di Marinella Correggia

Roma, 26 maggio 2011, S’intensificano i bombardamenti aerei della Nato su Tripoli e sulla Libia occidentale e gli Stati Uniti ora ammettono  senza imbarazzo alcuno di aver fornito, in palese violazione della risoluzione 1973, bombe ai ribelli che fanno capo al Consiglio nazionale transitorio di Bengasi. Le potenze occidentali sono ormai decisive ad abbattere con la forza il regime del colonnello Muammar Gheddafi, incuranti delle conseguenze per i civili libici che pure sostengono di voler “proteggere” con i loro attacchi militari.

Una guerra, quella della Nato in Libia, avviata sulla base di una precisa e falsa assunzione: il regime libico aveva bombardato tre quartieri a Tripoli provocando migliaia di morti civili; dunque avrebbe fatto una strage di civili a Bengasi in assenza di intervento Nato. Ma tutto cio’ si e’ rivelato interamente falso.

Mentre la guerra prosegue da oltre due mesi, la maggioranza dei libici, comunque la pensino, non ha voce. In questa guerra che come ha scritto l’analista Lucio Caracciolo di Limes registra il “collasso dell’informazione” (è stata resa possibile da gigantesche bugie e con le bugie continua) non va dato spazio alcuno a chi non è allineato con le posizioni e le gesta dei “ribelli” di Bengasi. Ecco dunque le voci di libici incontrati nella parte Ovest del paese, durante la missione contro la guerra alla quale abbiamo partecipato dal 15 al 20 maggio.

Aisha Mohamed, che da Londra torna a Sirte (incontrata per caso il 15 maggio a Djerba): “Sì, abbiamo un problema. Ma si deve risolvere con la diplomazia, con il cessate il fuoco. Non è però questo l’interesse della Nato. E’ quello di fare il gioco dei cosiddetti ribelli. Ma chi sono? Venuti da fuori, non ci rappresentano. Noi libici dobbiamo poter decidere del nostro futuro. La propaganda dei media ha capovolto la verità. E quanti paesi hanno guerre interne senza intervento esterno? Nel caso di Libia poi questo è basato su falsi rapporti media”.

Basma Challabi (incontrata per caso il 15 maggio ad aeroporto di Djerba): “Sono andata via da Bengasi passando in Egitto (il pretesto è stato un trattamento medico), poi via aereo fino a qua in Tunisia, adesso vado da parenti a Tripoli. La vita a Bengasi è molto insicura, ci sono bande che uccidono. Non è vera rivoluzione”.

Kofi, Ghana (incontrato il 15 maggio nel campo profughi al confine fra Tunisia e Libia): “Lavoravo in Libia nell’edilizia, siamo scappati dalla guerra. Cerco di andare in Europa ma mi rispediscono qui, dove ci danno solo un po’ di cibo e acqua. Che prospettive ho? Non posso tornare in Ghana, non ci sono prospettive là e devo mantenere la famiglia”.

Nuri Ben Otman, coordinatore del Comitato popolare per l sostegno al popolo palestinese (incontrato a Tripoli il 17 maggio): “I piani di sopra di questo palazzo che ospitava vari comitati e associazioni come hai visto sono in parte distrutti in parte danneggiati dai missili Nato, per fortuna è stato di notte. Ci siamo trasferiti in…cantina, insieme all’associazione donne libiche, al coordinamento per i bambini disabili e altri raggruppamenti. Il sostegno alla Palestina andava soprattutto a Gaza. Adesso è tutto bloccato. Fra un po’ avremo bisogno di aiuto noi! Mi chiedi se qualcuno dall’estero si è fatto vivo, fra quelli con i quali lavoravamo per la Palestina. No. Nessuno”.

Leila Sulah Ashour, presidente dell’Unione donne libiche (incontrata a Tripoli il 17 maggio): “Non sono venuti a proteggere i civili libici ma il petrolio. Anche noi donne ci sentiamo sole. Organizziamo conferenze contro la guerra, mobilitazioni, ma i media non ci intervistano mai. Anche domenica prossima, il 22 maggio, oltre un migliaio di donne si riunirà a Tripoli da tutta la Libia ma non ne parlerà nessuno”.

Zahra, madre di Mohamed, volontario dell’esercito libico ucciso a Misrata (incontrata il 16 maggio a Tripoli, quartiere Enzara): “Mio figlio è morto per la patria, per proteggere il nostro popolo. Il contrario di quello che dicono sui soldati libici, ora dipinti come mostri! Ci sono tante prove delle atrocità commesse dall’altra parte, perché non ne parlano le televisioni?”.

Mohamed Daghais, ingegnere, Academy of Graduate Studies (incontrato il 20 maggio a Tripoli): “Se siamo nel mirino è per la nostra politica indipendente, non controllabile. Avevamo rifiutato le basi militari Usa. Avevamo tentato un’altra via, poi i cittadini libici si sono stancati di anni di sanzioni e isolamento e il paese si è avvicinato all’Occidente. Che l’ha tradito”.

Milad Saad Milad, direttore della Academy of Graduate Studies (incontrato il 20 maggio a Tripoli): “Avevamo contatti con centinaia di docenti e studiosi in tutto il mondo. Eppure solo due si sono fatti vivi dall’estero da quando è iniziata la guerra. Non mi interessa l’establishment, i Berlusconi che passano dal baciamano al pugnale, ma i miei colleghi…perché?  Credo per le bugie quotidiane dei media di mezzo mondo. Quelle hanno dato il via alla guerra. Molte sono ormai smentite ma è troppo tardi. Se l’esercito libico fosse così terribile non avrebbe speso un mese a Zawyia per negoziare con i ribelli mediante i leader tribali”.

Ali Mohamed Mansour, rettore della facoltà di Economia all’università Al Fateh (incontrato il 18 maggio a Tripoli): “Si può bombardare di pomeriggio vicino a un’università? L’hanno fatto per colpire un campo militare in disuso da tempo. Per fortuna non c’erano studenti, eravamo chiusi per un problema avvenuto il giorno prima, altrimenti lo spostamento d’aria che ha fatto crollare soffitti di cemento avrebbe fatto un massacro”.

Mohamed Omar di Bengasi, capo della tifoseria della principale squadra di calcio (incontrato il 17 maggio a Zliten dove è rifugiato con altre ottomila famiglie): “C’è molta violenza a Bengasi, siamo scappati da tempo. Girano anche ex galeotti scappati e tanta gente armata. Tutti devono stare zitti”.

Mohamed Ahmed, leader tribale (incontrato il 17 maggio  in una riunione di leader tribali a Tarouna):“Dite i fatti nei vostri paesi, dite che la protezione dei civili non si fa così, che la Nato non può confondere la protezione dei civili con l’appoggio ai ribelli armati, che il nostro esercito ha il diritto di combattere, che hanno mentito parlando di migliaia di morti, che non è giusto che siano le bombe a decidere chi ci deve governare, che Al Jazeera sta facendo un lavoro sporco per conto degli emiri, che qui la gente vuole vivere tranquilla”.

Reem, geologa, tornata a casa dalla Gran Bretagn (incontrata sia a Djerba l 15 sia a Tripoli il 16 maggio): “La Nato protegge i criminali che fanno saccheggi, sgozzano soldati, violentano ragazze. C’era un problema interno alla Libia, l’intervento Nato ne ha fatto una tragedia non ancora risolta”.

Abdul Mola Gumati (incontrato il 19 maggio all’internet point dell’hotel Radisson Blu): sono tornato dal Canada, mi sono sospeso da consulente d’impresa e adesso voglio stare qui nel mio paese, voglio aiutare a ristabilire la verità dei fatti”.

Tiziana Gamannossi, imprenditrice italiana che vive a Tripoli (incontrata durante la missione): “Io e altre persone, libiche e non, insegnanti e imprenditori, abbiamo deciso di creare a Tripoli la Fact Finding Commission, appunto per indagare sulle bugie di guerra. Mettiamo insieme materiali video, accogliamo delegazioni…ma i media internazionali non ci danno spazio”.

La poliziotta all’imbarco della nave di ritorno, da Tunisi per l’Italia (il 21 maggio perquisisce il bagaglio e va a mostrare i video dalla Libia al suo capo, le dico che se me li sequestrano protesterò formalmente): “Gheddafi continua a bombardare?”.

 

 

di Manlio Minucci

Secondo documenti resi pubblici dal New York Times, condurrà missioni speciali per reprimere rivolte interne, tipo quelle che stanno scuotendo il mondo arabo. Lo sta costruendo Erick Prince, un ex commando dei Navy Seals che nel 1997 fondò la Blackwater, la maggiore compagnia militare privata usata dal Pentagono in Iraq, Afghanistan e altre guerre. La compagnia, che nel 2009 è stata ridenominata "Xe Services" (per sfuggire alle azioni legali per le stragi di civili in Iraq), dispone negli Stati uniti di un mega-campo di addestramento in cui ha formato oltre 50mila specialisti della guerra e della repressione. E ne sta aprendo altri.

Ad Abu Dhabi Erick Prince ha stipulato, senza apparire di persona ma attraverso la joint-venture "Reflex Responses", un primo contratto da 529 milioni di dollari (l’originale, datato 13 luglio 2010, è stato reso pubblico ora dal New York Times). Su questa base è iniziato in diversi paesi (Sudafrica, Colombia e altri) il reclutamento di mercenari per costituire un primo battaglione di 800 uomini. Vengono addestrati negli Emirati da specialisti statunitensi, britannici, francesi e tedeschi, provenienti da forze speciali e servizi segreti. Sono pagati 200-300mila dollari l’anno, le reclute ricevono 150 dollari al giorno.

Una volta provata l’efficienza del battaglione in una «azione reale», Abu Dhabi finanzierà con miliardi di dollari la costituzione di un’intera brigata di diverse migliaia di mercenari. Si prevede di costituire negli Emirati un campo di addestramento come quello in funzione negli Stati Uniti. Principale sostenitore del progetto è il principe ereditario di Abu Dhabi, Sheik Mohamed bin Zayed al-Nahyan, formatosi nell’accademia militare britannica Sandhurst e uomo di fiducia del Pentagono, fautore di un’azione armata contro l’Iran.

Il principe e l’amico Erick Prince sono però solo esecutori del piano, che è stato sicuramente deciso nelle alte sfere di Washington. Quale sia il suo reale scopo lo rivelano i documenti citati dal New York Times: l’esercito che nasce negli Emirati condurrà «speciali missioni operative per reprimere rivolte interne, tipo quelle che stanno scuotendo il mondo arabo quest’anno».

L’esercito di mercenari sarà dunque usato per reprimere le lotte popolari nelle monarchie del Golfo, con interventi tipo quello effettuato in marzo dalle truppe di Emirati, Qatar e Arabia saudita nel Bahrain dove hanno schiacciato nel sangue la richiesta popolare di democrazia. «Speciali missioni operative» saranno effettuate dall’esercito segreto in paesi come Egitto e Tunisia, per spezzare i movimenti popolari e far sì che il potere resti nelle mani di governi garanti degli interessi degli Stati uniti e delle maggiori potenze europee.

E anche in Libia, dove il piano Usa/Nato prevede sicuramente l’invio di truppe europee e arabe per l’ «aiuto umanitario ai civili». Qualsiasi sia lo scenario - o una Libia «balcanizzata» divisa in due territori contrapposti, a Tripoli e Bengasi, o una situazione di tipo iracheno/afghano dopo il rovesciamento del governo di Tripoli - si prospetta l’uso dell’esercito segreto di mercenari: per proteggere impianti petroliferi di fatto in mano alle compagnie europee ed Usa, per eliminare avversari, per mantenere il paese debole e diviso.

Sono le «soluzioni innovative» che, nell’autopresentazione, la Xe Services (già Blackwater) si vanta di fornire al governo statunitense. La formazione militare, sostenuta dagli Usa, è promossa da Erick Prince, fondatore della Blackwater, la società di contractors usata dal Pentagono in Iraq e Afghanistan, ora ridenominata Xe Services.

fonte: Il Manifesto

 

di Nena News

Gerusalemme, 17 maggio 2011. Il quotidiano di Tel Aviv Yediot Ahronot pubblica oggi la bozza del discorso al mondo arabo che il presidente Usa pronuncerà giovedì. Sul New York Times invece Abu Mazen chiede riconoscimento Stato palestinese. Nel nuovo discorso rivolto al mondo arabo che pronuncerà giovedì sera, il presidente americano Barack Obama chiederà ai palestinesi di riconoscere Israele come «Stato degli ebrei» e si esprimerà con forza contro la proclamazione unilaterale d’indipendenza palestinese che il presidente dell’Anp Abu Mazen intenderebbe fare il prossimo settembre.

Sottolineando che il documento non contiene dichiarazioni nettamente discordanti dalla linea del premier israeliano Netanyahu, Yediot Ahronot aggiunge che Obama chiederà a israeliani e palestinesi di riprendere il negoziato, come unica strada per raggiungere una «pace stabile», e a Netanyahu dirà di non espandere le colonie israeliane nei Territori occupati palestinesi. Allo stesso tempo si esprimerà a favore di Gerusalemme capitale non solo di Israele ma anche di un possibile Stato palestinese.

Secondo il giornale il presidente Usa avrebbe modificato nella direzione di Israele il suo discorso dopo il veemente discorso pronunciato alla Knesset da Netanyahu, nel quale il premier israeliano ha ribadito con forza che Israele non cederà mai il controllo di tutta Gerusalemme, della Valle del Giordano e dei blocchi di colonie ebraiche in Cisgiordania.

Il riconoscimento palestinese di Israele come Stato ebraico è il punto sul quale batte ormai da due-tre anni a questa parte l’establishment politico israeliano, di destra e di centrosinistra. Una richiesta mai presentata ai passati tavoli di trattativa volta, di fatto, ad ottenere l’annullamento del «diritto al ritorno» alle loro case (in territorio israeliano) per i profughi palestinesi del 1948 (oggi oltre 4 milioni) sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu. Israele sostiene che applicando il «diritto al ritorno» perderebbe il suo carattere «ebraico e sionista».

Intanto oggi sul New York Times, Abu Mazen ha sottolinea che «I negoziati rimangono la nostra prima opzione, ma dato il loro fallimento siamo costretti a rivolgerci alla comunità internazionale…non possiamo aspettare indefinitamente mentre Israele manda nuovi coloni nella Cisgiordania occupata e nega ai palestinesi l’accesso alla maggior parte delle nostre terre e luoghi santi, in particolare Gerusalemme». «Né le pressioni politiche, né le promesse di ricompensa da parte degli Stati Uniti hanno fermato il programma israeliano degli insediamenti», aggiunge. Secondo il presidente dell’Anp «l’ammissione della Palestina all’Onu aprirebbe la strada all’internazionalizzazione del conflitto come questione legale, non solo politica - sostiene - ci permetterebbe di citare Israele davanti all’Onu, gli organismi per i diritti umani e la corte internazionale di giustizia».

 

di Mauro Covacich

Un'organizzazione di indiani con sede nell'ovest vicentino, al centro di un vasto giro di volantinaggio illegale fatto di lavoro nero, evasione e frode fiscale, è stata sgominata dalla Guardia di Finanza, ma non è questa la notizia vera. La notizia vera è che questi nuovi padroni controllavano i loro lavoranti, quasi tutti ovviamente immigrati irregolari e quindi ricattabili, attraverso una catena elettronica dalle maglie invisibili collegata a un gps.

La tecnologia non ha un'etica, può essere utile al chirurgo, all'astronauta o al criminale, per sua natura non guarda in faccia nessuno. Non solo: più la tecnologia avanza e occupa spazi, più il pensiero si ritira in aloni opalescenti, fino a rarefarsi del tutto. È probabile che i nuovi padroni colti in flagranza di reato abbiano sgranato gli occhi di fronte alle accuse. Che c'è di male a dotare di collarino gps i tuoi schiavi?

Prima c'era la palla al piede, le catene, adesso gli rendiamo la vita più facile, e voi pure vi scandalizzate? Chi tiene gli occhi bassi sulle cose non ha tempo per pensare: o è troppo intento a far soldi o sta sudando per farli fare a qualcun altro. È stupefacente il mondo che si nasconde dietro queste giustificazioni e la loro patina di laboriosità. Sotto i nostri occhi ogni mattina va in scena una commedia piena di gente indaffarata, ragazze che sorridono ai banchetti dei surgelati in promozione, agenti immobiliari in grisaglia che offrono sempre nuove perizie, giovani africani che ingombrano i tergicristalli e le cassette della posta di stramaledetti volantini pubblicitari. Li accettiamo i loro volantini. Alla fin fine, pensiamo, hanno un lavoro, ce l'hanno fatta. Guarda che bei caschetti, che belle pettorine, che belle biciclette. Siamo quasi contenti per loro. Mica ci siamo chiesti se quei caschetti servono a farli pedalare più sicuri o a nascondere un guinzaglio di ultima generazione.

La commedia va in scena ogni giorno secondo il copione ormai consolidato del «purché si lavori», ma dietro le quinte lo sfruttamento ha raggiunto livelli di ferocia che farebbero impallidire un dramma come Furore. Quando John Steinbeck pubblicò il suo romanzo, i gps non esistevano ancora. Era il 1939, piena depressione, e i nuovi poveri degli stati del sud migravano verso la California in cerca della semplice, bruta sopravvivenza. Era gente talmente affamata da non avere alcun potere contrattuale e quindi perfetta per il cottimo dei proprietari terrieri. Ognuno di quei lavoratori stagionali aveva ovviamente una sua storia - uomini, donne, figli, individui che amavano e soffrivano - ma veniva percepito a malapena come parte di una massa pericolosa di nullatenenti o, peggio, come un'ottima occasione speculativa. Vi ricorda qualcosa? Guardate fuori dalla finestra.

Il romanzo di Steinbeck, così pieno di passione e dolore, lasciava intuire una cosa importante per il futuro: sfruttata, offesa, ferita che fosse, quella gente non avrebbe smesso di arrivare. Altri avrebbero viaggiato per migliaia di chilometri, si sarebbero spezzati la schiena nei campi di pesche, ricacciando in gola l'orgoglio, la rabbia, tutto, in attesa solo di diventare cittadini. Senza cottimo, e forse oggi potremmo dire anche senza gps.

Fonte: www.corriere.it

 

di Nena News 

Roma, 06 maggio 2011. Potrebbero diventare operative già lunedì prossimo le prime misure restrittive dell’Unione europea (Ue) contro la Siria che verranno approvate oggi dai 27 paesi membri e dovrebbero colpire direttamente lo stesso Bashar Assad. A spingere affinchè il presidente siriano venga preso di mira subito - con divieto di concessione del visto e il congelamento dei beni personali all’estero - sono la Francia, la Gran Bretagna e la Germania.

Altri paesi, preferirebbero «segnale forti» contro Damasco lasciando tuttavia una porta aperta alla diplomazia. L’Ue approverà l’embargo sulla fornitura di armi, congelerà il negoziato per l’accordo di associazione (in realtà già bloccato dall’ottobre 2009) e procederà alla revisione della cooperazione bilaterale, un fronte sul quale la Siria avrebbe potuto beneficiare, nel periodo 2011-2013, di circa 130 milioni di euro.

Le sanzioni arrivano mentre in Siria si è vissuta oggi una nuova giornata di proteste e tensioni con almeno sei manifestanti uccisi dalle Forze Armate a Homs e molte decine di feriti e di arresti “preventivi” in altre località. A Damasco é finito in manette anche il noto oppositore ed ex parlamentare Riad Seif (da poco era uscito di carcere). I suoi familiari hanno riferito che è stato portato via assieme ad altri dimostranti da agenti di polizia che lo hanno caricato a bordo di un veicolo nei pressi della moschea al Hassan, nel quartiere di Midan, dove era in corso una manifestazione.

Non è prevista alcuna sanzione europea invece contro il monarca assoluto del Bahrain, Hamad al Khalifa, che pure ha represso nel sangue il movimento per le riforme e la democrazia di Piazza della Perla. Almeno quattro manifestanti sono stati condannati a morte, molti altri a pesanti pene detentive sulla base di accuse gonfiate e al termine di processi senza garanzie per gli imputati. Le ultime notizie da Manama riferiscono di una ulteriore stretta nei confronti della stampa.

Da lunedì cesserà le pubblicazioni su ordine delle autorità al Wasat, l’unico quotidiano vicino all’opposizione. Diverse donne del Bahrein peraltro denunciano di aver subito violenze sessuali dalle forze militari saudite entrate nel paese su richiesta di re Hamad. Fatima, una parente dell’attivista bahrainita Abdulhadi al-Khawaja (detenuto dall’inizio di aprile), ha detto all’emittente Press TV di essere stata stuprata nella sua abitazione da soldati sauditi. Press tv riferisce di altri casi di violenze sessuali. Nelle ultime ore è giunta anche denuncia di Navy Pillay, alto commissario dell’Onu per i diritti umani, che ha chiesto al regime bahranita di cessare la tortura dei detenuti politici.

Ma nel caso del Bahrain l’Europa e gli Stati Uniti fingono di non vedere e tacciono. Re Hamad è un ottimo alleato dell’Occidente, ospita la base della V Flotta Usa ed è ostile nei confronti dell’Iran che accusa di sostenere il movimento sciita in Bahrain e nel Golfo. «Meriti» che, a quanto pare, gli garantiscono una piena immunità.

 


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