di Fabio Merone
Tunisi. Incomincia ufficialmente l’attesissima campagna elettorale del paese che ha dato inizio alla “primavera araba”. Checché ne dicano gli egiziani, il modello di riferimento di riuscita del processo democratico resta la Tunisia. Certo é soltanto un test e gli esiti sono ancora incerti. Ma, nonostante gli intoppi e le contraddizioni, va lodato il popolo tunisino per aver condotto questo delicato processo fin dove siamo oggi: le elezioni di un’assemblea costituente. Facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire come si é arrivati fin qui.
Alla caduta del dittatore il 14 gennaio (sancita giuridicamente dall’articolo 57 della cost. che fa riferimento alla vacanza di potere definitiva del capo dello stato), il paese sarebbe potuto cadere in preda ad una deriva incontrollata. Venuto meno il sistema di potere, il rischio era grosso che crollassero le intere strutture dello Stato. Per evitare la messa in tutela di forze armate (come nel caso dell’Egitto), che dipendessero dal Ministero degli Interni o della difesa poco importa, ci voleva un processo di transizione democratica garantito da forze civili. Questa é stata la grande scommessa della borghesia liberale ed illuminata del paese.
Nasce da subito un altissimo dibattito giuridico che deve stabilire la nuova “legittimità rivoluzionaria” (é proprio questa l’espressione che viene usata!) e consegnare al paese delle strutture che le interpretino e lo sappiano traghettare verso un nuovo regime. Ma la borghesia “tunisoise” (di Tunisi cioè) da sola rischia di chiudersi nei suoi riflessi di classe e non si accorge che si sta affidando troppo ai vecchi oligarchi del regime deposto. Probabilmente in buona fede, si affidano agli “alti funzionari dello stato” (verrà giustificato il ricorso agli ex ministri di Ben Ali con il noto argomento che erano a loro volta vittime della dittatura), e non capiscono la spinta innovatrice delle nuove generazioni.
Da questa dialettica nasce l’invenzione della road map alla tunisina che consiste nel progetto di una assemblea costituente fondativa e della creazione “tout court” di una simil-assemblea parlamentare (l’Alto Ente per la realizzazione degli obiettivi della rivoluzione). Il nuovo governo di unità nazionale sancisce giuridicamente questo patto in nome del “consenso nazionale”, una formula che per i giuristi si sostituisce al consenso generalmente dato dagli elettori ai governanti. In conseguenza di questa nuova legittimità viene dichiarata decaduta la costituzione e sciolte le camere. Il partito unico verrà a sua volto dissolto per sentenza del tribunale di Tunisi.
Il miracolo di questa architettura istituzionale era stato possibile grazie all’inventiva dei ragazzi delle regioni dell’interno che avevano dato inizio a questo straordinario movimento che passerà alla storia con il nome di Casbah (I e II). La manifestazione dei 100.000 davanti la piazza del governo fece cadere l’ultimo governo residuo del vecchio regime ed impose la parole d’ordine della costituente.
Ma torniamo ad oggi. Dopo aver lodato e dato atto ad un processo di transizione ingegnoso e il più possibile garante delle nuove libertà, il nostro ruolo di osservatori ci impone un’attenzione maggiormente critica. Due le questioni su cui dobbiamo fermare la nostra criticità: 1. Il ritorno del riflesso securitario; 2. La debolezza della società civile.
Nessuno può negare che la Tunisia del dopo 14 Gennaio é stata una “esplosione di libertà”. Dopo le prime due settimane d’incertezza, in cui la gente é uscita per strada a difendere i propri quartieri contro forze oscure “contro-rivoluzionarie”, si é sfogato il rivendicazionismo di tutti i settori della società. Per dirla con una espressione felice della segretaria del PDP (Partito Democratico Progressista) Maya Jridi, “oggi nel paese chi non ha lavoro sciopera per avere un lavoro; chi ha un lavoro ma non ha una situazione contrattuale stabile lotta per la regolarizzazione della propria posizione; chi ha il lavoro, infine, occupa i luoghi di lavoro per un aumento salariale”.
Camminare per il centro di Tunisi in quei giorni era come attraversare un magma che sputava continui conati di rivolta. Davanti alle amministrazioni pubbliche ognuno aveva un suo “Ben Ali” (il proprio direttore o superiore) con cui regolare i conti. Per un nonnulla veniva dichiarato lo stato di agitazione all’urlo di “dégage!”.
Il sottoproletario delle città o spesso delle regioni interne che migravano per l’occasione verso le grandi città stendevano le loro bancarelle dappertutto, sentendosi autorizzati dal nuovo clima post-rivoluzionario. I netturbini hanno ingaggiato un braccio di ferro con le autorità municipali a Tunisi e la città ha assistito a scene da incubo, con cumuli di immondizia davanti le abitazioni.
Eppure l’euforia era tanta che ad ognuno veniva data la sua buona ragione. Finché il clima é cambiato! Prima timidamente e poi in maniera sempre più insistente si sono levate le voci a favore del “ripristino dell’ordine”. E’ stato un processo tutto sommato lungo, che é durato per mesi, e che ha raggiunto i suoi momenti di tensione quando a margine delle manifestazioni politiche si sono viste orde di ragazzini dalle facce inquietanti che si riversavono verso il centro e devastavano tutto. In più a ciò é incominciata ad aumentare in modo allarmante la micro-criminalità mentre di tanto in tanto si sentiva di anomale evasioni di prigionieri dai carceri della Repubblica.
E’ venuto poi, in successione, lo spauracchio islamista che, vero o presunto, ha dato la possibilità al primo ministro di dichiarare la Casbah e l’Av Bourghiba interdetta alle manifestazioni. Chi voleva manifestare, che lo facesse altrove! Dopo l’ultimo discorso del primo ministro di inizio settembre, che abbiamo ampiamente commentato, il paese, stanco e vessato dallo stato di agitazione permanente, ha accettato la riduzione di libertà e, obtorto collo, il ripristino del “ritorno all’ordine” di antica memoria.
Sarebbe semplicistico concludere che nulla é cambiato e siamo tornati al clima precedente il 14 gennaio (come qualcuno sussurra), ma va sottolineato che la forza di repressione della polizia si manifesta nelle ultime settimane, in molti casi, con l’usuale e brutale uso della violenza. Una piccola manifestazione improvvisata da familiari di vittime della polizia viene malamente sgomberata davanti al Ministero degli Interni. Una manifestazione dell’UDC (Unione dei Disoccupati Diplomati) davanti al Ministero dell’Istruzione viene repressa duramente e molti ragazzi verranno trasferiti all’ospedale in seguito ai colpi subiti. Ogni piccolo assembramento o tentativo di manifestare viene represso sul nascere e, ultimo in ordine ma forse il piuù grave di tutto, il ritorno della vecchia pratica delle “retate” dei ragazzi che non hanno fatto il militare.
In Tunisia il servizio militare é obbligatorio ma la maggior parte dei giovani lo evade senza che lo Stato sembra preoccuparsene. Era in uso durante l’epoca della dittatura, la minaccia del militare per tenere sotto scacco i giovani dei quartieri popolari. Periodicamente, quando il sistema di sicurezza dell’epoca riteneva che ci fosse un allarme di sicurezza, faceva queste enormi campagne di “recrutamento forzato” che si risolvevano in vere e proprie retate. Allora si spargeva il panico tra i ragazzi che rimanevano per giorni chiusi in casa. Si poteva essere fermati infatti in qualunque momento ed in qualunque luogo pubblico ma erano presi di mira soprattutto i caffé e gli autobus di linea. Si assistevano allora a queste scene inquietanti. Io stesso una volta mi trovai bloccato dentro un autobus che era stato “sequestrato” dalla polizia per far scendere tutti i ragazzi e controllare la loro situazione militare.
Insomma era un sistema insieme ad altri per tenere sotto pressione i ragazzi che il regime riteneva “a rischio”. Ebbene queste campagne di reclutamento sono ricominciate da qualche settimana al punto tale da spingere Hamma Hammamin, segretario del Partito Comunista, a indire una conferenza stampa nella quale denunciava il comportamento della polizia secondo lui “anomalo” proprio a ridosso della campagna elettorale e che avrebbe preso di mira molti dei militanti del suo partito e di partiti in opposizione radicale all’esecutivo.
Tuttavia sarebbe ingiusto e incompleto il ragionamento senza porsi la domanda. Ma dov’é la società civile? Dove sono i movimenti di contestazione? Dove sono i blogger e i collettivi delle regioni dell’interno? Non c’é dubbio che se sono falliti i molteplici tentativi di ricreare il movimento della Casbah non é solo per il comportamento duro della polizia. E’ venuta meno la spinta iniziale. In ciò ci possiamo vedere delle cause fisiologiche (il riflusso dopo le rivolte) ma anche delle deficienze croniche della società tunisina.
Da questo momento in poi l’analisi rischia di entrare in un campo minato in cui é facile attirarsi le critiche. Eppure mi sento di farlo, anche perché una tale analisi é indispensabile per cercare di spingere il processo in avanti. Per quanto sorprendente possa sembrare, dopo 9 mesi dal sollevamento di Sidi Bouzid, nulla di serio é stato scritto o detto sugli avvenimenti “rivoluzionari”. Eppure nel mio lavoro d’inchiesta ho sentito tante voci che hanno ben in chiaro alcune chiavi di lettura che interrogano la società dall’interno. Senza essere esaustivo mi piace ricordarne alcuni.
Le rivolte sono scoppiate nelle regioni interne ed hanno riguardato una categoria particolare della popolazione: la maggior parte della società é rimasta a guardare. Le rivolte hanno avuto successo nei paesi dell’interno grazie al meccanismo solidaristico della “famiglia-clan”. I ragazzi uscivano per strada perché sentivano che il sistema di protezione della famiglia allargata era più forte di quello dello stato. Intere collettività si sollevavano in nome della difesa del gruppo. Le rivolte urbane di Sousse, Sfax e soprattutto Tunisi, sono state provocate dalle reti migratorie degli abitanti delle stesse regioni. Ed infine, dentro le rivolte, c’erano e ci sono frange violente che appartengono alle organizzazioni degli ultrà degli stadi che da anni erano in guerra col regime (il campo di battaglia era lo stadio).
Sullo sfondo di queste rivolte che hanno letteralmente fatto impazzire il sistema di sicurezza del regime, c’era una spinta libertaria enorme che sebbene sia stata adottata immediatamente da tutti i corpi sociali, proveniva soprattutto dalle nuove generazioni. E i blogger (come i rapper) sono stati i migliori interpreti di questa spinta generazionale accompagnando ed assecondando i moti di rivolta. Questa premessa ci aiuta a capire quello che succede e, soprattutto, quello che non succede, dopo il 14 Gennaio.
Nei movimenti della Casbah si ritrova confusamente questa massa di “nuova generazione” che per la prima volta sta spalla a spalla in un movimento di piazza. I blogger erano stati fino a quel momento dietro agli schermi dei loro computer, mentre i ragazzi delle regioni dell’interno, arrivavano a Tunisi per la prima volta ed appartenevano ad una categoria sociale “estranea” alla capitale. Entrambi i gruppi sono spoliticizzati, ma sono uniti da una grande spinta di ribellione. Accanto ad essi s’incominciano a vedere i militanti del POCT (partito comunista) e del Nahdha (Partito islamista) insieme a quelli del CPR (Congresso per la Repubblica) di Moncef Marzouki. Contemporaneamente si tenta di organizzare dei “comitati di difesa della rivoluzione”. Dall’altra parte ci sono i partiti “storici” che semilegali o legali, ma con la museruola, esistevano già durante gli anni della dittatura. Sono loro che interpretano il ruolo di “partiti responsabili” difendendo i primi tentativi di formare il governo provvisorio.
Si crea dunque una prima spaccatura, tra quelli che stanno nella piazza e quelli che tentano di formare i governi. La cacciata del governo di Ghannouchi e il nuovo patto di consenso nazionale permette di assorbire una parte delle nuove forze nell’assemblea proto-parlamentare (l’Alto Ente per la realizzazione degli obiettivi della rivoluzione). Il famosissimo blogger Slim Ammamou accetta un incarico di prestigio come sottosegretario al Ministero della Gioventù ed un altro, altrettanto famoso, Sofiane Belhaj entra nell’assemblea. Incomincia a sfogarsi una prassi istituzionale democratica genuina che produce tra l’altro due fatti significativi come il modernissimo codice elettorale (che prevede tra l’altro la parità assoluta uomo donna nelle liste) e l’istituzione dell’Alto Ente per le elezioni, sottraendo per la prima volta nella storia la gestione del processo elettorale al Ministero degli Interni. Lo schema, con alcuni limiti, sembra funzionare e l’assemblea si fa eco dei grandi dibattiti che si scatenano in pubblico, spesso e volentieri in mezzo alla strada (l’Av Bourghiba diventa per mesi teatro di dibattiti spontanei tra folle di gente). Il più acceso tra i quali é quello sulla laicità.
Ma il presenzialismo dei vecchi partiti si fa mano a mano invadente e sottrae la scena ai “giovani” che si sentivano ed erano stati i protagonisti della spallata al regime. A tutti i livelli istituzionali, che siano partiti, sindacati e associazioni, di destra e di sinistra, progressiste o islamiste, i giovani fanno fatica a farsi spazio e regna una vera e propria gerontocrazia.
I giovani delle regioni interne dal canto loro misurano i risultati della rivoluzione in base al miglioramento o meno della loro condizione materiale. Così scoppia la crisi di Lampedusa e molti di quelli che avevano fatto le rivolte per cacciare Ben Ali s’imbarcano sulla rotta del canale di Sicilia. Mentre Tunisi e le città della costa si scatenano e si organizzano in partiti vecchi e nuovi, le regioni dell’interno faticano a rappresentarsi nella nuova realtà, ed in più di una circostanza scoppiano delle tensioni che sfociano in violenze che ricordano lo spirito di clan più che la lotta politica. Gli avvenimenti di Metlaoui, nel mese di maggio, scioccano l’opinione pubblica e si rispolvera il vocabolario politico riesumando una parola antica ufficialmente cancellata dal dibattito pubblico: 3arushya (e cioè appartenenza ad una 3arusha, famiglia allargata o clan).
I giovani di Sidi Bouzid e Kasserine sono arrabbiatissimi e puntualmente vengono cacciati i partiti politici che vengono accusati di appropriarsi della “loro rivoluzione”. Ma intanto loro stessi stentano a trovare forme di organizzazioni nuove. La società comincia a guardarsi in faccia e si riscopre senza un tessuto sociale e politico. L’unico meccanismo di appartenenza che funziona é la famiglia. Soprattutto a livello locale é evidente ma non sono esenti da questo meccanismo neanche le grandi associazioni storiche di Tunisi in cui le grandi famiglie, fossero esse di intellettuali rispettati, si riproducono all’interno dello stesso gruppo.
Le organizzazioni politiche che maggiormente riescono a rompere questo schema sono i partiti e movimenti di estrema sinistra e d’ispirazione islamista. Ma il Poct, che é l’attore più importante dell’estrema sinistra, che pure avrebbe alcune carte in mano da giocarsi, con una base giovanile notevole rispetto a tutti gli altri partiti, fallisce il congresso di luglio e riconferma la linea “staliniana” senza dare prova allo stesso tempo di affidare le strutture dirigenti ad un cambio generazionale. Il carismatico Hammami si trova stretto tra l’accusa di “mul7ed” (ateo) e quella di “settario”. Limitando perciò al massimo la sua capacità di allargarsi a nuove fasce di popolazione. Gli islamisti propongono, storicamente, alle società tradizionali un modello di coesione alternativo. Ma ad essi si oppongono i “modernisti”, rigettati a loro volta per il loro appartenere all’elite borghese delle grandi città.
Ci sono poi i tentativi di alcuni partiti di centro-sinistra di proporsi come alternativa al Nahdha (partito islamista), ma lo fanno al prezzo di perdere qualunque orientamento ideologico e sembrano imbarcare nel loro progetto un po’ chiunque, soprattutto grossi uomini d’affari ed ex RCD. Storto o morto i partiti cercano di fare la loro parte e chi può apre sezioni locali in tutte le regioni del paese. Ma la maggior parte delle persone resta fuori da questo processo e la campagna per l’iscrizione nelle liste elettorali é uno schiaffo forte a chi aveva creduto che il processo si potesse risolvere soltanto creando partiti e associazioni sulla carta. E’ un campanello d’allarme, non si riesce a coinvolgere la massa delle persone nel processo democratico. Qualcuno incomincia ad accusare un processo di transizione troppo lungo e si diffonde nella società un senso di stanchezza. La passione si stempera e s’incominciano a sentire per strada tra la gente la cantilena: “Non é cambiato niente”.
La società si trascina stancamente in questa transizione mentre il governo fa la voce grossa e nel silenzio-assenzo della società la polizia ritorna a fare il suo mestiere alla vecchia maniera. I “giovani della rivoluzione”, quelli di facebook e dei blog, incominciano a fare le loro campagne denunciando il riorganizzarsi del veccio blocco di potere ai vertici dello stato. Rajhi, ex ministro silurato da Caied Essebsi, e Samir Feryani, ex ufficile dei servizi segreti, arrestato per aver denunciato le responsabilita di alcuni colleghi nel ministero degli Interni, diventano i loro simboli. Tentano in più occasioni di rilanciare la mobilitazione, ma falliscono clamorosamente. Su facebook circoleranno in più di un’occasione annunci di manifestazioni che non si svolgeranno mai.
Nasce la corrente di quelli che vogliono boicottare le elezioni finchè con un bell’intervento che circola nei blog si fa sentire Azyz Ammami, un’altro dei blogger della rivoluzione, che si schiera a favore del sostegno a liste indipendenti, in cui siano il più possibile rappresentati volti nuovi e credibili. Si crea per un certo momento la sensazione che possa crearsi un’all’alleanza tra i blogger ed i collettivi locali. Ma nulla di tutto ciò avviene. Alcuni blogger si candidano, ma si ha l’impressione che molte forze vive si tengano in disparte e appaiono al loro posto “parvenue” di ogni genere e opportunisti dell’ultima ora che mettono in campo le loro reti familistico-clientelari. Le liste degli indipendenti saranno alla fine circa il 40 per cento del totale, in sè una forza politica. Ma é chiaro che una lista si presenta come indipendente per diverse ragioni. A volte sono gli stessi partiti che piazzano i loro uomini perché ritengono che in alcune realtà locali riescano più facilmente a penetrare con questa strategia.
Insomma. Tra qualche ora si apre ufficialmente la campagna elettorale. Il primo vero confronto politico dall’inizio della “primavera araba”. La rivoluzione tunisina ha messo in moto nuove energie, ma non ha prodotto l’entrata in scena di una nuova generazione. Non esiste ad oggi un progetto di società diverso da quello antico. Che é la realizzazione della modernità e dello sviluppo economico. Questo processo passa attraverso la costruzione di una società civile e probabilmente di una rivoluzione culturale.
La Tunisia da oggi fa il primo passo e tutti gli scenari sono ancora possibili. Con l’inizio della campagna elettorale ufficiale il dibattito potrebbe alzarsi di un tono, e la popolazione appropriarsi un poco di più dello strumento elettorale. Ma probabilmente la società é ancora in fase di studio. Ci si osserva con attenzione. Gli attori sociali sono diffidenti. C’é chi ha paura degli islamisti e chi della strategia della tensione che usi gli islamisti come capro espiatorio. Le popolazioni dell’interno hanno il complesso storico di riuscire nelle rivoluzioni ma di fallire nell’appropriazione del potere politico. Si diffida dei partiti perché prevale la logica sociale del sospetto. Ciascuno vede nell’altro un progetto nascosto, un interesse personale o di gruppo non dichiarato. Altri aspettano per capire l’indomani delle elezioni, quali saranno i veri rapporti di forza. E stanno a guardare. Le elezioni del 23 ottobre in fondo non decreteranno la fine del processo di transizione, ma solo il suo debutto ufficiale.