di Manlio Dinucci

L’obiettivo della guerra in Libia non è solo il petrolio, le cui riserve (stimate in 60 miliardi di barili) sono le maggiori dell’Africa e i cui costi di estrazione tra i più bassi del mondo, né il gas naturale le cui riserve sono stimate in circa 1.500 miliardi di metri cubi. Nel mirino dei «volenterosi» dell’operazione «Protettore unificato» ci sono anche i fondi sovrani, i capitali che lo stato libico ha investito all’estero.

I fondi sovrani gestiti dalla Libyan Investment Authority (Lia) sono stimati in circa 70 miliardi di dollari, che salgono a oltre 150 se si includono gli investimenti esteri della Banca centrale e di altri organismi. Ma potrebbero essere di più. Anche se sono inferiori a quelli dell’Arabia saudita o del Kuwait, i fondi sovrani libici si sono caratterizzati per la loro rapida crescita. Quando la Lia è stata costituita nel 2006, disponeva di 40 miliardi di dollari. In appena cinque anni, ha effettuato investimenti in oltre cento società nordafricane, asiatiche, europee, nordamericane e sudamericane: holding, banche, immobiliari, industrie, compagnie petrolifere e altre.

In Italia, i principali investimenti libici sono quelli nella UniCredit Banca (di cui la Lia e la Banca centrale libica pos-siedono il 7,5%), in Finmeccanica (2%) ed Eni (1%): questi e altri investimenti (tra cui il 7,5% dello Juventus Football Club) hanno un significato non tanto economico (ammontano a circa 4 miliardi di euro) quanto politico.

La Libia, dopo che Washington l’ha cancellata dalla lista di proscrizione degli «stati canaglia», ha cercato di ricavarsi uno spazio a livello internazionale puntando sulla «diplomazia dei fondi sovrani». Una volta che gli Usa e la Ue hanno revocato l’embargo nel 2004 e le grandi compagnie petrolifere sono tornate nel paese, Tripoli ha potuto disporre di un surplus commerciale di circa 30 miliardi di dollari annui che ha destinato in gran parte agli investimenti esteri. La gestione dei fondi sovrani ha però creato un nuovo meccanismo di potere e corruzione, in mano a ministri e alti funzionari, che probabilmente è sfuggito in parte al controllo dello stesso Gheddafi: lo conferma il fatto che, nel 2009, egli ha proposto che i 30 miliardi di proventi petroliferi andassero «direttamente al popolo libico». Ciò ha acuito le fratture all’interno del governo libico.

Su queste hanno fatto leva i circoli dominanti statunitensi ed europei che, prima di attaccare militarmente la Libia per mettere le mani sulla sua ricchezza energetica, si sono impadroniti dei fondi sovrani libici. Ha agevolato tale operazione lo stesso rappresentante della Libyan Investment Authority, Mohamed Layas: come rivela un cablogramma filtrato attra-verso WikiLeaks, il 20 gennaio Layas ha informato l’ambasciatore Usa a Tripoli che la Lia aveva depositato 32 miliardi di dollari in banche statunitensi. Cinque settimane dopo, il 28 febbraio, il Tesoro Usa li ha «congelati». Secondo le dichiarazioni ufficiali, è «la più grossa somma di denaro mai bloccata negli Stati uniti», che Washington tiene «in deposito per il futuro della Libia». Servirà in realtà per una iniezione di capitali nell’economia Usa sempre più indebitata. Pochi giorni dopo, l’Unione europea ha «congelato» circa 45 miliardi di euro di fondi libici.

L’assalto ai fondi sovrani libici avrà un impatto particolarmente forte in Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company ha effettuato investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell’Africa subsahariana, programmando di accrescerli nei prossimi cinque anni soprattuttto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni. Gli investimenti libici sono stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Rascom (Regional African Satellite Communications Organization) che, entrato in orbita nell’agosto 2010, permette ai paesi africani di cominciare a rendersi indipendenti dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.

Ancora più importanti sono stati gli investimenti libici nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati dall’Unione africana: la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli; il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria). Lo sviluppo di tali organismi permetterebbe ai paesi africani di sottrarsi al controllo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, strumenti del dominio neocoloniale, e segnerebbe la fine del franco Cfa, la moneta che sono costretti a usare 14 paesi, ex-colonie francesi. Il congelamento dei fondi libici assesta un colpo fortissimo all’intero progetto. Le armi usate dai «volenterosi» non sono solo quelle dell’operazione bellica «Protettore unificato».

Fonte: Voltairenet.org

di Maurizio Matteuzzi

Il vento del Maghreb alla fine è arrivato al Mashreq. Levatosi dall’occidente arabo in dicembre, in aprile ha investito l’oriente. Inevitabilmente. Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrain, Libia, ora la Siria. E dopo? La rivolta araba ha cambiato registro. Sembra non esserci più spazio per rivoluzioni gentili e profumate - come i gelsomini della Tunisia - relativamente pacifiche anche se ognuna ha richiesto centinaia di morti. Ora è guerra aperta. E, almeno in Libia, guerra «mondiale», se è vero che alla coalizione «umanitaria» dei «volenterosi» partecipano 34 paesi. Ieri la Siria ha vissuto un «venerdì di sangue», il più sanguinoso dall’inizio della rivolta, a marzo.

I morti finora sono più di 70. Un massacro. Le riforme annunciate e promesse dal presidente Bashar al-Assad (come la revoca della legge d’emergenza in vigore da 48 anni) non bastano. Troppo timide, troppo tardi, troppo poche. L’accusa di «cospirazione» per destabilizzare il paese - comune a tutti gli altri paesi investiti dalla rivolta - forse ha un fondo di verità (è di pochi giorni fa la rivelazione, da parte del Washington post, che le amministrazioni Usa, prima Bush poi Obama, finanziavano con milioni di dollari l’opposizione anti-Assad), ma non basta a spiegare - come in Libia - una sollevazione così intensa, ampia, disposta a tutto.

Ogni rivolta è diversa dalle altre, ha una sua peculiarità, ma le domande e gli obiettivi sono simili: in Siria la fine del monopolio del partito Baath, al potere da quasi mezzo secolo, un sistema politico democratico, la liberazione dei detenuti politici e lo sciogliemento dei vari mukhabarat.

In Siria gli Assad se ne devono andare, dopo 45 anni e anche se Bashar pareva disposto a riformare il (suo) sistema di potere. Come in Libia se ne deve andare Gheddafi dopo 43 anni, in Yemen Saleh dopo 33 anni. Come in Egitto e Tunisia se ne dovevano andare Mubarak e Ben Ali. Molti di loro amici e sodali dell’occidente, dittatori ma sicuri, che garantivano stabilità (e, nel caso diGheddafi, petrolio) e il controllo di quell’incubo che per la Fortezza Europa è l’immigrazione di massa.

Il problema, irrisolto, è in che modo se ne devono andare. La Siria non ha il petrolio ma è un paese strategico («non si fa la guerra senza l’Egitto e la pace senza la Siria») nel quadro di un Medioriente esplosivo. Reso ancor più esplosivo che in passato dalla fine del bipolarismo e del panarabismo (un tempo) progressista, l’avvento di nuove potenze (in primis la Cina), il declino degli Usa (già impantanati in due guerre più una da cui non riusciranno facilmente a uscire), i rigurgiti neo-coloniali o neo-imperiali di ex-potenze europee decadute come Francia e Inghilterra, il dislocamento dei rapporti centro-periferia, il peso dei social network (i «facebook boys»).

Un quadro intricato di cambio, magnifico per un lato e tragico per un altro. Ma dal finale oscuro. Che faranno ora gli «umanitari» con la Siria? La rivolta sanguinosa a Damasco ripropone domande senza risposta (o con risposte fin troppo facili): perché la «comunità internazionale» - Usa, Francia, Inghilterra in testa - non corre in soccorso anche dei civili siriani (quelli yemeniti e bahareniti, evidentemente, pesano meno)? E come, con i raid aerei della Nato, con i «corridoi umanitari», con i consiglieri militari? Per favore, qualcuno lo spieghi.

fonte: Nena News

di Giulietto Chiesa e Pino Cabras

L’attacco franco-britannico contro la Libia pare non avesse niente a che fare con operazioni umanitarie di sorta. Infatti sarebbe stato programmato con larghissimo anticipo non solo rispetto alla rivolta che ha sconvolto la Libia, ma addirittura assai prima della sollevazione egiziana. Questa piuttosto sconvolgente circostanza emerge da un sito ufficiale legato a uno dei comandi dell’«Armée de l’Air», l’Aeronautica militare francese. Sono infatti le pagine del Comando della Difesa Aerea e delle operazioni Aeronautiche (CDAOA), con tanto di logo colorato dell’”Armée de l’Air” in bella vista, a regalarci la descrizione di un “War Game” poi puntualmente ricalcato dallo scenario libico di questi giorni.

Per chi volesse consultare tutte le informazioni che seguono (e sarà meglio farlo prima che il sito venga oscurato), ecco il link indispensabile: http://www.southern-mistral.cdaoa.fr/GB/index.php?option=com_content&view=article&id=54&Itemid=67.

Il titolo e il logo contengono il nome dell’operazione in codice: “Southern Mistral 2011”. Il nome segnato dall’aggettivo inglese è lo stesso sia nelle pagine in inglese del 4 marzo 2011, sia in quelle anteriori del 17 febbraio in francese. I francesi appaiono gli iniziatori di fatto, oltre che gli “ospitanti”. Come si evince dai testi che qui sotto riportiamo, infatti, sono francesi tutte le basi impegnate nell’operazione “Southern Mistral 2011”.

Nella Presentazione, in homepage, si legge questa fenomenale descrizione che, se non fosse vera (come tutto il resto del sito) sarebbe davvero, come dice un adagio popolare, ben trovata. «Il 2 novembre 2010 la Francia e la Gran Bretagna hanno firmato un accordo senza precedenti in tema di difesa e sicurezza. Componente di questo accordo è l’esercitazione Southern Mistral. Essa è programmata per il periodo dal 21 al 25 marzo 2011 e coinvolgerà diverse basi francesi. In quest’occasione le forze francesi e britanniche effettueranno operazioni aeree congiunte e uno specifico raid aereo (Southern Storm) che realizzerà una attacco convenzionale a largo raggio d’azione. Questa esercitazione bilaterale coinvolgerà oltre 500 addetti.»

Il sito non si limita a dare questa succosa informazione. Precisa, con dovizia di particolari, corredati di fotografie, di descrizioni e dettagli tecnici, che proprio nel mese di marzo 2011 sono destinati all’operazione Tempesta del Sud una trentina di velivoli. Tra cui 6 Tornado GR4s della Royal Air Force, accompagnati da un aereo cisterna Vickers-10 e un Boeing E3D, mentre la Francia metterebbe a disposizione i suoi Mirage 2000Ds, 2000Ns, 2000 Cs. I famosi Rafale compaiono non in questo elenco ma nelle fotografie del sito, insieme a diversi tipi di elicotteri.

Viene anche precisato che il centro di comando che guiderà l’intera operazione è situato nella base aerea di Lione Mont-Verdun (sigla BA942). Ma, a quanto pare, non si progettava solo un raid in quota. Si parla di un commando di paracadutisti francesi “Air 20” (CPA20) che deve incontrarsi con un analogo reggimento britannico in quel di Digione, per effettuare operazioni di sincronizzazione e di azioni congiunte future. Parallelamente un altro reggimento britannico è atteso a Captieux per apprestare misure di polizia aerea elitrasportata. Lo scopo- viene precisato - sarà quello di colpire avversari «in lento movimento» a terra. Le immagini che stiamo vedendo in tv, che mostrano il tiro al bersaglio con missili contro i tank di Gheddafi sembrano la rappresentazione precisa di questi documenti. E, a quanto pare, lo sono. Infatti è dallo stesso sito, sotto la voce in homepage di Conflict Summary, si può leggere il significato di quel “Southern” che compare nel titolo.

Si tratta di un paese immaginario, di nome Southland. Un paese con un governo “specificamente autoritario”, nel quale stanno accadendo cose stranamente vicine ai racconti e analisi che abbiamo letto sui giornali in queste settimane, quasi che chi ha scritto queste righe avesse la possibilità di guardare dentro una sfera di cristallo.

Seguiamo dunque questi lettori franco-britannici di fondi di caffè. «L’ex dittatore si è dimesso, trasmettendo i poteri a suo figlio. Da quel momento la politica del paese è divenuta più aggressiva; operazioni militari sono state lanciate contro il territorio francese. Prove dell’aggressione mostrano chiaramente la responsabilità di Southland in un attacco contro gli interessi strategici francesi».

Naturalmente chi progetta un’offensiva, sia pure immaginaria, contro un paese immaginario, deve anche dotarsi di prove che “dimostrino” le colpe del nemico. Che deve essere severamente punito in tempi rapidi. Dunque «il presidente francese e il primo ministro britannico decidono di dare un’immediata e congiunta risposta a questa offesa», che si tradurrà in un «attacco convenzionale a lungo raggio contro un obiettivo strategico all’interno di Southland».

Aprendo infine la pagina degli scenari, si può leggere un’ultima curiosa spigolatura: dopo avere mostrato in dettaglio, con ampi disegni colorati, le collocazioni delle basi francesi impegnate, dove si porteranno le truppe britanniche, si scrive - anche in questo caso colpisce la lungimiranza degli autori - che la Francia «prende la decisione di mostrare la propria determinazione a Southland (in base alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, n.3003)».

C’è quasi tutto il necessario. L’unico errore, veniale, è il numero della risoluzione, che non poteva essere così alto alla data in cui il tutto sarebbe avvenuto. Infatti, dal testo del sito citato, emerge che l’attacco verso una “dittatura del sud” deve avvenire tra il 21 e il 25 marzo.

Resta solo un dubbio: ma questo Southland è proprio la Libia? Non potrebbe essere l’Egitto? Anche là il dittatore pensava di mettere al suo posto il figlio, ma alla luce degli avvenimenti successivi non si direbbe che gli strateghi parigini e londinesi a questo pensassero. Lo schema era pronto, la mobilitazione rodata. Con poca fantasia, i militari francesi hanno chiamato la loro campagna di Libia con il nome di Opération Harmattan, che poi è l’appellativo di un vento tempestoso, una specie di Maestrale del Sud.

Le coincidenze non sono sfuggite al parlamentare statunitense Dennis Kucinich, che in una lettera a tutti i suoi colleghi ricorda che «mentre i giochi di guerra non sono affatto rari, le somiglianze fra “Southern Mistral”» e l’attuale operazione «mettono immediatamente in luce la quantità di domande che rimangono senza risposta in merito ai nostri programmi militari in Libia». E aggiunge: «Non sappiamo da quanto tempo l’attacco alla Libia fosse in preparazione, ma dobbiamo scoprirlo. Non sappiamo chi rappresentano davvero i ribelli né come sono diventati armati, ma dobbiamo scoprirlo». Una voce di minoranza al Congresso, quella di Kucinich. Ma nel nostro Parlamento queste domande finora non le ha fatte nessuno.

Le faremo noi, assieme a nuove domande e rivelazioni che presenteremo nei prossimi giorni, che disegneranno, dati alla mano, un quadro molto diverso dalla corrente raffigurazione di questa guerra.

fonte: Megachip

di Maurizio Musolino 

Accanto alla battaglia per la democrazia, nel mondo arabo si sta giocando una partita fra le potenze capitaliste occidentali per il controllo di quei Paesi, in contrapposizione alla crescente egemonia cinese sul mondo. Cosa potrà accadere nelle prossime ore in Siria è difficile prevederlo, anche perché sui fatti di questi giorni si intrecciano molti - e diversi fra loro, spesso contraddittori - fattori. Di sicuro le proteste che nei giorni scorsi hanno infiammato le strade siriane fino a portare alle dimissioni del Governo si inseriscono nel più vasto moto di ribellione che ha coinvolto gran parte dei paesi arabi.

Proteste che si sono accese per denunciare condizioni di vita precarie, spesso al limite della sopravvivenza, e di cui il principale responsabile è la crisi economica mondiale. Una crisi che in questa regione si è sommata agli effetti devastanti che gli abbiamo regalato noi dall’opulento Occidente: in parole povere in questi mesi i cosiddetti paesi avanzati hanno cercato di scaricare sui paesi più poveri alcuni degli effetti della crisi: la disoccupazione, la sospensione delle rimesse, le speculazioni su alcuni prodotti come le farine.

Ma sarebbe sbagliato non vedere come a questo si sia man mano sommata una sempre crescente richiesta di democrazia. Una democrazia astratta, non meglio definita, che spesso si è concretizzata con la richiesta di un cambiamento della classe dirigente che da decenni governa la maggior parte dei paesi della regione. Qui sarebbe opportuno aprire una discussione veramente libera sul concetto di “democrazia” nel XXI secolo, ma non è questo il luogo. Di sicuro credo che nessuno possa identificare la “democrazia” esclusivamente sui nostri modelli. Altrimenti davvero la vicenda Berlusconi non avrebbe insegnato nulla.

Quindi siamo di fronte a rivolte per il pane e il cambiamento. Insisto a chiamarle rivolte, perché di questo si tratta. Le rivoluzioni sono ben altra cosa. Le rivoluzioni presuppongono la volontà di sovvertire un sistema e di dotarsi di classi dirigenti nuove e non colluse con i vecchi regimi. Cosa ben lontana da quello che sta accadendo nei paesi arabi in queste settimane.

Detto questo, occorre sottolineare un altro fattore. Sarebbe sbagliato tacere che in quell’area si sta giocando anche una grossissima partita fra le potenze capitaliste occidentali per il controllo e l’influenza di questi Paesi. Una partita tutta interna alle forze occidentali e in chiave di contrapposizione alla sempre crescente egemonia cinese sul mondo. Ne è dimostrazione l’interventismo della Francia e le divisioni all’interno della stessa Nato. Una battaglia che coinvolge e spesso utilizza anche pezzi dei regimi arabi e in Libia questo è evidente a chiunque non intende chiudersi occhi e orecchie. Non è sicuramente ininfluente il fatto che da mesi in Siria si svolge una durissima battaglia fra chi vorrebbe intensificare le privatizzazioni aprendo ai capitali occidentali e chi mette un freno a queste scelte temendo una perdita di autonomia e quindi di indipendenza. Fatti che hanno scatenato appetiti.

Fatta questa utile premessa, ogni paese ha la sua peculiarità: voglio dire che la Siria non è né l’Egitto, né la Libia. In questi anni la Siria è stato fra i pochi paesi che si sono opposti al dominio Usa nel mondo e ha rigettato i piani di Bush sul “grande medioriente”. Una colpa imperdonabile per alcuni, che adesso potrebbe essere fatta pagare caramente a Bashar Al Assad. Chi è stato a Damasco in questi ultimi anni non ha potuto non vedere un Paese in crescita dove fra la gente si respirava un clima molto diverso da quello che regnava nelle altre capitali arabe. Non era certo il Paese dei balocchi, nessun esempio di “socialismo reale in chiave araba”, ma semplicemente uno stato nazione che cercava la sua strada verso lo sviluppo e il benessere. Con tutti i limiti e gli errori possibili. Limiti ed errori che il popolo siriano deve poter correggere, senza influenze straniere.

Per tutto questo una funzione fondamentale la avrà nelle prossime ore proprio il popolo siriano, che dovrà far sentire la sua voce e assumersi in proprio le responsabilità. Le manifestazioni di oggi in sostegno al presidente sono un segno importante, non minore di quelle che hanno caratterizzato le giornate trascorse. Sono le facce di una complessità reale, dalla quale non possiamo prescindere. Mai.

Infine un ultimo elemento da non sottovalutare: l’aspetto della laicità che è caratteristica della Siria odierna. La Siria è rimasto fra i pochissimi stati laici della regione e questo fa paura e da fastidio a chi spera, dall’Iran a Israele, passando per l’Arabia Saudita di creare stati confessionali in tutta la regione. Questa considerazione, legata all’alleanza che si sta determinando fra Fratelli musulmani (islam politico del tutto compatibile con le regole del mercato liberale) e forze neoconservatrici in Egitto (le stesse che per decenni hanno appoggiato Mubarak) sono un campanello di allarme per tutto il mondo progressista e rendono legittimi sospetti che qualcuno voglia strumentalizzare e influire su quanto accade in Siria.

Il presidente Bashar dovrebbe annunciare nelle prossime ore importanti aperture democratiche e risposte univoche alla crisi che strozza i lavoratori salariati. Vediamo cosa succederà e vediamo la risposta che si darà il suo popolo. Ma non dismettiamo la capacità di analizzare e valutare le notizie che arrivano da quella parte del mondo come da altri paesi al netto delle operazioni di disinformazione che da sempre hanno caratterizzato le sporche manovre neocoloniali.

Infine una considerazione sulle possibili conseguenze di una Siria destabilizzata. E’ impensabile che quello che accade in Siria non abbia riflessi diretti sull’intero Medio Oriente e soprattutto sul Libano. Chi vuole mettere le mani su Damasco da anni ha cercato in tutti i modi di destabilizzare e di influenzare le politiche di Beirut. E mentre in Siria e in Libia si rende artificiosamente paladino dei diritti e della democrazia, in Libano sostiene una organizzazione dello stato a dir poco feudale, tutta basata sulle confessioni. Il popolo libanese sta vivendo anche lui una crisi durissima e il Partito comunista di quel paese è in prima linea a denunciare le politiche neoliberiste che governano l’economia libanese. Ma il Libano - non bisogna mai dimenticarlo - subisce come la Palestina e la stessa Siria una occupazione del proprio territorio da parte di Israele, stato che quotidianamente offende con incursioni aeree lo spazio nazionale libanese. Di questo ne sono al corrente tutti, ma nessuno dice e fa nulla. Nessuno invoca le Nazioni Unite.

Queste considerazioni non vogliono dare ricette o linee. Sono solo personali considerazioni che sottolineano la necessità di avvicinarsi a quanto accade in questi paesi con cautela e realmente senza pregiudizi. Occorre studiare, dotarsi di elementi per comprendere, solo poi potremmo giudicare e decidere da che parte stare.

Tratto da: Nena news 

di Rashid Khalidi *

Il cambiamento nella percezione degli arabi dimostra quanto superficiali e false fossero le immagini di questa regione mostrate dai media occidentali, che vedevano in despoti brutali e corrotti l’unica opzione per controllare degli "individui indesiderabili". Improvvisamente, essere un arabo è diventata una cosa positiva. Le persone in tutto il mondo arabo provano un senso d’orgoglio nel liberarsi di anni di timorosa passività sotto dittature che hanno regnato senza riguardo per la volontà del popolo. Essere arabo è diventato qualcosa di rispettabile anche in Occidente.

L’Egitto ora è visto come un luogo stimolante e progressista; espressioni di solidarietà al suo popolo sono accolte dai manifestanti a Madison, Wisconsin; e i suoi brillanti giovani attivisti sono visti come modelli per un nuovo tipo di mobilitazione del XXI secolo. Gli eventi nel mondo arabo sono trattati dai media occidentali più di quanto non abbiano mai fatto e sono discussi positivamente in una maniera che non ha precedenti. Prima, quando si parlava di qualcosa di musulmano o mediorientale o arabo, lo si faceva quasi sempre con una connotazione fortemente negativa. Ora, durante questa primavera araba, ciò non accade più. Un’area che era un modello di stagnazione politica è ora testimone di una rapida trasformazione che ha catturato l’attenzione del mondo.

Tre cose devono essere dette a proposito di questo cambiamento nella percezione degli arabi, musulmani e mediorientali. La prima è che ciò dimostra quanto superficiali e false fossero le immagini di questa regione mostrate dai media occidentali. Praticamente tutto ciò di cui sentivamo parlare erano gli onnipresenti terroristi e radicali barbuti e le loro donne velate che cercavano di imporre la Sharia, mentre i despoti brutali e corrotti erano l’unica opzione per controllare questi individui indesiderabili. Nei discorsi del governo americano, fedelmente ripetuti dai principali media, la maggior parte di quella corruzione e brutalità era spazzata via da termini menzogneri come “moderati” (cioè coloro che fanno e dicono ciò che vogliamo). Quel termine, e quello usato per denigrare i popoli della regione, “the Arab Street”, ora devono essere ritirati in modo definitivo.

La seconda caratteristica di questo cambiamento nella percezione è che essa è molto fragile. Anche se tutti i despoti arabi fossero abbattuti, vi è un enorme investimento nella visione “noi contro di loro” della regione. Questo include non solo gli interi imperi burocratici impegnati nella “guerra al terrorismo”, non solo le industrie che sovvenzionano questa guerra e le miriadi di collaboratori e consulenti tanto generosamente ricompensati per i loro servizi; include anche un vasto arcipelago ideologico di false competenze, con numerosi “esperti di terrorismo” profondamente impegnati a propagare questa caricatura del Medioriente.

Queste teste parlanti che passano per esperti hanno affermato senza sosta che i terroristi e gli islamisti sono l’unica cosa da cercare e vedere. Sono coloro che hanno sistematicamente insegnato agli americani a non vedere il vero mondo arabo: i sindacati, coloro che sono impegnati a favore dello Stato di diritto, i giovani interessati alla tecnologia, le femministe, gli artisti e gli intellettuali, coloro che hanno una ragionevole consapevolezza della cultura e dei valori occidentali, le persone comuni che vogliono semplicemente avere opportunità decenti e una voce in capitolo riguardo a come sono governati. Gli esperti ci hanno invece insegnato che questo era un popolo di fanatici, un popolo senza dignità, un popolo che si meritava i suoi terribili governanti appoggiati dall’America. Coloro che hanno potere e influenza e che hanno questa prospettiva quasi razzista non la cambieranno in fretta, se mai lo faranno; per averne una prova basta vedere quella vergogna che è Fox News.

Terzo, le cose possono facilmente e molto velocemente volgersi al peggio nel mondo arabo, e questo potrebbe rapidamente corrodere queste nuove percezioni. Niente finora è stato risolto in alcun paese arabo, nemmeno in Tunisia o Egitto, dove i despoti se ne sono andati ma una nuova trasformazione è a malapena cominciata. Questo è vero nonostante entrambi i paesi posseggano la maggior parte dei prerequisiti per un governo costituzionale, una democrazia matura, progresso economico e giustizia sociale come una forte società civile, una storia di organizzazione del lavoro, molti individui con un elevato livello di istruzione e alcune forti istituzioni. E nonostante il coraggio di coloro che sono stati picchiati, respinti con gas lacrimogeni e a cui è stato sparato, negli altri paesi arabi è cambiato ancora meno. Tutto questo può peggiorare, trasformarsi in guerra civile in Libia o Yemen, in una paralisi in Tunisia ed Egitto, o in contestazioni contro il potere senza fine e senza frutto in Bahrein, Giordania, Marocco, Oman, Iraq e altrove.

Mentre l’Occidente impara qualcosa di più su questa importante parte del mondo, ci sono ancora alcune verità da trasmettere. Una è che questa non è una regione inadatta alla democrazia, o che non ha tradizioni costituzionali o che ha sempre sofferto sotto governanti autocratici. Il Medioriente ha certamente sofferto di recente sotto una serie di regimi spaventosi. Ma questa è anche una regione dove i dibattiti su come limitare il potere dei governanti hanno portato al fervore costituzionale in Tunisia ed Egitto degli anni Settanta dell’Ottocento e alla creazione di una Costituzione nell’Impero Ottomano nel 1876. In quel periodo l’impero includeva non solo l’attuale Turchia ma la maggior parte del mondo arabo orientale, inclusi Siria e Iraq. Più tardi, nel 1906, in Iran fu istituito un regime costituzionale. Ancora dopo, nel periodo tra le due guerre mondiali e posteriore, i paesi semi-indipendenti e indipendenti della regione erano governati principalmente da regimi costituzionali.

Questi erano esperimenti difettosi che incontrarono grandi ostacoli nella forma di interessi radicati, la tendenza autocratica dei governanti, l’analfabetismo e la povertà delle masse. Tuttavia, i fallimenti nello stabilire regimi costituzionali e parlamentari non furono dovuti solamente a questi fattori. Questi governi erano sistematicamente minati dai grandi poteri imperialisti, le cui ambizioni e interessi erano spesso ostacolati dai parlamenti, dall’opinione pubblica nascente e da una stampa che insisteva sulla sovranità nazionale e su un’equa distribuzione delle risorse.

Dai poteri europei che minavano i governi costituzionali iraniano e ottomano all’inizio del XX secolo, all’interferenza dell’America in Siria e Libano e al suo rovesciamento del governo iraniano negli anni Cinquanta del Novecento, lo schema veniva continuamente ripetuto. I poteri occidentali non solo diedero poco appoggio - o non lo diedero affatto - a un governo democratico in Medioriente; spesso lo minarono attivamente, preferendo avere a che fare con autocrati sottomessi che eseguivano i loro ordini. In altre parole, l’appoggio occidentale a regimi dittatoriali facilmente manipolabili non è una novità.

Nelle ultime settimane è stato detto molto a proposito del potenziale di applicazione del “modello turco” nel mondo arabo. In effetti, la Turchia e i paesi arabi sono giunti alla loro comprensione della modernità - e con essa delle costituzioni, della democrazia, dei diritti umani, civili e politici - attraverso un comune passato tardo-ottomano. Questo periodo, dagli anni Sessanta dell’Ottocento al 1918, permise a questi popoli di comprendere questi concetti, nonostante i nazionalisti sia turchi che arabi abbiano fortemente negato qualsiasi impatto ottomano nei loro stati-nazione moderni.

Oggi la Turchia fornisce un modello di riconciliazione tra un potente establishment militare e la democrazia, e tra un sistema secolare e l’orientamento religioso di gran parte della popolazione. Offre anche un modello di successo economico, di una possibile sintesi culturale tra Oriente ed Occidente, e di influenza a livello mondiale. In tutti questi aspetti, è percepito come un modello più attraente di ciò che è largamente visto nel mondo arabo come un’alternativa fallita: il sistema teocratico iraniano che dura da 32 anni.

Gli Stati arabi hanno una lunga strada da percorrere per disfare il terribile lascito di repressione e stagnazione e muoversi verso la democrazia, lo stato di diritto, giustizia sociale e dignità, che sono state le richieste universali dei loro popoli durante questa primavera araba. Il termine “dignità” include due richieste: primo, per la dignità dell’individuo di fronte ai governanti che trattano i loro sudditi come esseri senza diritti e indegni persino di essere disprezzati. Ma c’è anche una richiesta di dignità collettiva di Stati orgogliosi come l’Egitto, e degli arabi come popolo. Questa era la richiesta dei leader nazionalisti quando arrivarono al potere a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, quando presero di mira il colonialismo e il neocolonialismo.

Dopo i fallimenti di quella generazione, i leader nazionalisti furono rimpiazzati da dittatori che fornirono la “stabilità” tanto cara all’Occidente, stabilità acquisita al prezzo della dignità individuale e collettiva. È questa umiliazione, davanti a governanti repressivi e di fronte al mondo esterno, che i dimostranti da Rabat a Manama cercano di eliminare. Finora si sono concentrati quasi interamente sulle cause dei loro problemi, che sono largamente interne. C’è stata poca o nessuna enfasi sulla politica estera, nessuno sentimento anti-occidentale visibile e poche menzioni a Israele e Palestina.

Sarebbe molto pericoloso ignorare questa richiesta di dignità collettiva, sia che si riferisca criticamente al modo paternalistico in cui gli Stati Uniti hanno finora trattato la regione, sia che si riferisca alla scarsa attenzione da essi dedicata alla convinzione  di molti arabi che i palestinesi non hanno avuto giustizia in passato e non la hanno tuttora. Se il popolo nel mondo arabo sarà fortunato a raggiungere transizioni democratiche, e potrà cominciare a confrontarsi con i profondi problemi che la società affronta, è fondamentale che un nuovo mondo arabo, nato dalla lotta per la libertà, la giustizia sociale e la dignità, sia trattato col rispetto che merita, e che per la prima volta sta cominciando a guadagnare.

Fonte: Nena news

*Rashid Khalidi è uno storico di origine palestinese, docente presso la Columbia University. E’ considerato l’erede di Edward Said, di cui ricopre la cattedra dopo la sua morte. In italiano sono pubblicati: La resurrezione dell’impero. L’America e l’avventura occidentale in Medio Oriente, Bollati-Boringheri, Torino, 2004; Identità palestinese. La costruzione di una moderna coscienza nazionale, Bollati- Boringheri, Torino, 2003.


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