- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Nunzio Corona
Gerusalemme, 11 gennaio 2011, Nena News - Qual’é la vera posizione delle istituzioni europee nei confronti delle politiche israeliane, che continuano ad essere oggetto di condanna della comunità internazionale? A giudicare dall’entità degli scambi commerciali e degli aiuti offerti all’Autorità Palestinese, l’Unione Europea sembrerebbe svolgere un ruolo di assoluta importanza nel sostegno alla creazione di un futuro stato palestinese. Almeno dal punto di vista economico.
Tuttavia, analizzandone con più attenzione l’operato, viene da chiedersi quale sia effettivamente la sua posizione nei confronti delle politiche israeliane oggetto di condanna della comunità internazionale. Il libro di David Cronin Europe’s Alliance with Israel: Aiding the Occupation (PlutoPress, 2011), offre una scrupolosa documentazione di come le varie istituzioni (Parlamento Europeo, Consiglio Europeo, Consiglio dei Ministri e Commissione Europea) e i singoli stati dell’UE siano maestri nel “predicare bene ma razzolare male”.
Lo Stato di Israele pretende legittimità e rispetto nel consesso internazionale amando definirsi l’unico bastione della democrazia nel Medio Oriente. Tuttavia, oltre ad avere piu’ volte violato l’art. 2.4 della Carta delle Nazioni Unite che proibisce “la minaccia o l’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”, é in flagrante violazione di oltre 30 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. In tali risoluzioni il Consiglio di Sicurezza chiede una chiara azione di risposta da parte di Israele, come, per limitarci a quelle di maggiore attualità, nel caso della 446 del 1979 che esige la cessazione della costruzione di insediamenti colonici ebraici nel territorio occupato, compresa Gerusalemme, e la rimozione di quelli già costruiti.
O come nel caso della risoluzione 252 del 1968, poi seguita dalle 267/69, 298/71, 476/80, e 478/80 che chiedono a Israele di annullare l’annessione di Gerusalemme Est. O come per la 487/81 che chiede a Israele di aprire i suoi impianti nucleari all’ispezione dell’Autorità Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA). E’ importante notare che queste risoluzioni pongono veri e propri obblighi allo Stato di Israele, e Israele soltanto. Ciò significa che dipende soltanto dalla volontà di Israele rispettarle o no, senza dovere negoziare alcunchè con i palestinesi o con gli Stati confinanti. Insomma Israele non ha bisogno di aprire trattative con nessuno per interrompere la costruzione di colonie o per cancellare l’annessione di Gerusalemme Est o per aprirsi alle ispezioni dell’IAEA
Di fronte ad un partner del genere, ci si aspetterebbe che una potenza economica come l’UE che si presenta come “onesto mediatore” nel conflitto israelo-palestinese, attore neutrale e sostenitore dei diritti fondamentali del popolo palestinese, avesse qualcosa da dire e soprattutto si comportasse di conseguenza per fare rispettare tali diritti. Invece, l’osservatore attento non può non rimanere confuso di fronte a comportamenti che oscillano tra l’incoerenza e la cattiva fede.
Come giudicare altrimenti l’aspetto straordinario delle relazioni tra EU e Israele per cui l’UE è ben felice di sottoscrivere accordi con Israele nonostante quest’ultimo sia in palese violazione degli obblighi contenuti negli stessi accordi? Il 28 novembre 1995 l’UE consentiva a Israele di diventare membro della cosiddetta Partnership Euro-Mediterranea comprendente gli Stati che si affacciano sul Mediterraneo. In quel periodo le truppe israeliane, in violazione del diritto internazionale, occupavano parte del Libano e della Siria, oltre ai territori palestinesi di Cisgiordania e Gaza. La Dichiarazione di Barcellona, che sancisce la Partnership, obbliga i suoi firmatari a “rispettare l’integrità territoriale e l’unità di ciascuno degli altri partner” e una serie di altre norme del diritto internazionale.
E’evidente come l’EU abbia chiuso, e continui a chiudere, entrambi gli occhi consentendo ad Israele di diventare partner privilegiato anche con accordi susseguenti che obbligano gli Stati contraenti, compreso Israele, a rispettare i principi della legislazione internazionale. L’Euro-Med Agreement, che rientra nella suddetta Partnership, consente a Israele un accesso privilegiato al mercato europeo. Nel suo art. 2 l, Agreement richiede che “il rispetto per i diritti umani e i principi democratici” sia considerato un “elemento essenziale” (e non opzionale, ne’ semplicemente desiderabile) dell’accordo. Eppure esistono pochi dubbi che Israele continui imperterrito a disattendere questi obblighi. La stessa EU ha definito come “punizione collettiva “, e quindi crimine di guerra secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, il blocco economico imposto alla Striscia di Gaza da almeno il 2007. In tutta risposta il 16 giugno 2008 i 27 Paesi dell’UE decidevano di potenziare (“upgrade”) le relazioni con Israele.
L’elemento più importante che probabilmente spiega l’attrazione fatale che Israele esercita sui partner europei é la cooperazione scientifica. Israele, che investe nella ricerca tecnologica circa il 5% del PIL, il doppio degli Stati Uniti, fa parte fin dagli anni 90 del Programma Quadro per la Ricerca Scientifica dell’UE ed e’coinvolto in più di 800 progetti per un valore, tra 2007 e 2013, di 4,3 miliardi di €. Purtroppo buona parte dei successi scientifici di Israele sono collegati all’occupazione militare. La ditta Elbit Systems di Haifa, costruttore dei droni usati a Gaza, e le Industrie Aeronautiche Israeliane, tanto per fare un esempio, sono tra i beneficiari dei fondi per la ricerca UE. Come dire che le nostre tasse di contribuenti europei vanno a finanziare l’industria bellica israeliana e a consolidare l’occupazione del territorio palestinese.
Analogo effetto di sostegno all’occupazione si può dire abbia la politica commerciale dell’UE. Secondo un recente accordo, quasi tutti i prodotti alimentari israeliani, sia freschi che conservati, possono entrare nell’UE senza pagare dazi doganali. In teoria queste facilitazioni riguarderebbero soltanto i prodotti provenienti dall’interno dei confini internazionalmente riconosciuti di Israele e non dalle colonie israeliane nel territorio occupato. Tutti ormai sanno però che Agrexco, il maggiore esportatore israeliano di prodotti alimentari, etichetta come “Made in Israel” i prodotti provenienti sia da Israele sia dalle colonie. Chiudere gli occhi di fronte a tale situazione significa per l’UE essere complice dell’espansione degli insediamenti colonici, soltanto a parole condannati nelle dichiarazioni ufficiali.
L’aspetto che più colpisce del comportamento delle istituzioni che compongono l’UE é il livello di tolleranza e l’uso di due pesi e due misure. Ad esempio, soltanto cinque Stati europei si sono schierati a favore dell’Assemblea Generale dell’ONU nell’accettazione del Rapporto Goldstone sui crimini di guerra commessi da Israele nell’attacco a Gaza alla fine del 2008. Gli altri 22 Stati UE si sono astenuti o opposti (come ha fatto l’Italia). Tale atteggiamento contrasta fortemente con la rigidissima posizione che l’UE aveva assunto sul conflitto tra Georgia e Russia nell’estate del 2008, sul trattamento dei civili da parte del governo dello Sri lanka durante l’offensiva contro i ribelli Tamil nella primavera 2009, o sugli attacchi contro gli albanesi in Kosovo.
Come detto, in termini quantitativi l’UE è senz’altro il partner più amico dei palestinesi. Tra gli “aiuti al popolo palestinese” troviamo il Coordinating Office for Palestinian Police Support (COPPS) che nel 2011 riceverà dall’UE 8 milioni di €. I corpi di polizia che vengono formati in questo progetto devono tuttavia limitarsi ad arrestare i compatrioti palestinesi e non i coloni israeliani che compiono violenze contro di loro. In pratica é come se la polizia palestinese facesse il favore a Israele di tenere sotto controllo la propria popolazione occupata, compiendo abusi e torture che, nonostante la denuncia delle organizzazioni per i diritti umani, passano inosservati agli occhi dell’UE.
Che dire dell’ipocrisia che trapela dai maldestri tentativi di dare un’impressione di imparzialità praticando invece un chiaro favoritismo verso l’aggressore, unanimemente condannato soltanto a parole? Come valutare, da una parte, le dichiarazioni di ferma condanna per la continua colonizzazione ebraica di Gerusalemme Est rilasciate dalla responsabile della politica estera europea, Catherine Ahton, e, dall’altra, la sua raccomandazione che Israele sia designato come “partner privilegiato” dell’UE, al pari di USA e Cina, o al tranquillo benestare concesso all’entrata di Israele nell’OCSE nel maggio 2010?
Se i nostri politici e rappresentanti nei consessi internazionali oltre alle dichiarazioni di condanna non intraprendono alcuna azione pratica, sta allora alla gente comune adottare misure non violente, previste dal diritto internazionale, come il BDS, per convincere chi viola le regole a tornare sui propri passi, così come era avvenuto con successo per il Sudafrica dell’apartheid.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Nena news
Ramallah. Migliaia di palestinesi rendono omaggio oggi a Yasser Arafat, morto l’11 novembre 2004 a causa di una misteriosa malattia del sangue mai identificata dai medici, non solo quelli palestinesi ed arabi che lo ebbero in cura ma anche quelli dell’attrezzato ospedale di Parigi dove il presidente palestinese e premio Nobel per la Pace (nel 1994) venne ricoverato nell’estremo tentativo di salvargli la vita.
In queste ore centinaia di persone, anche straniere, stanno visitando il mausoleo di Arafat alla Muqata di Ramallah dove presto aprirà un museo dedicato alla memoria di «Abu Ammar», il nome di battaglia con cui era conosciuto in vita l’uomo che portò stabilmente la questione palestinese nell’agenda della politica e della diplomazia internazionale.
A Gaza invece non è in svolgimento alcuna cerimonia pubblica. Hamas, pur rendendo onore ad Arafat, ha vietato la manifestazione indetta oggi da Fatah (il movimento politico fondato da leader scomparso) per «ragioni di sicurezza».
A sei anni dalla morte, un sondaggio rivela che l’81% dei palestinesi rimpiange Arafat, non solo in Cisgiordania dove Fatah raccoglie i maggiori consensi ma anche a Gaza. Un dato parallelo alle forti perplessità che i palestinesi manifestano verso la leadership di Abu Mazen che si avvia a completare il suo secondo anno alla presidenza dell’Anp oltre il suo mandato scaduto nel gennaio 2009.
Arafat in vita commise non pochi errori - a cominciare dalla firma di accordi di pace ad interim con Israele (quelli di Oslo nel 1993) che si sono poi rivelati del tutto fallimentari per le aspirazioni palestinesi - e non fece passi concreti per combattere la corruzione dilagante nel suo entourage e nell’Autorità nazionale palestinese.
Tuttavia i palestinesi gli riconoscono il merito di essere morto «difendendo i diritti del suo popolo» e di «non essersi arreso» alle condizioni che Israele dettava con i suoi carri armati che, dal 2001 al 2004, prima attaccarono, poi distrussero in buona parte e infine circondarono stabilmente la Muqata. Un dato di fatto che oggi non negano anche i dirigenti più anziani di Hamas, per anni rivali accesi di Arafat.
Molti sono gli interrogativi che circondano la morte di «Abu Ammar». I palestinesi sono convinti che ad ucciderlo lentamente sia stata qualche sostanza chimica preparata dai servizi segreti israeliani, su ordine dell’allora premier Ariel Sharon,e fatta ingerire ad Arafat con la collaborazione di «spie» infiltrate nel suo ufficio.
La prova a conferma di questo sospetto non si è mai trovata ma i medici che ebbero in cura il leader palestinese continuano a ripetere di non aver potuto individuare la patologia che fece precipitare in modo irreversibile e letale il numero di globuli rossi e piastrine nel sangue di Arafat.
Bassam Abu Sharif, un consigliere del leader scomparso, sostiene che Arafat fu avvelenato da Israele e che l’ex presidente francese Jacques Chirac sarebbe a conoscenza di tutti i dettagli. Arafat, spiega Abu Sharif, fu ucciso con un sistema analogo a quello utilizzato da Israele contro il dirigente del Fronte popolare Wadia Haddad, nella Germania Est nel 1978, che morì nel corso di un mese dopo aver ricevuto una tavoletta di cioccolata «biologicamente infetta». Nel sangue di Arafat, come in quello di Haddad, cessò all’improvviso la produzione di globuli rossi e piastrine.
Secondo Abu Sharif, Chirac e tre medici francesi che curarono Arafat durante la sua agonia in un ospedale di Parigi conoscono il tipo di veleno che provocò la morte di Arafat, ma mantengono il segreto in quello che ritengono essere «l’interesse della popolazione palestinese».
L’ombra di un ruolo d’Israele dietro la fine di Yasser Arafat viene avvalorata anche da Nasser Qidwa, ex ambasciatore dell’Olp alle Nazioni Unite e nipote del leader scomparso. «Israele è responsabile della morte di Arafat, noi restiamo convinti che egli sia stato avvelenato», afferma Qidwa.
Ma non manca chi vede un coinvolgimento di esponenti palestinesi di primo piano nella morte di Arafat. Un anno fa l’Anp ordinò la chiusura temporanea dell’ufficio in Cisgiordania della televisione araba al Jazeera , accusando l’emittente di raccogliere «provocazioni» e diffondere «menzogne».
A suscitare la collera dei vertici palestinesi fu la diffusione da parte di al Jazeera di dichiarazioni di Faruq Kaddumi - storico alto dirigente di Fatah e dell’Olp da sempre contrario agli accordi di Oslo - in cui questi imputò ad Abu Mazen di aver provocato la morte di Arafat complottando con uomini del suo entourage e con Israele per avvelenarlo e, quindi, eliminarlo, dalla scena politica.
Lo scorso gennaio peraltro si rialzarono i toni della polemica fra palestinesi e governo tunisino perché non fu consentito ad emissari dell’Anp di fotocopiare gli archivi di Arafat. Si tratta di foto, lettere con partiti e movimenti politici stranieri, verbali di riunioni e anche documenti finanziari contenuti nella palazzina del quartiere di Mutueville a Tunisi che fu abitazione e ufficio di Arafat per oltre dieci anni dall’esilio dal Libano nel 1982 alla partenza per la Cisgiordania dopo gli accordi di Oslo.
Tra i tanti misteri c’è anche quello del ruolo avuto dalla moglie di Arafat, Suha Tawill, scomparsa totalmente dalla scena (assieme alla figlia Zahwa) e che secondo l’opinione di molti palestinesi sarebbe a conoscenza di elementi importanti legati alla morte di «Abu Ammar». Più di tutto, custodirebbe il segreto di alcuni investimenti finanziari effettuati dall’Olp per ordine di Arafat e mai recuperati dopo la sua morte.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Barbara Antonelli
Gerusalemme. La nuova ricerca di Whoprofit.org: il coinvolgimento diretto delle banche israeliane nelle attività di colonizzazione della Cisgiordania e del Golan. Sono le banche israeliane a fornire il supporto finanziario a tutte le attività che perpetuano l’occupazione illegale dei territori palestinesi e del Golan. Senza tale supporto, l’espansione delle colonie non sarebbe possibile. Se è vero infatti che la colonizzazione israeliana ha dietro di sé motivazioni di ordine politico ed ideologico, è anche vero che tale sistema comporta implicazioni economiche estremamente importanti, in base a cui le banche e gli istituti finanziari israeliani risultano essere i primi attori a trarne benefici economici.
Nelle 46 pagine del dettagliato rapporto presentato in questi giorni da Whoprofit.org, un progetto di ricerca della Coalition of Women for peace, un’organizzazione pacifista femminista israeliana, vengono analizzate le diverse forme di coinvolgimento delle banche israeliane nel sistema di occupazione, laddove tale coinvolgimento possa essere esplicitamente e chiaramente documentato. La ricerca si basa su documenti pubblici, alla portata di tutti, sia ufficiali che governativi, sia estratti dai report informativi che le stesse banche pubblicano annualmente. Prima della sua pubblicazione, i ricercatori di Whoprofit hanno fatto recapitare il documento a tutte le banche interessate e coinvolte: nessuna risposta ufficiale, tranne quella della Bank Discount.
Ma come avviene in concreto il supporto finanziario delle banche all’occupazione? In primo luogo, le banche forniscono due tipi di mutui agevolati: il primo riguarda i singoli individui, che desiderano acquistare unità abitative nelle colonie illegali della Cisgiordania. Il governo israeliano infatti prevede incentivi economici per quelle che vengono definite Aree Prioritarie e cioè le zone periferiche di Israele come il Golan e gli insediamenti sul territorio palestinese. Sei banche elargiscono mutui agevolati a futuri coloni: nel caso gli acquirenti non riescano a ripagare il mutuo, la banca diventa a tutti gli effetti proprietaria dell’immobile.
Lo stesso avviene per i mutui garantiti alle imprese di costruzione che operano nelle colonie. La maggior parte dei progetti edilizi in Cisgiordania non vedrebbe la fine senza il supporto finanziario delle banche: questo tipo di prestiti viene regolamentato secondo “accordi di accompagnamento” (Heskemay Livuy). Accordi che garantiscono cioè che la banca sia direttamente e interamente responsabile del progetto edilizio: la banca infatti è proprietaria del progetto e degli immobili, fino a quando tutte le unità abitative non vengano vendute. E’ la banca che fissa i prezzi degli appartamenti e detta legge sui tempi di costruzione; una vera e propria partnership tra la banca e l’impresa edile, in cui è la prima a trarne i maggiori benefici: anche in questo caso se l’impresa dichiara bancarotta, la banca diventa l’unica proprietaria di terreni e immobili.
Non è stato facile ottenere le informazioni relative a questo tipo di relazioni bancarie: quando Whoprofit, in base al Freedom Act, ha chiesto al Ministero delle Costruzioni, i nomi delle banche che forniscono tali programmi di “accompagnamento”, il Ministero ha risposto di non esserne al corrente. I ricercatori hanno dovuto pertanto ottenere le informazioni direttamente dalla industrie edili. Un esempio del coinvolgimento di tali banche risulta dal rapporto annuale del gruppo Hadar, il maggiore responsabile dei progetti residenziali all’interno di Ma’aleh Adumin. Tra i progetti più recenti c’è quello tra la B. Yair Building Corporation e la Bank Discount per la costruzione di 55 appartamenti a Har Homa (tra Gerusalemme e Bethlemme).
Quasi tutte le banche poi forniscono servizi finanziari alle autorità e ai municipi locali degli insediamenti illegali, sia nel Golan che in Cisgiordania, elargendo prestiti utilizzati per sviluppare nuove infrastrutture, costruire edifici pubblici come pure per la gestione della fornitura di servizi che il municipio mette a disposizione dei coloni. Per esempio la Banca Hapoalim ha fornito nel 2010 prestiti al consiglio municipale di Giv’at Ze’ev e a quello di Megilot nel 2009.
Vi sono inoltre 34 filiali operative nelle colonie illegali: la maggior parte delle banche israeliane ha aperto nel corso degli anni diverse filiali all’interno degli insediamenti israeliani, filiali che forniscono ogni tipo di servizio finanziario ai coloni e alle imprese commerciali che vi hanno sede. Come per esempio l’apertura di prestiti e conti bancari alle imprese che sono presenti nelle aree industriali, vedi l’area Barkan o la Top Greenhouses, una compagnia che produce serre, nella zona di Ariel, che ha ricevuto prestiti negli ultimi 10 anni dalle banche Discount, Leumi, Hapoalim e Mizrahi Tefahot. O il consorzio CityPass, quello che sta realizzando il contestato progetto della rete tranviaria a Gerusalemme, che riceve finanziamenti sia da Leumi che Hapoalim.
Due istituti finanziari beneficiano infine dell’accesso al mercato monetario palestinese; in seguito alle regolamentazioni previste dagli Accordi di Oslo, e sottoscritte sia da parte palestinese che israeliana, il mercato palestinese non utilizza una propria valuta. Ne deriva che le banche palestinesi sono dipendenti da altri istituti bancari per accedere ai mercati finanziari. Nonostante nei mercati palestinesi siano attualmente in uso 4 valute (oltre allo shekel israeliano, l’euro, il dollaro americano e il dinaro giordano), è in realtà lo shekel a dominare i mercati, dal momento che il sistema di occupazione ha creato una stretta dipendenza (sottomissione) finanziaria del mercato palestinese a quello israeliano.
Questa interdipendenza fa si che le politiche monetarie decise dalla Banca di Israele si applichino in modo assolutamente non democratico nella Palestina occupata, generando un sistema distorto. Qualche dato che dimostra il disequilibrio commerciale tra Israele e Palestina: su 20 miliardi di shekel di trasferimenti annuali, l’80% (16 miliardi) sono trasferiti da Israele al mercato palestinese e solo il 20% riguarda il contrario.
Anche nei rapporti con banche non-israeliane, le banche palestinesi devono appoggiarsi (dal momento che trattano lo shekel) agli istituti israeliani, che funzionano per il trasferimento fondi. In questo caso, secondo fonti palestinesi, le banche israeliane chiedono dei tassi di interesse altissimi e garanzie in cambio dei servizi offerti. Inoltre le commissioni applicate alla fornitura di tali servizi sarebbero enormi e imporrebbero limitazioni (in termini di quantità) sul trasferimento di denaro.
Le banche israeliane hanno inoltre rapporti commerciali solo con alcune banche palestinesi: negli accordi attuali ad esempio non sono incluse le banche costituitesi recentemente nei Territori, la cui operatività risulta ampiamente ridotta, dal momento che non possono trasferire denaro alle banche israeliane e devono appoggiarsi ad altri istituti palestinesi.
Il risultato è che il mercato monetario palestinese non potrà mai crescere e svilupparsi autonomamente. Senza considerare Gaza: alla fine del 2008, Israele ha interrotto qualsiasi relazione con le banche di Gaza, cessando la fornitura di tutti i servizi, causando il totale collasso del mercato finanziario della Striscia.
Le banche israeliane non solo forniscono il supporto finanziario alla costruzione delle colonie ma anche alla sostenibilità e al mantenimento dell’intero sistema che vi ruota attorno. Nessuna delle attività portata avanti da individui, organizzazioni, governo e compagnie commerciali in Israele, potrebbe andare avanti senza il supporto attivo delle banche, che sono pertanto gli attori principali del ritorno economico delle attività di colonizzazione della Cisgiordania e del Golan.
da Nena news
(foto da Life)
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Cubadebate
Il Tea Party si presenta come un movimento rivoluzionario, spontaneo e diversificato, un'ondata di fervore cittadino contro Washington. Le sue finanze, però, danno un’immagine molto più ambigua degli interessi corporativi e politici molto più tradizionali. Il Tea Party non è un partito; é un movimento la cui incertezza strutturale ha permesso a molti di penetrare le crepe. Nella nebbiosa piattaforma ultra-conservatrice sono emersi nuove piattaforme ideologiche che hanno raccolto considerevoli somme di denaro a favore dei candidati e finanziato discorsi di commentatori ed esperti nel creare opinione.
Dietro gli annunci, le manifestazioni, i raduni, si sono andati consolidando gruppi altamente organizzati. C’è il Tea Party Express, un'organizzazione con sede a Sacramento (California) creata da Sal Russo, ex consigliere di Ronald Reagan; poi Freedom Works a Washington, guidata da Dick Armey, ex rappresentante del Texas, uno dei leader rivoluzione conservatrice degli anni '90. Quindi American Crossroads, dell'ex stratega di Bush, Karl Rove; il Club for Growth, un'associazione di imprese per la deregulation fiscale e, soprattutto, la più discreta e ancora più potente American for Prosperity Foundation, dei fratelli miliardari David e Charles Koch, che sostengono l'abolizione di quasi tutti i governi.
I Koch sono l'esempio più estremo. A capo di un conglomerato industriale del valore di 35 miliardi di dollari (superano le fortune di Bill Gates e Warren Buffet) le loro attività di ultras non erano realmente conosciute, fino alla pubblicazione di un profilo nella rivista The New Yorker dello scorso agosto. Fino ad allora, ai newyorkesi il nome Koch suonava solo per il loro lavoro filantropico e per i cento milioni di dollari donati al Theatre di New York.
Frank Rich, editorialista del New York Times, ha collegato Koch con "uomini d'affari che finanziano l'estrema destra da quando i fratelli Du Pont (il gigante della chimica) sostennero l'American Liberty League nel 1934 per rovesciare Roosevelt." Le associazioni ultraconservatrici non si sono raggruppate sotto la definizione giuridica del Political Action Commitee (comitato di azione politica), usata dai candidati elettorali per incanalare denaro, ma sotto la molto meno restrittiva legge 501 (c) (4), come se si trattasse di un’organizzazione no-profit che permette di raccogliere quantità illimitate di denaro e che non ha l'obbligo di rivelare l'identità dei collaboratori. Essi non possono coordinarsi con le campagne ufficiali né sostenere diretto ai candidati, ma possono discutere di argomenti che li interessano.
Frank Miller, candidato sostenuto da Sarah Palin, ha battuto nella primarie repubblicane in agosto, l’attuale senatrice dell'Alaska, Lisa Murkowksi, grazie in parte ai 550.000 dollari forniti dal Tea Party Express in pubblicità elettorale. Lo stesso è stato fatto nel mese di settembre, quando si sono spesi 200.000 dollari in sostegno alla controversa Christine O'Donnell, in una corsa che ormai sembrava persa per il seggio al Senato in Delaware.
Hanno investito ancora di più, quasi un milione di dollari, secondo il Center for Responsive Politics, nella difesa Sharron Angle, la candidata conservatrice che minaccia di strappare il seggio del Nevada al senatore democratico Harry Reid. In totale, il Tea Party Express hanno raccolto oltre cinque milioni di dollari dal gennaio 2009.
Inoltre hanno noleggiato un bus che ha lasciato Reno (Nevada) lunedi scorso; attraverseranno il Paese, organizzando manifestazioni in distretti selezionati con cura e alla fine, il giorno prima delle elezioni, si fermeranno nel New Hampshire, dall'altra parte degli Stati Uniti. Sarà un viaggio per criticare le politiche di Barack Obama e cercare di canalizzare nelle urne l'ira dei loro sostenitori.
La Manna del denaro conservatore è stata facilitata dalla decisione della Corte suprema, che all'inizio di quest'anno ha dato alle società gli stessi diritti degli individui a contribuire alle campagne elettorali. In realtà, Freedom Works riconosce che il 15 e il 20% del capitale proviene da grandi imprese.
E quest'anno sono stati abbattuti tutti i record. Il Washington Post ha riferito che in questa elezione, gruppi correlati ma al di fuori dei due grandi partiti, per lo più conservatori, hanno speso 80 milioni di dollari in campagne dei loro candidati rispetto ai 16 milioni spesi nel 2006. Non è da sottovalutare l’entusiasmo dei cittadini. Sharron Angolo, la candidata del Tea Party per il Nevada, è riuscita a raccogliere 14 milioni di dollari negli ultimi tre mesi grazie a piccoli contributi di meno di cento dollari ognuno.
Alcuni nel Tea Party non sono felici per il massiccio afflusso di fondi conservatori. "Stanno facendo quello che molti temevano facessero: utilizzare il movimento per raccogliere fondi per i propri interessi privati", ha dichiarato recentemente Mark Merckle, co-fondatore dei Tea Party Patriots, un’organizzazione più "genuina" all’interno della corrente ultra-conservatrice. "Quando vedranno che non siamo più un tema caldo, passeranno a qualcosa d'altro. Questa è modo tradizionale di raccogliere il denaro da parte dei politici, il tipo di cose contro cui protestare”.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Barbara Antonelli -Nena news
Si è aggiudicato 18 seggi su 40, il più grande partito di opposizione sciita, Al Wefak, al primo turno delle elezioni legislative che si sono svolte sabato in Barhein: questo quanto dichiarato dalla commissione elettorale domenica, mentre nove seggi rimangono disponibili per il secondo turno, previsto per il 30 ottobre.
Il 67% è la percentuale dell’affluenza alle elezioni, le terze da quando si è costituito l’attuale parlamento. Il Barhein è uno dei pochi Stati Arabi a maggioranza sciita (circa il 70% della popolazione), una maggioranza che però non ha alcun potere reale e anzi è soggetta alle discriminazioni attuate dal potere nelle mani di famiglie e dinastie sunnite. La maggioranza sciita, infatti, da anni lamenta le discriminazioni in termini di accesso al mondo lavorativo, alla compravendita e locazione d’immobili e ai posti d’influenza nelle forze di sicurezza.
Il voto di sabato, che segue mesi di tensioni tra le autorità e l’opposizione, è stato caratterizzato da numerose irregolarità. Il portavoce di Al Wefak, lo sceicco Ali Salman ha rilevato che almeno 890 votanti sarebbero stati mandati via dalle cabine elettorali (soprattutto in aree sciite) perché i loro nomi “erano scomparsi” dalle liste elettorali. Numeri che sembrano irrilevanti ma che sono cruciali in un paese in cui gli aventi diritto al voto sono circa 319.000.
Secondo i leader sciiti, che hanno più volte posto l’accento su come il governo adotti politiche che consentono a sunniti provenienti da tutta la regione di ottenere facilmente la cittadinanza, in modo da aumentare demograficamente la presenza sunnita, i brogli elettorali sarebbero stati una manovra delle autorità governative per indebolire la presenza sciita. Al-Wafaq ha denunciato la scomparsa in un solo seggio di 400 nomi di elettori registrati.
Le autorità del Barhein non hanno consentito il monitoraggio di osservatori internazionali e le denunce riguardanti i brogli sono state avanzate dai 292 osservatori delle ONG locali che hanno presenziato i seggi. Enormi misure di sicurezza sono state adottate dal governo che ha dispiegato elicotteri per la sorveglianza aerea e pattugliamenti della polizia, soprattutto nei distretti considerati a rischio violenza. Secondo quanto riportato dalla stampa non ci sono state particolari manifestazioni di violenza ma alcuni attivisti della comunità sciita hanno protestato contro le irregolarità elettorali, dando alle fiamme pneumatici e altri oggetti.
La campagna elettorale è stata caratterizzata da un’ondata di arresti e intimidazioni nel corso dei mesi passati da parte delle autorità, a danno dell’opposizione sciita: 23 attivisti sciiti sono stati arrestai e accusati di complotto contro il governo. Secondo quanto denunciato dall’organizzazione in difesa dei diritti umani, Amnesty International, oltre 250 attivisti sciiti sono stati arrestati nei giorni pre elezioni.
Con i risultati di domenica Al Wafak rafforza la propria presenza all’interno del Parlamento “Basso” (o Camera Minore) che, lo ricordiamo, ha il potere di esaminare e approvare i decreti legislativi proposti dal re o dal gabinetto, ma che ha comunque poteri limitati dato che è la Camera Alta o consiglio legislativo (i cui membri sono nominati direttamente dal re) ad avere il potere ultimo sull’iter legislativo.
Secondo gli analisti politici, il risultato elettorale di sabato potrebbe modificare la stabilità a lungo termine del Barhein, un partner strategico degli Stati Uniti, che ospita la Quinta Flotta americana e che gioca un ruolo centrale negli sforzi dell’amministrazione di Washington di controllare l’espansione militare dell’Iran nel Golfo. L’opinione di Christopher Davidson, professore dell’Università di Durham (Regno Unito) ed esperto della regione è che il risultato elettorale non muterà l’enorme divario che permane tra ceti poveri, sciiti e ceti ricchi, cioè le famiglie sunnite che detengono il potere.
Malgrado il Parlamento abbia poteri limitati e possa essere rovesciato in qualsiasi momento dal re Hamad bin Isa Al-Khalifa e il suo circolo dinastico, l’aver guadagnato un maggior numero di seggi rappresenta per gli sciiti almeno la speranza di non vedere ulteriormente ignorate le proprie richieste.
Nena news
(foto www.gulfnews.com)