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di Barbara Antonelli
Gerusalemme. Ridiscutere, ritornare al tavolo dei negoziati diretti, trattare. Anche rispolverare l’oramai defunto Quartetto per il Medio Oriente. Gli Stati Uniti sono pronti ad appoggiare qualsiasi opzione che non preveda la nascita di uno stato palestinese, che non metta con le spalle al muro Washington, tanto da dover ricorrere al veto per fermare in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la richiesta di piena adesione da parte palestinese.
Ieri si delineava l’iniziativa palestinese all’ONU, chiarita nell’incontro avuto tra il presidente dell’Anp (e dell’Olp) Abu Mazen e il segretario delle Nazioni Unite Ban ki-Moon (procedere con richiesta di piena adesione al Consiglio di Sicurezza e solo in seguito valutare altre opzioni, come quella “vaticana” ovvero uno status di osservatore all’ONU come lo stato vaticano che l’Assemblea Generale può garantire, dal momento che passerebbe con l’appoggio di almeno 126 sui 193 stati che compongono l’ONU); mentre i vertici di Washington valutavano tutte le strategie disponibili per evitare di arrivare a dover imporre il veto, già annunciato dal presidente Obama.
“Ma gli stati si fanno al Consiglio di Sicurezza, non all’Assemblea Generale”, ha affermato in un’intervista alla radio militare, il segretario del gabinetto di Netanyahu, Zvi Hauser. E questo lo sa anche il presidente Abbas che lunedì, appena sbarcato a New York ha fatto appello a Israele perché riconosca lo stato palestinese e non “perda un’opportunità di pace”; la manovra del presidente ha trovato conferma nelle parole del negoziatore palestinese Nabil Shaat, secondo cui “Abbas tenterà politicamente la strada del Consiglio di Sicurezza e solo dopo vaglierà altre opzioni.”
Per questo la Casa Bianca gioca in queste ore sul filo della diplomazia, ovvero convincere gli indecisi a dire no (per ora i contrari sono USA, Germania e Colombia; sicuramente favorevoli Cina, Russia, Libano, Sudafrica, Brasile, India e Nigeria; incerti, Francia, Gran Bretagna, Gabon, Bosnia-Erzegovina e Portogallo, quest’ultimo più propenso per il si): se i palestinesi non otterranno 9 voti di assenso, gli USA non saranno costretti a ricorrere al veto. Che significherebbe confermare apertamente che la Casa Bianca è contraria alla nascita di uno stato palestinese.
Per evitare di “ritrovarsi in un angolo spinti dalla stupidità di Israele”, parole uscite di bocca alla stessa leader dell’opposizione israeliana (Kadima) Tzipi Livni, Washington ha anche riesumato il Quartetto per il Medio Oriente (USA, Russia, ONU e Unione Europea); è riapparso il portavoce Tony Blair per cui “la sola cosa che possa creare uno stato e la negoziazione diretta tra le due parti” ed è stata ridiscussa, in un incontro tra il Segretario di Stato USA Hillary Clinton e il Ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, un’opzione già emersa nei mesi passati, una bozza vaga che vedrebbe il ritorno a negoziati diretti tra Anp e Israele, in cambio di un avanzamento dello status dell’Anp e del riconoscimento da parte palestinese di Israele come stato ebraico: opzione che Abu Mazen non potrebbe mai di intraprendere perché accantonerebbe per sempre il diritto al ritorno dei profughi e metterebbe in discussione anche il pieno godimento dei diritti dei palestinesi che vivono in Israele (il 20% dell’intera popolazione).
Se da una parte il presidente Obama ha i senatori con il fiato sul collo (è di ieri l’appello al presidente perché rinnovi mercoledì, durante il suo discorso all’ONU, il pieno sostegno a Israele per non lasciarlo “solo di fronte alle minacce di Turchia e dei palestinesi”); dall’altra sa che il voto all’ONU rappresenta per ciascun paese una piena assunzione di responsabilità nei confronti dei legittimi diritti del popolo palestinese. Ha fatto il giro della stampa internazionale - e non è un caso che sia stata ripresa anche dai media israeliani - l’intervista di lunedì al Wall Street Journal del re giordano Abdullah II, attualmente a New York, amico degli Stati Uniti eppure pronto a dichiarare che il veto americano non solo “isolerebbe ancora di più Israele” e anche l’amministrazione USA, ma che porterebbero il paese a distanziarsi ancora di più dalle questioni che interessano la regione, alla luce del congelamento delle relazioni tra Israele e Turchia e delle tensioni con l’Egitto.
Israele da parte sua continua ad invocare l’arma del negoziato: ancora una volta questa mattina in un’intervista alla radio dell’esercito, l’ambasciatore all’ONU, Ron Prosor, ha affermato che “Israele è pronto a negoziare con i palestinesi domani stesso”, paventando un incontro tra il premier Netanyahu e Abbas.
Sul campo, i coloni si stanno mobilitando per organizzare proteste contro l’iniziativa all’ONU; temono che l’esercito israeliano faccia troppo affidamento sulle forze di sicurezza palestinesi per arginare eventuali manifestazioni (palestinesi) in Cisgiordania; da questo pomeriggio si sono detti pronti a manifestare, organizzando marce sui territori palestinesi - secondo quanto dichiarato dal Consiglio dei coloni - in tre direzioni: dall’insediamento di Itamar, nei pressi della città palestinese di Nablus, dalle colonie di Beit El e da Kiryat Arba (vicino Hebron). I consigli regionali dei coloni hanno già distribuito ai “settler” decine di migliaia di bandiere israeliane da portare in marcia e appendere sulle automobili.
Si teme inoltre un’escalation di violenza e atti vandalici da parte dei coloni a danno di comunità e proprietà palestinesi. Negli ultimi 10 giorni si sono infatti intensificati gli attacchi a moschee, automobili, proprietà e terre agricole palestinesi: il prezzo da pagare (price-tag strategy) per l’iniziativa all’ONU. Un trend in aumento, dato che la nota diffusa oggi dal gabinetto del Primo Ministro palestinese, parla di 40 attacchi solo nel mese di settembre. Questa mattina i coloni hanno dato alle fiamme diversi dunam di terra agricola appartenenti al villaggio palestinese di Ainabous, vicino Nablus, in aggiunta agli oltre 500 alberi (in gran parte ulivi) bruciati ieri nel governatorato di Salfit (a Deir Istiya).
Per monitorare e registrare con l’uso di videocamere il prevedibile aumento di attacchi da parte dei coloni, attivisti palestinesi e internazionali dei comitati popolari per la resistenza nonviolenta, hanno lanciato una campagna: “gruppi di volontari - ha spiegato a Maan News l’attivista israeliano Jonathan Pollak - saranno a disposizione, pronti ad intervenire dove ce ne sarà bisogno”.
Si teme anche un collasso della situazione economica in Cisgiordania: ne ha parlato il governatore per l’autorità monetaria palestinese Jihad al -Wazir sempre a Maan News, temendo che gli Stati Uniti possano interrompere di colpo “il versamento dei 500 milioni di dollari nelle casse dell’Anp”. Una questione che preoccupa anche il 64% dei palestinesi intervistati dal Centro palestinese per la ricerca politica (Pcpsr). Nel sondaggio, che ha interessato un campione di 1200 persone tra Cisgiordania e Gaza, l’85% degli intervistati è a favore dell’iniziativa all’ONU; il 78% teme però teme la risposta immediata di Israele sul terreno, ovvero il congelamento dei dazi doganali versati all’Anp e altre misure straordinarie quali l’aumento dei blocchi stradali e le chiusure dei checkpoint.
Fonte Nena News
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di Massimo Mucchetti
L'Economist dedica la copertina alla ricerca del lavoro che non c'è in tutto l'Occidente. Nei 34 Paesi dell'Ocse, i più avanzati del mondo, i disoccupati sono 44 milioni, più o meno gli abitanti della Spagna. Ma per calcolare quanti posti mancano davvero andrebbero considerati anche i lavoratori part-time che vogliono il tempo pieno (un posto ogni due tempi parziali), i dipendenti sottoposti a sospensioni lunghe dall'attività (un posto ogni 1.800 ore di integrazione salariale) e infine gli scoraggiati (coloro i quali non hanno più cercato lavoro negli ultimi tempi). I posti che mancano nell'area Ocse diventerebbero così 100 milioni.
Il diavolo che minaccia l'Occidente è dunque peggiore di quello dipinto dal settimanale britannico. E tuttavia, al di là dei numeri, colpisce l'enfasi dell'antica testata liberale sulla questione del lavoro mentre i governi europei e la Bce combattono il deficit dei bilanci pubblici senza troppo curarsi degli effetti collaterali che deprimono l'economia, e dunque l'occupazione. Certo, da tempo la Banca d'Italia invoca politiche per la crescita basate su riforme a costo zero come quella, peraltro inderogabile, della giustizia civile e quella, tutta da approfondire, del mercato del lavoro. Ma oggi tra la durezza della crisi e il riformismo in stile anni Novanta emerge la stessa distanza che separa i fatti dalle parole: vanno male anche i maestri di quella stagione.
E allora torniamo a chiederci se ci possa essere una ripresa duratura senza invertire la ridistribuzione sempre più ineguale della ricchezza, quando sappiamo che il disastro è cominciato dall'insolvenza dei poveri fatti indebitare per farli consumare senza aumentare loro le paghe. E poi crediamo davvero che l'Italia possa basarsi soltanto sull'estero quando le imprese esportatrici, peraltro ottime, importano sempre più componenti? E l'Eurozona potrà mai riprendersi se i suoi 450 milioni di cittadini non torneranno a spendere?
Forse non è un caso se George Magnus, l'economista principe di Ubs che aveva capito la crisi dei mutui «subprime » prima della Casa Bianca, ora scrive su Bloomberg: «Date a Marx una chance di salvare l'economia mondiale». La sua è una provocazione. Ma resta il fatto che il balzo della produttività è avvenuto attraverso il taglio dei costi, il trasferimento delle produzioni nei Paesi emergenti, gli arbitraggi fiscali e regolatori tra legislazioni e non solo attraverso il progresso tecnologico. Un processo che ha congelato i salari reali e aumentato la disoccupazione a tutto vantaggio dei profitti. Un'impresa riceverà applausi, se batte questa strada. Un Paese pure, se avrà l'accortezza di non costringere poi i clienti alla recessione, come invece sta facendo la Germania in Europa. Ma se lo fanno tutti? Se lo fanno tutti, ironizza Magnus, si entra nel paradosso marxiano della sovrapproduzione: il sistema ha fatto investimenti per sfornare una quantità di merci superiore alla sua capacità di consumo. E qualcuno deve pagare il conto.
Se non vogliono resuscitare il rivoluzionario di Treviri o, più probabilmente, esporre a tumulti nordafricani democrazie che ai giovani derubati della speranza sembreranno inutili, i governi dovrebbero porre in cima all'agenda il lavoro, non il deficit dei conti pubblici. E il lavoro si crea attivando la domanda interna. Anche a costo di un po' di inflazione.
Sul Financial Times, sir Samuel Brittan critica i flirt marxisteggianti. Ma non censura i rischi della stagnazione salariale né gli auspici d'inflazione. Del resto, la Bank of England e la Federal Reserve continuano a stampare moneta, sia pur virtuale. E pur avendo conti peggiori dell'Eurozona, i debiti pubblici di Regno Unito e Usa galleggiano. La Bce non lo fa perché non ha alle spalle un governo che glielo chieda. E l'euro trema.
In queste condizioni, l'Italia non può lasciar correre il deficit né disimpegnarsi sulla riduzione del debito. Ma rischia anche la recessione se non riesce a riorientare il risparmio privato dai deludenti impieghi finanziari verso gli investimenti nell'economia reale attraverso la leva della politica industriale (che non vuol dire un'altra Finsider ma, per esempio, no ai contributi esagerati per le fonti rinnovabili e sì al risparmio energetico). E la domanda interna non parte se, in attesa di poter alzare i salari, non si usa con coraggio la leva fiscale. È possibile, a parità di gettito, trasferire almeno in parte l'Irap alle retribuzioni e al tempo stesso aumentare l'Irpef? Far pagare la sanità a tutti i cittadini secondo aliquote progressive anziché alle imprese e ai dipendenti sarebbe anche un atto di giustizia. E se si vuole fare un po' di inflazione, a sollievo del debito pubblico, l'Italia dovrebbe convincere l'Eurozona ad aumentare l'Iva, così da spostare un po' di peso anche sulle importazioni, avendo cura di salvaguardare i redditi bassi con ritocchi dell'Irpef. Insomma, possiamo rialzarci. Ma ci vorrebbe un governo. Capace di politica interna e di politica estera.
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di Nena News
Cairo, 10 settembre 2011. Questa notte è stata la bandiera egiziana a sventolare al posto di quella israeliana sull’edificio che nella capitale del paese dei faraoni ospita la sede diplomatica dello Stato ebraico. La seconda volta da quando un giovane imbianchino di Sharkia, Ahmed Shehaat, scalò qualche settimana fa l’alto edificio issandovi la bandiera egiziana. Un gesto che è il simbolo dell’escalation di tensione che la notte scorsa ha raggiunto il suo apice per le violente proteste di fronte l’ambasciata israeliana del Cairo di migliaia di manifestanti ancora infuriati per l’uccisione, avvenuta il 18 agosto, di cinque guardie di frontiera egiziane da parte dell’esercito israeliano.
L’assalto che ha causato alcuni un morto e centinaia di feriti (altri due morti si sono avuti durante altri incidenti), è l’ultimo di una serie di segnali di insofferenza degli egiziani nei confronti della politica israeliana. Sono a forte rischio le relazioni diplomatiche tra i due paesi e in Israele rimpiangono il dittatore Hosni Mubarak, alleato di ferro dello Stato ebraico, costretto sette mesi fa a farsi da parte sull’onda della rivoluzione del 25 gennaio.
La tensione la scorsa notte è degenerata in scontri violenti quando un gruppo di manifestanti si è introdotto nel palazzo dell’ambasciata, però non nella sede diplomatica ma in un appartamento limitrofo al 18.mo piano dove si trovava l’archivio dell’ambasciatore. A riferirlo sono state, fonti egiziane ed israeliane. I manifestanti, una trentina, non avrebbero lanciato dalle finestre documenti ufficiali ma brochure e questionari tenuti di solito all’ingresso della sede diplomatica. I mezzi d’informazione egiziani riferiscono anche di documenti dati alle fiamme in strada, così come alcune auto diplomatiche parcheggiate nella zona.
Il resoconto riferito dai media israeliani parlano di sei funzionari addetti alla sicurezza dell’ambasciata rimasti intrappolati, mentre decine di dimostranti tentavano di entrare nell’appartamento, e che sono stati salvati da una unità speciale egiziana. I sei, più l’ambasciatore, la sua famiglia e altri componenti dello staff dell’ambasciata sono poi stati portati all’aeroporto dalla sicurezza egiziana ed imbarcati su di un volo speciale che li ha riportati in Israele.
Fuori dal palazzo in quelle stesse ore, veniva in buona parte demolito un muro di protezione costruito recentemente dal governo egiziano, azione che aveva già suscitato polemiche, acuite dalle recenti tensioni tra Turchia e Israele e dalla decisione del premier turco, Recep Yayyeb Erdogan, di espellere l’ambasciatore israeliano e di tagliare le relazioni militari e diplomatiche per le mancate scuse del primo ministro Netanyahu per i civili turchi uccisi un anno fa da un commando israeliano sulla nave Mavi Marmara.
Il premier Netanyahu la scorsa notte ha invocato l’aiuto degli Stati Uniti, e il presidente Obama ha esortato l’Egitto a “onorare i suoi obblighi internazionali”, garantendo la sicurezza della sede diplomatica.
Si tratta del terzo venerdì di protesta contro Israele in seguito all’uccisione, lo scorso 18 agosto, di cinque guardie di frontiera egiziane, da parte dell’esercito israeliano come risposta all’attacco terroristico subito a Eilat: la più grande, quella del 26 agosto, la cosiddetta «manifestazione del milione», sebbene la cifra sperata non sia stata raggiunta. Se a livello diplomatico, Israele ha tentato di risolvere una possibile crisi con l’Egitto, paventando la possibilità di autorizzare l’ingresso nel Sinai (area smilitarizzata in base a quanto stabilito dagli accordi di pace tra i due paesi) di migliaia di sodati egiziani, a livello popolare la protesta dei giovani egiziani resta forte; oltre a chiedere immediate riforme rimaste sulla carta, contestando la giunta militare (ieri troneggiava lo slogan “egiziani venite fuori dalle case, Tantawi è come Mubarak”) molti gruppi di manifestanti, animatori delle proteste di pazza di febbraio chiedono appunto una revisione dell’accordo firmato a Camp David, con il quale il Sinai è stato restituito all’Egitto ma con una sovranità limitata da parte del Cairo
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di Giorgia Grifoni
Roma, 09 luglio 2011. Libertà, autodeterminazione, democrazia. Parole che sembrano difficili da trasformare in realtà durante 30 anni di guerra civile. Non siamo nell’ordinata Europa, quella della ricchezza perenne e dell’Unione salva-economie, dove i separatismi vengono scelti accuratamente e aggiustati alla meno peggio. Ci troviamo in Africa, terra di saccheggi e di spartizioni arbitrarie, dove il colonialismo ha sradicato e ridisegnato interi sistemi socio-economici con squadra e righello. I nuovi sistemi hanno portato centinaia di conflitti e distrutto un intero continente. Ma il Sud Sudan, invece, ce l’ha fatta. E per questa giovane nazione, grande due volte l’Italia, sono arrivate libertà, autodeterminazione e forse democrazia.
Attraversato dal Nilo Bianco, delimitato dal deserto a nord e dalla savana a sud, eccolo il 54esimo stato dell’Africa. Sul suo suolo vivono quasi 9 milioni di persone, divise in varie etnie di origine nilotica - cristiane e animiste - che il 9 gennaio scorso hanno scelto l’indipendenza dal nord arabo e musulmano tramite un referendum. Nel sottosuolo, un’infinità di tesori che vanno dall’oro al petrolio, dallo zinco al rame, ma che sono sempre stati a uso esclusivo del governo centrale contro cui il Sud ha lottato per tre decenni. Parte del petrolio si trova in quest’area, ma le raffinerie sono al nord, a Port Sudan: il Sud dovrà decidere se usufruire dell’oleodotto sudanese, con relativa spartizione dei proventi delle risorse, o se guardare piuttosto a est, e far transitare l’oro nero per il Kenya fino al terminal di Mombasa.
La maggior parte dei giacimenti di petrolio si trova però nella regione immediatamente a nord del nuovo Stato. Il Kordofan, l’ennesimo teatro di guerra del Sudan, è abitato prevalentemente da etnie di origine nilotica come il Sud Sudan, che dovevano decidere se unirsi o meno al nuovo Stato tramite un referendum. Che non si è mai tenuto. Dividono il territorio con popolazioni semi-nomadi di origine camitica e lingua araba, i Baqqara e i Kababish, fedeli al governo del nord.
Gli altipiani a est di questa regione sono il regno dei Nuba, popolo che ha appoggiato la lotta di liberazione trentennale condotta dal Sudanese People’s Liberation Movement (SPLM) ma che è rimasto sotto il controllo del Nord. Questa terra ricca e contesa è da più di sei mesi teatro di un bagno di sangue, con scontri tra il SPLM e le forze governative, per un bilancio di oltre duemila vittime e di più di 73 mila sfollati. Particolarmente colpiti sono i villaggi dei Nuba, con ordini di arresto, esecuzioni e bombardamenti mirati, tanto che il Sudan Democracy First Group - coalizione di attivisti, sindacalisti, cittadini e professori universitari - denuncia il genocidio del popolo Nuba.
Il 28 giugno scorso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato l’invio di 4200 Caschi Blu etiopi nel distretto di Abyei, nel Kordofan meridionale, per la durata di sei mesi. Qualche giorno dopo ad Addis Abeba i governi del nord e del sud hanno formalizzato l’accordo per la smilitarizzazione di quest’area contesa, in attesa di definire i confini tra i due stati. Khartum, però, non vuole i Caschi Blu dopo il 9 luglio: si annuncia un nuovo bagno di sangue.
A nord ovest del nuovo Stato c’è il Darfur. Ricca di petrolio e popolata in prevalenza da etnie nilotiche, come il sud e il Kordofan, questa regione è teatro dal 2003 di una sanguinosa guerra tra tribù sedentarie autoctone e nomadi di origine araba per il controllo delle risorse che essa offre. Siccità e desertificazione favoriscono il perpetrarsi degli scontri e il governo di Khartum aizza le divisioni armando le milizie Janjawid - “Demoni a cavallo” - che devastano, stuprano, uccidono la popolazione. Tutto questo contro eventuali pretese separatiste della maggioranza della popolazione nera del Darfur.
Il mercato di Juba
Sono molte le questioni irrisolte che il governo di Juba, capitale provvisoria del Sud Sudan, dovrà affrontare con il suo vicino settentrionale a partire da oggi. A cominciare dalla spartizione del debito pubblico - uno dei più alti del mondo - con il governo del nord, alla gestione delle risorse e alla delimitazione dei confini, senza dimenticare i rapporti diplomatici con Khartum. Il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, si è detto disponibile a relazioni pacifiche con il Nord, promettendo pieni diritti per i cittadini settentrionali nel nuovo stato, se non addirittura la cittadinanza.
Si profila invece buio il destino dei sud sudanesi al nord, che perderanno la cittadinanza, il lavoro e i diritti. Il presidente sudanese Omar al-Bashir, nonostante sia presente alle celebrazioni per l’Independence Day a Juba e abbia dichiarato la volontà di intrattenere buoni rapporti con il vicino meridionale, non è noto come faro di democrazia e di diritti umani.
Nasce un paese tutto da costruire. Infrastrutture, strade, ospedali, economia: tutto manca al Sud Sudan. E anche se un nugolo di paesi stranieri - in primo luogo la Cina vicina a Omar al-Bashir e gli Emirati Arabi Uniti -ha promesso investimenti e aiuti, la mano del neocolonialismo si è già avventata sul nuovo Stato.
Secondo un rapporto di Norwegian People’s Aid presentato lo scorso marzo, il 9% della terra del Sud Sudan è stata comprata da compagnie straniere per il settore agricolo e dei biocarburanti. I capi tribù l’hanno venduta a prezzi irrisori quando ancora non c’era uno stato centrale che vigilasse in questo senso. Solo l’1% della terra del Sud Sudan viene attualmente coltivata: quasi tutti i prodotti vengono importati.
Decine di sfide si profilano all’orizzonte di Juba: sembrano impossibili da realizzare, ma profumano di speranza. Perché per la prima volta in Africa il righello del colonialismo è stato spezzato dall’autodeterminazione della sua gente.
fonte: Nena News
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di Gianni Cipriani
Alcuni giorni orsono, dopo lo scoop de Le Figaro, la Francia ha ufficialmente ammesso di aver fornito armi leggere ai ribelli anti-Gheddafi, paracadutando i rifornimenti nella cosiddetta area delle montagne occidentali, a circa 50 chilometri a sud di Tripoli. E così, mentre la guerra libica continua stancamente tra raid della Nato, inconcludenti sotto il profilo militare, ma purtroppo con un prezzo di vittime civili (delle quali si parla sempre meno) e azioni di terra paragonabili a semplici scaramucce tra bande rivali, lo strano conflitto Bengasi-Tripoli è tornato al centro dell’attenzione mediatica.
Che non sia un semplice scontro democrazia-tirannide lo si è capito da un pezzo, tant’è che la vera divisione è all’interno del fronte Nato, dove Italia, Francia e Regno Unito giocano senza esclusione di colpi la battaglia per ottenere il maggior vantaggio nel dopo-Gheddafi, mentre gli Stati Uniti si sono da tempo sfilati e non mancano di far trapelare, attraverso le vie diplomatiche, quelle del coordinamento di intelligence e quelle più proriamente militari, il loro disappunto per come stanno andando le cose.
Orbene, la vicenda delle forniture di armi ai ribelli rientra a pieno titolo negli sgambetti che il governo francese, quello italiano e quello britannico si stanno facendo da quando è cominciata la rivolta contro Gheddafi. Perché la prima nazione a fornire segretamente di armi gli insorti della Cirenaica è stata proprio l’Italia.
Infatti, dopo l’iniziale imbarazzo di Berlusconi nel dover abbandonare Gheddafi, l’Italia ha compreso che un eccessivo attendismo l’avrebbe sfavorita e ha cercato di recuperare mettendosi a disposizione del Consiglio Nazionale Transitorio di Bengasi. E come l’ha fatto? Inviando un carico di armi “travestito” da aiuti umanitari. Nella prima settimana di marzo casse e casse di pistole, fucili, mitra e relativo munizionamento sono state fatte arrivare in Cirenaica via mare, trasportate da unità della Marina Militare. Per essere più precisi si trattava di armi leggere prelevate dai depositi della Sardegna, in particolare La Maddalena e Tavolara, per il semplice motivo che quelle armi ufficialmente non sono “mai esistite” e quindi potevano tranquillamente prendere il largo.
Una parte dell’armamento inviato era di prima qualità. Altre armi, donate a suo tempo dagli americani all’ex Sismi, erano assai più antiquate, ma comunque adeguate per armare bande d’insorti irregolari. Si trattava, per intenderci, delle armi custodite da quelle strutture della nostra intelligence che, più o meno, facevano riferimento al vecchio dispositivo di Gladio. C’è da aggiungere che, una volta arrivate sul suolo libico, nessuno ha più saputo che fine abbiano fatto quelle armi. Come hanno confermato numerose fonti dei ribelli. Che siano servite a combattere non è esattamente l’ipotesi considerata più attendibile. Ma questo era ed è un po’ nell’ordine delle cose.
Quello che è significatico è il retroscena politico. Perché nei giorni in cui il governo italiano faceva arrivare clandestinamente le armi ai bengasiani, il poco prudente ministro degli Esteri, Frattini, rilasciava una dichiarazione ammiccante e poco diplomatica. “L’Italia - aveva detto - ha avviato discretamente contatti con esponenti dell’opposizione libica e ritiene che farlo in questo modo sia la soluzione migliore. C’è quasi una corsa all’incontro con il Consiglio provvisorio di Bengasi. I nostri amici inglesi ci hanno provato e il Consiglio ha detto che si rifiuta di incontrarli”.
“Noi - aveva ancora aggiunto il titolare della Farnesina - abbiamo delle conoscenze migliori di altri, siamo spesso richiesti in queste ore conoscendo coloro che sono lì. Conosciamo certo l’ex ministro della Giustizia libico ora a capo del consiglio di Bengasi, per i rapporti dell’Italia con la Libia. Conosciamo quella rete di ambasciatori libici che ha detto che da ora loro sono al servizio del popolo libico e non più del regime. Alcuni di loro stanno esercitando un’azione importante per coagulare un consenso”.
A nessuno può sfuggire il fatto che se si avviano colloqui “con discrezione”, l’ultima cosa da fare sia raccontarlo ad Uno Mattina. Ma c’era un motivo: proprio nelle ore in cui Frattini rilasciava questa dichiarazione le armi italiane stavano per finire in mano agli insorti di Bengasi. Gli stessi che un paio di giorni prima avevano arrestato un team dei servizi segreti inglesi in missione segreta. In altri termini, l’Italia bruciando tutti con l’invio delle casse “umanitarie” piene di mitra e fucili, pensava di poter mantenere la supremazia.
Tanto più che riteneva di poter contare sulla mediazione dell’ambasciatore libico in Italia, Abdulhafed Gaddur,che a fine febbraio si era schierato a fianco degli insorti e, si ipotizzava, avrebbe utilizzato la sua grande influenza a favore dell’Italia. Questa premessa spiega la successiva accelerazione francese e la decisione di bombardare per primi il 19 marzo, giorno d’inizio dei raid aerei, solo successivamente passati sotto il comando della Nato. Da allora - e fino ad oggi - si sono combattuti due conflitti. Quello tra la Cirenaica e la Tripolitania e quello tra Francia, Italia, Regno Uniti e altri paesi legati alla Nato. La fornitura di armi dai depositi della Sardegna è parte integrante di questa guerra sotterranea.
fonte: globalist.ch