediatore” nel conflitto israelo-palestinese, attore neutrale e sostenitore dei diritti fondamentali del popolo palestinese, avesse qualcosa da dire e soprattutto si comportasse di conseguenza per fare rispettare tali diritti. Invece, l’osservatore attento non può non rimanere confuso di fronte a comportamenti che oscillano tra l’incoerenza e la cattiva fede.

Come giudicare altrimenti l’aspetto straordinario delle relazioni tra EU e Israele per cui l’UE è ben felice di sottoscrivere accordi con Israele nonostante quest’ultimo sia in palese violazione degli obblighi contenuti negli stessi accordi? Il 28 novembre 1995 l’UE consentiva a Israele di diventare membro della cosiddetta Partnership Euro-Mediterranea comprendente gli Stati che si affacciano sul Mediterraneo. In quel periodo le truppe israeliane, in violazione del diritto internazionale, occupavano parte del Libano e della Siria, oltre ai territori palestinesi di Cisgiordania e Gaza. La Dichiarazione di Barcellona, che sancisce la Partnership, obbliga i suoi firmatari a “rispettare l’integrità territoriale e l’unità di ciascuno degli altri partner” e una serie di altre norme del diritto internazionale.

E’evidente come l’EU abbia chiuso, e continui a chiudere, entrambi gli occhi consentendo ad Israele di diventare partner privilegiato anche con accordi susseguenti che obbligano gli Stati contraenti, compreso Israele, a rispettare i principi della legislazione internazionale. L’Euro-Med Agreement, che rientra nella suddetta Partnership, consente a Israele un accesso privilegiato al mercato europeo. Nel suo art. 2 l, Agreement richiede che “il rispetto per i diritti umani e i principi democratici” sia considerato un “elemento essenziale” (e non opzionale, ne’ semplicemente desiderabile) dell’accordo. Eppure esistono pochi dubbi che Israele continui imperterrito a disattendere questi obblighi. La stessa EU ha definito come “punizione collettiva “, e quindi crimine di guerra secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, il blocco economico imposto alla Striscia di Gaza da almeno il 2007. In tutta risposta il 16 giugno 2008 i 27 Paesi dell’UE decidevano di potenziare (“upgrade”) le relazioni con Israele.

L’elemento più importante che probabilmente spiega l’attrazione fatale che Israele esercita sui partner europei é la cooperazione scientifica. Israele, che investe nella ricerca tecnologica circa il 5% del PIL, il doppio degli Stati Uniti, fa parte fin dagli anni 90 del Programma Quadro per la Ricerca Scientifica dell’UE ed e’coinvolto in più di 800 progetti per un valore, tra 2007 e 2013, di 4,3 miliardi di €. Purtroppo buona parte dei successi scientifici di Israele sono collegati all’occupazione militare. La ditta Elbit Systems di Haifa, costruttore dei droni usati a Gaza, e le Industrie Aeronautiche Israeliane, tanto per fare un esempio, sono tra i beneficiari dei fondi per la ricerca UE. Come dire che le nostre tasse di contribuenti europei vanno a finanziare l’industria bellica israeliana e a consolidare l’occupazione del territorio palestinese.

Analogo effetto di sostegno all’occupazione si può dire abbia la politica commerciale dell’UE. Secondo un recente accordo, quasi tutti i prodotti alimentari israeliani, sia freschi che conservati, possono entrare nell’UE senza pagare dazi doganali. In teoria queste facilitazioni riguarderebbero soltanto i prodotti provenienti dall’interno dei confini internazionalmente riconosciuti di Israele e non dalle colonie israeliane nel territorio occupato. Tutti ormai sanno però che Agrexco, il maggiore esportatore israeliano di prodotti alimentari, etichetta come “Made in Israel” i prodotti provenienti sia da Israele sia dalle colonie. Chiudere gli occhi di fronte a tale situazione significa per l’UE essere complice dell’espansione degli insediamenti colonici, soltanto a parole condannati nelle dichiarazioni ufficiali.

L’aspetto che più colpisce del comportamento delle istituzioni che compongono l’UE é il livello di tolleranza e l’uso di due pesi e due misure. Ad esempio, soltanto cinque Stati europei si sono schierati a favore dell’Assemblea Generale dell’ONU nell’accettazione del Rapporto Goldstone sui crimini di guerra commessi da Israele nell’attacco a Gaza alla fine del 2008. Gli altri 22 Stati UE si sono astenuti o opposti (come ha fatto l’Italia). Tale atteggiamento contrasta fortemente con la rigidissima posizione che l’UE aveva assunto sul conflitto tra Georgia e Russia nell’estate del 2008, sul trattamento dei civili da parte del governo dello Sri lanka durante l’offensiva contro i ribelli Tamil nella primavera 2009, o sugli attacchi contro gli albanesi in Kosovo.

Come detto, in termini quantitativi l’UE è senz’altro il partner più amico dei palestinesi. Tra gli “aiuti al popolo palestinese” troviamo il Coordinating Office for Palestinian Police Support (COPPS) che nel 2011 riceverà dall’UE 8 milioni di €. I corpi di polizia che vengono formati in questo progetto devono tuttavia limitarsi ad arrestare i compatrioti palestinesi e non i coloni israeliani che compiono violenze contro di loro. In pratica é come se la polizia palestinese facesse il favore a Israele di tenere sotto controllo la propria popolazione occupata, compiendo abusi e torture che, nonostante la denuncia delle organizzazioni per i diritti umani, passano inosservati agli occhi dell’UE.

Che dire dell’ipocrisia che trapela dai maldestri tentativi di dare un’impressione di imparzialità praticando invece un chiaro favoritismo verso l’aggressore, unanimemente condannato soltanto a parole? Come valutare, da una parte, le dichiarazioni di ferma condanna per la continua colonizzazione ebraica di Gerusalemme Est rilasciate dalla responsabile della politica estera europea, Catherine Ahton, e, dall’altra, la sua raccomandazione che Israele sia designato come “partner privilegiato” dell’UE, al pari di USA e Cina, o al tranquillo benestare concesso all’entrata di Israele nell’OCSE nel maggio 2010?

Se i nostri politici e rappresentanti nei consessi internazionali oltre alle dichiarazioni di condanna non intraprendono alcuna azione pratica, sta allora alla gente comune adottare misure non violente, previste dal diritto internazionale, come il BDS, per convincere chi viola le regole a tornare sui propri passi, così come era avvenuto con successo per il Sudafrica dell’apartheid.

 

di Nena news

Ramallah. Migliaia di palestinesi rendono omaggio oggi a Yasser Arafat, morto l’11 novembre 2004 a causa di una misteriosa malattia del sangue mai identificata dai medici, non solo quelli palestinesi ed arabi che lo ebbero in cura ma anche quelli dell’attrezzato ospedale di Parigi dove il presidente palestinese e premio Nobel per la Pace (nel 1994) venne ricoverato nell’estremo tentativo di salvargli la vita.

In queste ore centinaia di persone, anche straniere, stanno visitando il mausoleo di Arafat alla Muqata di Ramallah dove presto aprirà un museo dedicato alla memoria di «Abu Ammar», il nome di battaglia con cui era conosciuto in vita l’uomo che portò stabilmente la questione palestinese nell’agenda della politica e della diplomazia internazionale.

A Gaza invece non è in svolgimento alcuna cerimonia pubblica. Hamas, pur rendendo onore ad Arafat, ha vietato la manifestazione indetta oggi da Fatah (il movimento politico fondato da leader scomparso) per «ragioni di sicurezza».

A sei anni dalla morte, un sondaggio rivela che l’81% dei palestinesi rimpiange Arafat, non solo in Cisgiordania dove Fatah raccoglie i maggiori consensi ma anche a Gaza. Un dato parallelo alle forti perplessità che i palestinesi manifestano verso la leadership di Abu Mazen che si avvia a completare il suo secondo anno alla presidenza dell’Anp oltre il suo mandato scaduto nel gennaio 2009.

Arafat in vita commise non pochi errori - a cominciare dalla firma di accordi di pace ad interim con Israele (quelli di Oslo nel 1993) che si sono poi rivelati del tutto fallimentari per le aspirazioni palestinesi - e non fece passi concreti per combattere la corruzione dilagante nel suo entourage e nell’Autorità nazionale palestinese.

Tuttavia i palestinesi gli riconoscono il merito di essere morto «difendendo i diritti del suo popolo» e di «non essersi arreso» alle condizioni che Israele dettava con i suoi carri armati che, dal 2001 al 2004, prima attaccarono, poi distrussero in buona parte e infine circondarono stabilmente la Muqata. Un dato di fatto che oggi non negano anche i dirigenti più anziani di Hamas, per anni rivali accesi di Arafat.

Molti sono gli interrogativi che circondano la morte di «Abu Ammar». I palestinesi sono convinti che ad ucciderlo lentamente sia stata qualche sostanza chimica preparata dai servizi segreti israeliani, su ordine dell’allora premier Ariel Sharon,e fatta ingerire ad Arafat con la collaborazione di «spie» infiltrate nel suo ufficio.

La prova a conferma di questo sospetto non si è mai trovata ma i medici che ebbero in cura il leader palestinese continuano a ripetere di non aver potuto individuare la patologia che fece precipitare in modo irreversibile e letale il numero di globuli rossi e piastrine nel sangue di Arafat.

Bassam Abu Sharif, un consigliere del leader scomparso, sostiene che Arafat fu avvelenato da Israele e che l’ex presidente francese Jacques Chirac sarebbe a conoscenza di tutti i dettagli. Arafat, spiega Abu Sharif, fu ucciso con un sistema analogo a quello utilizzato da Israele contro il dirigente del Fronte popolare Wadia Haddad, nella Germania Est nel 1978, che morì nel corso di un mese dopo aver ricevuto una tavoletta di cioccolata «biologicamente infetta». Nel sangue di Arafat, come in quello di Haddad, cessò all’improvviso la produzione di globuli rossi e piastrine.

Secondo Abu Sharif, Chirac e tre medici francesi che curarono Arafat durante la sua agonia in un ospedale di Parigi conoscono il tipo di veleno che provocò la morte di Arafat, ma mantengono il segreto in quello che ritengono essere «l’interesse della popolazione palestinese».

L’ombra di un ruolo d’Israele dietro la fine di Yasser Arafat viene avvalorata anche da Nasser Qidwa, ex ambasciatore dell’Olp alle Nazioni Unite e nipote del leader scomparso. «Israele è responsabile della morte di Arafat, noi restiamo convinti che egli sia stato avvelenato», afferma  Qidwa.

Ma non manca chi vede un coinvolgimento di esponenti palestinesi di primo piano nella morte di Arafat. Un anno fa l’Anp ordinò la chiusura temporanea dell’ufficio in Cisgiordania della televisione araba al Jazeera , accusando l’emittente di raccogliere «provocazioni» e diffondere «menzogne».

A suscitare la collera dei vertici palestinesi fu la diffusione da parte di al Jazeera di dichiarazioni di Faruq Kaddumi - storico alto dirigente di Fatah e dell’Olp da sempre contrario agli accordi di Oslo - in cui questi imputò ad Abu Mazen di aver provocato la morte di Arafat complottando con uomini del suo entourage e con Israele per avvelenarlo e, quindi, eliminarlo, dalla scena politica.

Lo scorso gennaio peraltro si rialzarono i toni della polemica fra palestinesi e governo tunisino perché non fu consentito ad emissari dell’Anp di fotocopiare gli archivi di Arafat. Si tratta di foto, lettere con partiti e movimenti politici stranieri, verbali di riunioni e anche documenti finanziari contenuti nella palazzina del quartiere di Mutueville a Tunisi che fu abitazione e ufficio di Arafat per oltre dieci anni dall’esilio dal Libano nel 1982 alla partenza per la Cisgiordania dopo gli accordi di Oslo.

Tra i tanti misteri c’è anche quello del ruolo avuto dalla moglie di Arafat, Suha Tawill, scomparsa totalmente dalla scena (assieme alla figlia Zahwa) e che secondo l’opinione di molti palestinesi sarebbe a conoscenza di elementi importanti legati alla morte di «Abu Ammar». Più di tutto, custodirebbe il segreto di alcuni investimenti finanziari effettuati  dall’Olp per ordine di Arafat e mai recuperati dopo la sua morte.

 

di Barbara Antonelli

Gerusalemme. La nuova ricerca di Whoprofit.org: il coinvolgimento diretto delle banche israeliane nelle attività di colonizzazione della Cisgiordania e del Golan. Sono le banche israeliane a fornire il supporto finanziario a tutte le attività che perpetuano l’occupazione illegale dei territori palestinesi e del Golan. Senza tale supporto, l’espansione delle colonie non sarebbe possibile. Se è vero infatti che la colonizzazione israeliana ha dietro di sé motivazioni di ordine politico ed ideologico, è anche vero che tale sistema comporta implicazioni economiche estremamente importanti, in base a cui le banche e gli istituti finanziari israeliani risultano essere i primi attori a trarne benefici economici.

Nelle 46 pagine del dettagliato rapporto presentato in questi giorni da Whoprofit.org, un progetto di ricerca della Coalition of Women for peace, un’organizzazione pacifista femminista israeliana, vengono analizzate le diverse forme di coinvolgimento delle banche israeliane nel sistema di occupazione, laddove tale coinvolgimento possa essere esplicitamente e chiaramente documentato. La ricerca si basa su documenti pubblici, alla portata di tutti, sia ufficiali che governativi, sia estratti dai report informativi che le stesse banche pubblicano annualmente. Prima della sua pubblicazione, i ricercatori di Whoprofit hanno fatto recapitare il documento a tutte le banche interessate e coinvolte: nessuna risposta ufficiale, tranne quella della Bank Discount.

Ma come avviene in concreto il supporto finanziario delle banche all’occupazione? In primo luogo, le banche forniscono due tipi di mutui agevolati: il primo riguarda i singoli individui, che desiderano acquistare unità abitative nelle colonie illegali della Cisgiordania. Il governo israeliano infatti prevede incentivi economici per quelle che vengono definite Aree Prioritarie e cioè le zone periferiche di Israele come il Golan e gli insediamenti sul territorio palestinese. Sei banche elargiscono mutui agevolati a futuri coloni: nel caso gli acquirenti non riescano a ripagare il mutuo, la banca diventa a tutti gli effetti proprietaria dell’immobile.

Lo stesso avviene per i mutui garantiti alle imprese di costruzione che operano nelle colonie. La maggior parte dei progetti edilizi in Cisgiordania non vedrebbe la fine senza il supporto finanziario delle banche: questo tipo di prestiti viene regolamentato secondo “accordi di accompagnamento” (Heskemay Livuy). Accordi che garantiscono cioè che la banca sia direttamente e interamente responsabile del progetto edilizio: la banca infatti è proprietaria del progetto e degli immobili, fino a quando tutte le unità abitative non vengano vendute. E’ la banca che fissa i prezzi degli appartamenti e detta legge sui tempi di costruzione; una vera e propria partnership tra la banca e l’impresa edile, in cui è la prima a trarne i maggiori benefici: anche in questo caso se l’impresa dichiara bancarotta, la banca diventa l’unica proprietaria di terreni e immobili.

Non è stato facile ottenere le informazioni relative a questo tipo di relazioni bancarie: quando Whoprofit, in base al Freedom Act, ha chiesto al Ministero delle Costruzioni, i nomi delle banche che forniscono tali programmi di “accompagnamento”, il Ministero ha risposto di non esserne al corrente. I ricercatori hanno dovuto pertanto ottenere le informazioni direttamente dalla industrie edili. Un esempio del coinvolgimento di tali banche risulta dal rapporto annuale del gruppo Hadar, il maggiore responsabile dei progetti residenziali all’interno di Ma’aleh Adumin. Tra i progetti più recenti c’è quello tra la B. Yair Building Corporation e la Bank Discount per la costruzione di 55 appartamenti a Har Homa (tra Gerusalemme e Bethlemme).

Quasi tutte le banche poi forniscono servizi finanziari alle autorità e ai municipi locali degli insediamenti illegali, sia nel Golan che in Cisgiordania, elargendo prestiti utilizzati per sviluppare nuove infrastrutture, costruire edifici pubblici come pure per la gestione della fornitura di servizi che il municipio mette a disposizione dei coloni.  Per esempio la Banca Hapoalim ha fornito nel 2010 prestiti al consiglio municipale di Giv’at Ze’ev e a quello di Megilot nel 2009.

Vi sono inoltre 34 filiali operative nelle colonie illegali: la maggior parte delle banche israeliane ha aperto nel corso degli anni diverse filiali all’interno degli insediamenti israeliani, filiali che forniscono ogni tipo di servizio finanziario ai coloni e alle imprese commerciali che vi hanno sede. Come per esempio l’apertura di prestiti e conti bancari alle imprese che sono presenti nelle aree industriali, vedi l’area Barkan o la Top Greenhouses, una compagnia che produce serre, nella zona di Ariel, che ha ricevuto prestiti negli ultimi 10 anni dalle banche Discount, Leumi, Hapoalim e Mizrahi Tefahot. O il consorzio CityPass, quello che sta realizzando il contestato progetto della rete tranviaria a Gerusalemme, che riceve finanziamenti sia da Leumi che Hapoalim.

Due istituti finanziari beneficiano infine dell’accesso al mercato monetario palestinese; in seguito alle regolamentazioni previste dagli Accordi di Oslo, e sottoscritte sia da parte palestinese che israeliana, il mercato palestinese non utilizza una propria valuta. Ne deriva che le banche palestinesi sono dipendenti da altri istituti bancari per accedere ai mercati finanziari. Nonostante nei mercati palestinesi siano attualmente in uso 4 valute (oltre allo shekel israeliano, l’euro, il dollaro americano e il dinaro giordano), è in realtà lo shekel  a dominare i mercati, dal momento che il sistema di occupazione ha creato una stretta dipendenza (sottomissione) finanziaria del mercato palestinese a quello israeliano.

Questa interdipendenza fa si che le politiche monetarie decise dalla Banca di Israele si applichino in modo assolutamente non democratico nella Palestina occupata, generando un sistema distorto. Qualche dato che dimostra il disequilibrio commerciale tra Israele e Palestina: su 20 miliardi di shekel di trasferimenti annuali, l’80% (16 miliardi) sono trasferiti da Israele al mercato palestinese e solo il 20% riguarda il contrario.

Anche nei rapporti con banche non-israeliane, le banche palestinesi devono appoggiarsi (dal momento che trattano lo shekel) agli istituti israeliani, che funzionano per il trasferimento fondi. In questo caso, secondo fonti palestinesi, le banche israeliane chiedono dei tassi di interesse altissimi e garanzie in cambio dei servizi offerti. Inoltre le commissioni applicate alla fornitura di tali servizi sarebbero enormi e imporrebbero limitazioni (in termini di quantità) sul trasferimento di denaro.

Le banche israeliane hanno inoltre rapporti commerciali solo con alcune banche palestinesi: negli accordi attuali ad esempio non sono incluse le banche costituitesi recentemente nei Territori, la cui operatività risulta ampiamente ridotta, dal momento che non possono trasferire denaro alle banche  israeliane e devono appoggiarsi ad altri istituti palestinesi.

Il risultato è che il mercato monetario palestinese non potrà mai crescere e svilupparsi autonomamente. Senza considerare Gaza: alla fine del 2008, Israele ha interrotto qualsiasi relazione con le banche di Gaza, cessando la fornitura di tutti i servizi, causando il totale collasso del mercato finanziario della Striscia.

Le banche israeliane non solo forniscono il supporto finanziario alla costruzione delle colonie ma anche alla sostenibilità e al mantenimento dell’intero sistema che vi ruota attorno. Nessuna delle attività portata avanti da individui, organizzazioni, governo e compagnie commerciali in Israele, potrebbe andare avanti senza il supporto attivo delle banche, che sono pertanto gli attori principali del ritorno economico delle attività di colonizzazione della Cisgiordania e del Golan.

da Nena news

(foto da Life)

 


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