Human Rights Watch (HRW) è stata questa settimana l’ultima organizzazione a difesa dei diritti umani a definire quello imposto da Israele alla popolazione palestinese un regime di apartheid. Il durissimo giudizio della ONG con sede a New York ha sollevato come previsto un polverone, ma la definizione appare ineccepibile ai termini del diritto internazionale e descrive oggettivamente la realtà creata dall’unica presunta democrazia in Medio Oriente. Soprattutto, il rapporto di HRW demolisce ancora una volta la menzogna della natura “temporanea” delle restrizioni, delle discriminazioni e dei crimini in generale commessi quotidianamente contro i palestinesi da Israele nel nome della “sicurezza” e della lotta al “terrorismo”.

Nei giorni scorsi, l’Australia è diventata il primo paese a cancellare ufficialmente degli accordi stipulati con la Cina nell’ambito del piano di investimenti lanciato da Pechino e noto col nome di “Belt and Road Initiative” (BRI) o “Nuova Via della Seta”. Ci sono pochi dubbi che dietro alla decisione del governo di Canberra ci sia l’amministrazione Biden. Con la regia di Washington, la classe dirigente australiana si sta infatti allineando sempre più alla campagna anti-cinese promossa da Washington, col rischio, da un lato, di mettere a repentaglio i rapporti con quello che resta il proprio principale partner commerciale e dall’altro di ritrovarsi implicata in un conflitto rovinoso combattuto in Asia sud-orientale.

Al consumatore medio di notizie di politica estera il nome del presidente del Ciad, Idriss Déby, dice probabilmente poco o nulla. Lo stesso paese del Sahel africano trova di rado un qualche spazio sui principali media in Occidente. La morte improvvisa e inaspettata dell’uomo forte di N’Djamena nella giornata di martedì rappresenta però un evento di estremo rilievo. Un decesso potenzialmente in grado di destabilizzare ancora di più una regione già messa in crisi dall’intervento militare delle potenze straniere che avevano orchestrato il caos in Libia, a cominciare dalla Francia, dei cui interessi strategici Déby è stato per tre decenni il fidatissimo protettore.

Gli eventi di queste settimane sull’asse Mosca-Washington hanno evidenziato un atteggiamento a tratti contraddittorio dell’amministrazione Biden che, se pure si inserisce in un’inclinazione ancora decisamente aggressiva nei confronti della Russia, lascia intravedere quanto meno l’esistenza di un certo grado di conflitto sugli orientamenti strategici all’interno dell’apparato di governo americano. I segnali di un possibile ripensamento delle politiche ferocemente anti-russe restano in ogni caso sullo sfondo, mentre sembrano moltiplicarsi i fronti di attacco contro Putin e il Cremlino, a dimostrazione dell’influenza che continuano a esercitare i “falchi” dell’establishment a stelle e strisce sul presidente democratico.

Come annunciato 10 anni fa, quando assunse il ruolo che fu di Fidel, il Generale Raul Castro ha presentato all’ottavo Congresso del Partito Comunista di Cuba le sue dimissioni da ogni incarico dirigente. Le dimissioni di Raul arrivano in una data simbolicamente importante, giacché coincidono con la proclamazione del carattere socialista della Rivoluzione e con la vittoria contro l’invasione mercenaria ordita dalla CIA alla Baia dei Porci di 60 anni fa.

Ricorrenze che ben si attagliano alla storia politica di Raul e persino al tratto personale di un dirigente che è sempre apparso come poco incline all’istrionismo ma dotato di grande convinzione ideologica, notevole equilibrio e assoluta determinazione nel portare a compimento le missioni assegnategli.


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