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di Eleonora Vio
Non si può dire che le elezioni parlamentari del 2 di marzo siano l’evento più atteso nell’instabile panorama geo-politico iraniano. Nonostante ciò, la prossima chiamata al voto per spartire i 290 posti del Majlis (Parlamento) ai 3.440 candidati in lizza svela un interessante slittamento di potere in seno allo statico sistema partitico iraniano.
Lontani sono i tempi in cui iraniani dalle diverse appartenenze sociali e politiche si riunivano sotto un’unica bandiera inneggiante libertà e democrazia dopo le presidenziali truccate del luglio 2009. L’Iran avanguardista sembra essersi assopito - in parte per la lunga serie di maltrattamenti, restrizioni, coercizioni ai quali è stato sottoposto in questi tre anni e in parte per la mancanza di un leader rappresentativo - e, sia la fazione riformista di Khatami, seppur con qualche disertore, sia i sostenitori di Mousavi e Karroubi, i due volti pubblici del ‘Movimento Verde’ trattenuti agli arresti domiciliari da un anno ormai, hanno deciso di boicottare le prossime elezioni.
Se una vera opposizione non è presente, ciò non vuol dire che lo scenario politico restante sia omogeneo. Affatto. Le elezioni parlamentari del 2 marzo fungono da cartina di tornasole dello (s)bilanciamento interno di potere nella Repubblica Islamica Iraniana e preparano il terreno per le elezioni presidenziali che si terranno a luglio 2013.
La selezione dei candidati alle parlamentari è avvenuta il dicembre scorso secondo i discutibili criteri del ministro degli interni e la supervisione del potente Consiglio dei Guardiani. Eliminati gli elementi avversi al regime, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad è emerso come l’ultima scomoda pedina all’interno del composito scacchiere conservatore.
Come fonti iraniane riportate da Al-Akhbar affermano, “la frammentazione in seno al campo conservatore è dovuta alle chiare divisioni tra i sostenitori di Ahmadinejad e il gruppo cosiddetto dei “fondamentalisti” artefice della sua salita al potere”.
Se Ahmadinejad, “umile” uomo del popolo dai saldi valori tradizionali, aveva trovato l’appoggio incondizionato della Guida Suprema Khamenei nelle lontane presidenziali del 2005, il mutuo accordo tra i due ha subito una brusca svolta nell’aprile 2011. La base del disaccordo giace già in quel lontano 2005, quando Khamenei si era fatto ingannare dall’apparente mancanza di sostegno popolare ad Ahmadinejad e aveva deciso di accoglierlo sotto la sua ala protettiva. Per contro, il futuro presidente aveva strategicamente stretto a sé una corte di veterani e ideologi formatasi durante l’aspra guerra contro l’Iraq e, una volta ottenuto il potere grazie a Khamenei, aveva assegnato loro le poltrone migliori. Dalle elezioni del 2009, dove Khamenei si è trovato costretto a supportare Ahmadinejad per evitare di soccombere al potere riformista, il rapporto tra i due uomini dalle pari ambizioni è degenerato progressivamente.
Lo scorso aprile ecco la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Prima Ahmadinejad licenzia il capo dei servizi segreti Heydar Moslehi e Khamenei risponde rovesciando l’ordine impartito e ristabilendo il suo personale controllo su un ministero dalla fondamentale importanza. Quindi, Ahmadinejad licenzia tre dei suoi ministri ma il Consiglio dei Guardiani dall’assoluto potere costituzionale lo taccia di aver esercitato un potere che non gli spetta. Nei mesi seguenti si susseguono scandali di frode e accumulamento di denaro pubblico - mai peraltro verificati - ai danni di Ahmadinejad e compagni.
Il tentativo del presidente Ahmadinejad di rafforzare la propria autorità personale si scontra oggi sia con il suo elettorato, che nel 2005 e poi ancora nel 2009 aveva creduto alle promesse di rinascita economica ma è stato penalizzato dalle sanzioni economiche seguite all’azzardata politica estera di Ahmadinejad, sia con la Guida Suprema che, in un regime teocratico come quello iraniano, ha potere assoluto non solo su questioni di ordine religioso ma anche e soprattutto statale.
Dopo la dipartita dell’Ayatollah Yazdi dovuta ad incomprensioni interne con il presidente, alle prossime elezioni parlamentari la fazione politica fedele ad Ahmadinejad non avrà alcuna guida spirituale a tesserne le lodi. Per Ahmadinejad e i suoi non si mette bene e, secondo ciò che riporta Al-Akhbar, “se gli uomini del presidente dicono che si aspettano di ottenere non meno di 100 seggi in parlamento, l’opposizione è convinta che si possono ritenere fortunati, se ne vincono 20”.
Le restanti fazioni politiche in gioco costituiscono due simili alternative a una leadership di stampo islamico fondamentalista.
Il più largo consenso va al Fronte Unito per i Fondamentalisti, creato dal volere del capo dell’Assemblea degli Esperti, Ayatollah Kani, e da clerici influenti con il supporto della Guardia Rivoluzionaria e dei Basiji (gruppo paramilitare artefice delle violenze scoppiate nel 2009). Questo gruppo politico ha mire presidenziali e, per tale motivo, sta stringendo alleanze con fondamentalisti di altri fronti, conservatori tra cui Ahmadinejad e perfino alcuni riformatori.
Il fronte Sumoud (Fermezza) è il più integralista tra i due ed è critico nei confronti del Fronte Unito per i Fondamentalisti e delle sue relazioni con gruppi politici più moderati, ma in particolare con Ahmadinejad. Il Sumoud vanta la protezione della Guida Suprema - da qui deriva la sua graduale avversione nei confronti del presidente - e si avvale del supporto di una figura pubblica come il disertore Ayatollah Yazd.
Se Ahmadinejad stringesse alleanze sotto banco per ottenere più seggi alle prossime elezioni, o se la Guida Suprema convenisse che è “nell’interesse del paese” spargere tali voci tra i candidati, le fazioni fondamentaliste metterebbero in atto quello che hanno già espresso verbalmente: fare fronte comune contro “l’impostore”.
In Iran di rado le cose avvengono per volere di qualcuno che non sia la Guida Suprema e il Consiglio dei Guardiani. Qualora la situazione storico-politica - appesantita dalla minaccia militare congiunta d’Israele e Stati Uniti - lo richiedesse, le cariche supreme non impiegherebbero molto ad abbracciare una politica repressiva e ultra-conservatrice e a sostituire la Repubblica Islamica Iraniana con una temibile teocrazia. Con gravi ripercussioni sia a livello nazionale che globale.
Fonte: Nena News
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di Ika Dano
Beit Sahour (Cisgiordania), 16 febbraio 2012. Dopo il doppio veto di Cina e Russia, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha proposto la creazione di un forum delle forze d’opposizione siriane con cui dialogare, riunito sotto il nome “Amici della Siria”. Intanto il Consiglio Nazionale Siriano (SNC) - gruppo con sede ad Istanbul riconosciuto da diversi Paesi occidentali come maggiore forza d’opposizione - ha riconfermato Burhan Ghalioun come suo presidente.
La sinistra siriana fa capo al Comitato di Coordinazione Nazionale (NCC) di Haitham Al-Manna’e Hassan Abu El Atheem. Sul campo, è l’Esercito libero siriano - composto da disertori dell’esercito siriano - il gruppo meglio organizzato militarmente. Altre formazioni indipendenti, più o meno munite di armi, combattono contro il regime.
In questo contesto frammentato, è difficile parlare di una sola opposizione siriana a cui far riferimento. Del solo Consiglio Nazionale - secondo fonti siriane - fanno parte 230 rappresentanti - in esilio e in loco - dei Fratelli Mussulmani, di gruppi indipendenti, anche curdi e assiri e della Dichiarazione di Damasco, primo documento sottoscritto nel 2005 da prominenti figure della società civile, sia dello spettro islamista che liberale. Il Comitato di Coordinazione Nazionale raggruppa a sua volta diversi partiti della sinistra siriana, il Partito comunista dei lavoratori, il Partito dell’Unione socialista e quattro partiti curdi.
Questi i due maggiori fronti nella moltitudine di altre formazioni più piccole, distanti tra loro non solo per matrice ideologica ma anche a livello strategico: mentre il SNC e gran parte delle altre formazioni che incontreranno l’Alto rappresentante dell’Unione Europea Catherina Ashton il 24 febbraio prossimo a Tunisi, hanno come obiettivo la caduta del regime degli Assad, il comitato di Coordinazione preferisce la via del dialogo con il regime per iniziare un processo di riforme.
Già lo scorso ottobre, Hasan Abdul-Atheem aveva fatto sapere all’ambasciatore americano Robert Ford di essere categoricamente contro ogni intervento esterno e ogni rifornimento di armi che avrebbero potuto portare ad una guerra civile. Precondizioni per un dialogo con Assad sarebbero l’istituzione di una commissione d’inchiesta indipendente, la liberazione di tutti i detenuti politici, ritrarre la legge d’emergenza e riconscere il diritto alla manifestazione pacifica.
Tra gli oppositori al regime, i gruppi islamisti hanno un ruolo non marginale. I Fratelli Mussulmani - forza storicamente attiva in Siria - sono sempre stati fortementi repressi dal regime di Assad, e resi illegali dal padre di Bashar nel 1980. Ora, sono tra i più convinti propugnatori del crollo del regime. Aspirazioni religiose di gruppi che vedono la rivolta come una lotta la regime secolare sono state riportate da Paul Wood, giornalista dell’agenzia britannica BBC, in Siria sotto copertura: “Per la prima volta - riporta - possiamo proclamare la parola di Dio su questa terra”.
Intanto, l’Esercito libero siriano - con il suo quartiere generale in Turchia - cerca di consolidare il proprio controllo sul territorio, e non sempre utilizzando guanti di velluto. Il giornalista BBC riporta di esecuzioni sistematiche di soldati fedeli ad Assad (Shabiha), accuratamente riprese con videocamere. Shabia, prigionieri a cui viene tagliata la testa “in nome della libertà”.
Esecuzioni portate avanti da diversi gruppi, con diverso orientamento ideologico, organizzati in milizie autonome che ricevono supporto da membri che coordinano le operazioni da Giordania, Turchia, Emirati Arabi, Kuwait e Arabia Saudita, come riferisce l’agenzia Associated Press, a cui l’Esercito libero ha permesso una visita in una loro base alla frontiera siriana.
“Siamo un gruppo orfano con molte reclute ma carenza di armi, munizioni e fondi per finanziare le operazioni militari contro l’esercito militare di Assad”- dichiara all´AP il capo del gruppo armato, che si fa chiamare “Il Dottore”. L’armamento consisterebbe di armi automatiche e lanciarazzi comprati al mercato nero o rubate ai militari siriani. Secondo inchieste del quotidiano libanese Al Akhabr, cellule dell’Esercito Libero siriano stazionano anche in Libano, da dove forniscono supporto logistico e organizzano operazioni di guerrilla.
La proposta di Sarkozy di formare un forum di “Amici della Siria” per discutere le possibilità di fornire supporto - logistico e militare - all’opposizione siriana, è stata accolta dagli Stati Uniti e ripresa con determinazione dal capogruppo ALDE al parlamento europeo Guy Verhofstadt, che in una lettera all’Alto rappresentante Ashton ha richiesto un’azione congiunta con Turchia, USA e Paesi del Golfo per “preparare un’intervento umanitario e dare supporto tecnico e sostanziale agli oppositori del regime”. E mentre ci si prepara all’incontro di Tunisi del 24 febbraio, su internet spunta una pagina chiamata appunto “Amici della Siria” in supporto al regime di Assad.
Fonte: Nena News
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di Ika Dano
Roma, 09 febbraio 2012. Sabato scorso il ministro iraniano del petrolio Rostam Qassemi ha annunciato che l’Iran bloccherà l’esportazione di petrolio verso alcuni stati europei e procederà prossimamente anche con gli altri Stati favorevoli alle sanzioni. Più che danneggiare il settore di massima importanza per l’economia iraniana, le sanzioni potrebbero invece rafforzare l’export di Teheran verso l’Asia.
Al report dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) dello scorso novembre 2011 - un’esplicita denuncia della possibile dimensione militare del programma di arricchimento dell’uranio - erano seguite le ennesime sanzioni da parte di Stati Uniti ed Europa: embargo sull’export di petrochimici, greggio e gas naturale iraniani. All’annuncio di una possibile chiusura da parte di Teheran dello stretto di Hormuz, da dove transita un terzo del commercio internazionale di petrolio, gli Sati Uniti avevano inviato unità della marina. Teheran, però, non ha fatto marcia indietro sul programma, definito da un diplomatico citato dall’agenzia ufficiale IRNA “pacifico e conforme alla regolamentazione della AIEA” .
Ferma la reazione del governo americano e del consiglio d’Europa: embargo anche del settore finanziario e delle proprietà della Banca centrale iraniana negli Stati Uniti e nell’Unione Europea . E Il 23 gennaio è stato annunciato il blocco di nuovi contratti con compagnie petrochimiche iraniane a partire dal primo prossimo luglio.
Teheran non sembra però voler aspettare sino ad allora. “Il Parlamento iraniano ha passato un disegno di legge con cui la Repubblica Islamica s’impegna a bloccare l’esportazione di petrolio verso alcuni stati europei, fino a quando non ritireranno le sanzioni” ha dichiarato il vice-repsidente della commissione parlamentare per l’energia Nasser Soudani all’agenzia Fars News. Un altro articolo prevederebbe il blocco delle importazioni dai Paesi che hanno aderito alle sanzioni contro l’Iran.
“Metodi quali pressioni e sanzioni sono stati usati per anni, sempre inutilmente” viene riportato l’ambasciatore iraniano a Sofia Gholam-Reza Baqeri-Moqaddam in una recente intervista con IRNA. “L’EU si trova nel mezzo di una crisi economica e gli Stati Uniti - ha continuato - sono in bancarotta. In queste condizioni, perché l’Europa decide di perdere un mercato enorme come l’Iran? Ci sorprende molto che l’Unione Europea continui tanto ciecamente verso scelte così difficoltose”.
Il terzo esportatore di greggio e petrochimici al mondo - 80% del totale delle esportazioni con 2 523 millioni di barili al giorno secondo il Fondo monetario internazionale - rifornisce con il 18% del suo greggio l’Europa, sopratutto l’Italia (6.2%) e la Spagna (4.7%). Eppure non sembra spaventato dall’embargo che entrerà in vigore a luglio. E si orienta sempre di più verso il mercato asiatico, con cui spera di far fronte alla perdita degli importatori occidentali.
Secondo dati riportati dal Wall Street Journal, l’India è diventato il più importante cliente per il greggio iraniano, registrando a gennaio una crescita del 37.5% delle importazioni rispetto al mese precedente. Alla Cina va, con 250,000 barili al giorno, 20% delle esportazioni della Repubblica islamica, e anche Giappone, Turchia e Corea del Sud soddisfano parte importante dei loro bisogni energetici con il petrolio di Teheran.
Le tensioni intanto fanno salire il prezzo del greggio sul mercato internazionale, che ha raggiunto i 99.45 dollari a barile. L’Europa, dal canto suo, ha bisogno di tempo per trovare alternative al rifornimento dall’Iran.
Fonte: Nena news
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di Giorgia Grifoni
Il nucleare, in Medio Oriente, non s’ha da fare. Non è però una regola generale: vale solo per l’Iran. Se, dopo i virus informatici che hanno messo ko le centrali iraniane e i misteriosi assassinii dei tecnici iraniani - di cui Teheran accusa Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita - c’era ancora qualche dubbio sulla posizione delle petromonarchie del Golfo al riguardo, ci hanno pensato le dichiarazioni dell’ex ambasciatore saudita a Washington (e alleato strettissimo di diverse Amministrazioni Usa) Turki al-Faysal, a dissipare ogni interrogativo: il nucleare è una minaccia per la stabilità del Medio Oriente e l’Occidente lo deve fermare.
La regione deve diventare una “nuclear-free zone” e a garantirla devono essere i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, secondo le parole del diplomatico. Altrimenti, si procederà a una “corsa al nucleare, che potrebbe includere l’Arabia Saudita, l’Iraq, l’Egitto e la Turchia”.
Una questione, quella della nuclear-free zone, che merita “l’attenzione e l’energia di tutti”. La soluzione proposta da al-Faysal contempla uno “scudo di sicurezza nucleare” istituito dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu e “sanzioni militari” per tutti i paesi sospettati di lavorare a un programma nucleare. A oggi, i detentori ufficiali di energia atomica nella regione sono Israele (che possiede anche un nutrito arsenale militare non dichiarato) e Iran, verso i quali è stata sempre attuata una politica “due pesi, due misure”: all’Iran, nemico dell’Occidente, sono state imposte sanzioni per il sospetto sviluppo non-pacifico del suo programma nucleare. Israele, “fedele alleato” degli Stati Uniti nella regione, continua invece a lavorare all’atomica senza neanche essere firmatario del Trattato di Non-Proliferazione nucleare, istituito nel 1970 e a cui 189 paesi, compreso l’Iran, aderiscono.
La questione del nucleare israeliano e della sua approvazione da parte delle potenze “amiche” è chiara: Israele può permettersi indisturbato di mandare avanti un programma nucleare (anche a scopi bellici) senza che alcun ispettore dell’Aiea venga spedito a Tel Aviv per controllarne l’arsenale segreto, come in passato accadeva invece per l’Iran. Si stima che lo stato ebraico disponga di quasi 200 ordigni nascosti nel deserto del Negev: ordigni di cui si è a conoscenza solo grazie alle confessioni di uno scienziato nucleare israeliano, Mordechai Vanunu, che per le sue confessioni è agli arresti domiciliari a vita.
Altro singolare esempio del “due pesi, due misure” è che Israele può permettersi di bombardare e distruggere le centrali nucleari dei paesi della regione sospettati di proliferazione atomica senza che ci siano conseguenze. Se tutti ricordano l’operazione Babilonia del 1981, quando Israele distrusse, con un attacco a sorpresa, il reattore nucleare iracheno di Osiraq, forse a qualcuno è sfuggito il bombardamento di alcune infrastrutture militari siriane - sospette di essere sede di proliferazione atomica - da parte dello Stato ebraico nel 2007. L’evento rischiò di far scoppiare una nuova guerra tra Damasco e Tel Aviv, ma rimase impunito.
Secondo alcuni, il richiamo saudita a una nuclear-free zone in Medio Oriente porrebbe anche Israele a rischio sanzioni. Ma sembra invece che Tel Aviv non verrà toccata neanche questa volta. La proposta saudita non è nuova: già durante il rinnovo, nel 1995, del Trattato di non proliferazione, i paesi del Golfo avevano proposto che il Medio Oriente divenisse una nuclear-free zone. Proposta reiterata nella conferenza del 2010 e appoggiata anche dagli Stati Uniti.
Israele aveva dichiarato che però una tale realtà doveva essere discussa dopo il completamento della pace con gli Arabi: e infatti, lo scorso settembre, durante una riunione annuale dell’Aiea, gli Stati arabi hanno rinunciato a presentare una risoluzione che condannasse l’attività nucleare israeliana e la sua non-adesione al trattato di non-proliferazione. Israele, quindi, non smetterà di produrre ordigni atomici e la “nuclear-free zone” non si farà.
L’opzione alternativa è la corsa all’armamento nucleare: l’Arabia Saudita, che ha minacciato l’eventualità, si è già da tempo organizzata con il Pakistan per assistenza e forniture nucleari. La Turchia, sua rivale nella guida del Medio Oriente, ha tutte le carte - economiche e diplomatiche - in regola per essere già al lavoro su un proprio progetto atomico, magari con la Russia. Resta da capire come l’Iraq, in ginocchio da anni di occupazione e di guerra civile, e l’Egitto, alle prese con una rivoluzione ancora inconclusa, possano partecipare alla corsa al nucleare. Ma Riyadh, come sempre, troverà un modo per portarli dalla propria parte contro gli “eretici sciiti”.
Fonte: Nena News
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di Michele Giorgio
Roma. Crisi siriana ancora senza uno sbocco, con un presidente che muove troppo lentamente i passi in avanti che annuncia da mesi e una opposizione che, ascoltando le sirene dall’estero, rifiuta a priori qualsiasi dialogo e insiste per le dimissioni immediate di Bashar Assad. Perciò non è cambiato niente dopo il discorso pronunciato ieri dal raìs siriano, il quarto e il più lungo (quasi due ore) dall’inizio del conflitto interno, che pure ha indicato qualche novità anche se in modo ancora vago.
Assad ha presentato per la prima volta un calendario per le riforme istituzionali accennando all’ipotesi di elezioni. «La prima settimana di marzo - ha detto - si svolgerà una consultazione popolare sulla nuova costituzione, redatta dalla commissione incaricata, e per la prima settimana di maggio si terranno le elezioni». Il presidente siriano ha sottolineato che la nuova carta costituzionale «sarà incentrata su una questione: un sistema multi-partitico».
Allo stesso tempo Assad si è ancora una volta assolto da ogni responsabilità. Ha detto di non aver mai ordinato di sparare sui civili durante le manifestazioni e ha parlato di operazioni dell’esercito contro terroristi. E non ha mancato di ripetere che ciò che da 10 mesi accade in Siria è frutto di un «complotto straniero».
Nessun cenno ai 5 mila morti che, secondo i dati Onu, avrebbe fatto sino ad oggi la repressione delle proteste che, cominciate sull’onda delle rivolte in Tunisia ed Egitto, si sono trasformate in alcune aree del paese in un conflitto aperto tra la maggioranza sunnita e la minoranza alawita (sciita) al potere che rischia di trascinare il paese in una guerra civile. Uno scenario complesso nel quale ora recitano attori regionali e internazionali: Iran e Stati Uniti, la Turchia islamista «moderata» e la wahabita Arabia saudita, il leader sunnita libanese Saad Hariri e i movimenti sciiti Hezbollah e dell’iracheno Muqdata Sadr, fino alla Russia che ha inviato una sua flotta al porto di Tartus a sostegno simbolico dell’alleato Assad.
Israele da parte sua è certo che il nemico regime siriano cadrà molto presto. Ieri il Capo di stato maggiore, Benny Gantz, ha comunicato che le forze ai suoi ordini sono pronte ad accogliere nel Golan gli alawiti siriani che lasceranno il paese per sfuggire alla vendetta dei sunniti. Da Istanbul, dove ha la sua roccaforte, Burhan Ghalion, il leader del Consiglio nazionale siriano (Cns, che racchiude una porzione dell’opposizione siriana), ha respinto seccamente gli annunci fatti da Assad. A suo avviso il discorso pronunciato dal presidente siriano avrebbe posto fine alla missione della Lega araba, in corso in Siria dalla fine di dicembre. «Assad ha tolto qualsiasi possibilità all’iniziativa araba di andare avanti - ha aggiunto - così come ha ostacolato ogni altra iniziativa. Ora il popolo siriano non aspetta altro che le sue dimissioni». Il capo del Cns ha posto l’accento in modo particolare sulla «necessità di portare la questione siriana direttamente al Consiglio di sicurezza».
Non è un mistero che Ghalion, alla guida di un fronte che include anche forze islamiste radicali (sponsorizzate dal solito Qatar e Arabia saudita), stia spingendo in ogni modo per un intervento armato internazionale, ossia della Nato, per rovesciare Assad, come avvenuto con Gheddafi in Libia. Soluzione respinta dall’altra coalizione di forze dell’opposizione, il Comitato di coordinamento nazionale (Ccn), contrario ad un attacco straniero alla Siria.
Due settimane fa il leader del Ccn, Haytham al Manna, ha proposto a Ghalion un fronte unito, fondato sulla non interferenza di altri paesi nelle vicende interne siriane. Il capo del Cns in un primo momento sembrava aver dato il via libera all’intesa. Poi ha fatto marcia indietro, probabilmente per le pressioni dei suoi sponsor. L’opposizione perciò rimane spaccata. Ieri il portavoce del Ccn, Hassan Abdel Azim, pur escludendo una partecipazione al governo allargato ad una «opposizione nazionale» proposta da Assad, non ha negato totalmente la possibilità di un dialogo con il regime. Ha posto però alcune condizioni: il ritiro dell’esercito e delle forze di sicurezza dalle città, lo stop alle uccisioni e agli arresti, la liberazione dei detenuti politici e la libertà di manifestare.
Intanto la Lega araba ieri ha criticato duramente le autorità siriane per non aver garantito protezione adeguata ai suoi osservatori, due dei quali (kuwaitiani) sono stati leggermente feriti da «manifestanti sconosciuti» mentre andavano a Latakia.
Fonte: Nena news