Con la vittoria nelle presidenziali praticamente in tasca, Joe Biden e i leader del Partito Democratico stanno mandando i primi chiarissimi segnali circa gli orientamenti che la nuova amministrazione intenderà tenere una volta superata la resistenza e le cause legali minacciate da Donald Trump. Se il fatto di avere limitato la presenza di quest’ultimo alla Casa Bianca a un solo mandato è di per sé motivo di esultanza, l’avvicendamento con l’ex vice di Obama comporta una serie di altre problematiche, in alcuni casi non necessariamente meno inquietanti, visto anche che la nuova amministrazione democratica sarà in linea generale solo leggermente meno spostata a destra di quella repubblicana uscente.

Per la prima volta dal 1992, un presidente in carica non viene rieletto per il secondo mandato. Soprattutto, per la prima volta, più che generare attese per chi arriva, produce sospiri di sollievo ed allegria per la cacciata di chi c’era. Perché? Perché quella di Biden non é una vittoria che prelude ad un cambiamento di sostanza. Dal punto di vista dello stile di governo è evidente come Biden disponga di una educazione formale ed una cultura politica che lo differenzia anni luce dal cafone testè sfrattato ed anche sotto il profilo comportamentale appare difficile assimilarli. Improbabile sentire Biden che definisce shithole i paesi del sud del mondo, che propone di usare armi nucleari contro un tifone o candeggina contro il Covid; questo almeno ci verrà risparmiato.

Ma se sul piano estetico la differenza sarà evidente, così non sarà nella sostanza delle scelte di fondo. Ambedue sono convinti sostenitori del modello e strenui difensori dell’eccezionalismo statunitense, che altro non è se non l’interpretazione giustificativa dell’imperialismo. Entrambi ritengono che la finanza debba essere la leva centrale del sistema economico e che le banche debbano recitare il ruolo di direzione tecnico-politica delle politiche fiscali. Entrambi accettano che siano le grandi corporation a indicare la barra delle politiche socioeconomiche ed entrambi credono che il ruolo dello Stato debba ridursi a quello di un corpo intermedio che si colloca tra i cittadini e i poteri forti, con i primi nel ruolo di vittime e i secondi in quello di carnefici.

Dopo quasi due giorni dalla chiusura delle urne, gli Stati Uniti non conoscono ancora il nome del prossimo presidente, anche se l’evoluzione dei conteggi negli stati in bilico sembra avvicinare un esito favorevole al candidato democratico Joe Biden. Con l’attribuzione dei successi in Michigan, Wisconsin e, molto probabilmente, Arizona, all’ex vice-presidente mancano ora solo pochissimi “voti elettorali” per raggiungere quota 270 e assicurarsi la Casa Bianca. A far persistere un certo senso di incertezza è tuttavia la strategia del presidente Trump per cercare di restare al suo posto, affidata per il momento a una serie di cause legali che, nella peggiore delle ipotesi, minacciano di precipitare l’America in una gravissima crisi istituzionale.

L’ondata democratica che la maggior parte dei media e dei sondaggi ufficiali negli Stati Uniti aveva previsto nelle settimane precedenti le elezioni presidenziali non solo non si è presentata nella giornata di martedì, ma l’ex vice-presidente Joe Biden rischia di incassare una clamorosa sconfitta e di consegnare un inquietante secondo mandato a Donald Trump. Tutto dipenderà da una manciata di stati ex industriali del “Midwest”, dove il presidente repubblicano ha al momento un certo vantaggio che potrebbe però svanire una volta contati i moltissimi voti arrivati per posta. Nonostante il tentativo di Trump di dichiararsi vincitore già nella mattinata di mercoledì, il risultato finale potrebbe essere noto solo tra svariati giorni, sempre che a decidere il nome del prossimo presidente non siano, come nel 2000, i tribunali americani.

La sospensione dal Partito Laburista britannico dell’ex numero uno Jeremy Corbyn la scorsa settimana ha scatenato una guerra interna che sta mettendo di fronte le centinaia di migliaia di iscritti, in gran parte di orientamento progressista se non apertamente socialista, alla nuova leadership erede di Tony Blair. L’operazione in atto contro Corbyn non è niente di meno di una resa dei conti contro tutta la sinistra del partito, basata su un’odiosa e cinica caccia alle streghe. Quello che sta accadendo è cioè il tentativo di attribuire alla sinistra del “Labour” un’attitudine irrimediabilmente anti-semita o, quanto meno, un disinteresse da parte dei suoi dirigenti verso un fenomeno che appare, tutt’al più, di proporzioni a dir poco trascurabili.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy