A leggere i giornali o i servizi televisivi sul caos che si sta scatenando in queste ore in Afghanistan, ritroviamo solo sorpresa e sgomento per quella che sembra essere una inspiegabile giravolta - alcuni lo chiamano addirittura tradimento - degli USA nei confronti del destino del povero popolo afgano.

I commentatori, sembrano essersi completamente dimenticati degli accordi di Doha: un accordo – ma con la sostanza di un vero e proprio trattato internazionale - tra gli USA e i Talebani la cui denominazione ufficiale è “Accordi per portare la pace in Afghanistan tra l’Emirato Islamico dell’Afghanistan che non è riconosciuto come Stato dagli USA - anche conosciuti come Talebani - e gli USA”  firmato a Doha il 29 Febbraio 2020.

A sentire i media tradizionali, sembra che i talebani abbiano recuperato buona parte dell’Afghanistan - compresa Kabul - con l’uso della forza. Leggiamo e ascoltiamo termini come “riconquista”, “città caduta”, “avanzata”, ma sono fuorvianti. E anche i paragoni con il Vietnam convincono poco, perché se la ritirata Usa da Saigon fu una tragedia, quella dall’Afghanistan è molto più simile a una farsa. In realtà, la guerra di cui parliamo da giorni non esiste: i talebani si sono ripresi una sfilza di città in una manciata giorni senza combattere, semplicemente perché di fronte a loro non hanno incontrato alcuna resistenza.

Un timidissimo spiraglio è sembrato essersi aperto nei giorni scorsi per una possibile ripresa del processo diplomatico nella penisola di Corea. Dopo mesi di gelo, Seoul e Pyongyang hanno concordato la riattivazione di una linea di comunicazione diretta che era stata soppressa enfaticamente lo scorso anno dal regime di Kim Jong-un. Qualche segnale di un ritorno al dialogo era in realtà emerso già nelle settimane precedenti, ma l’iniziativa congiunta di martedì rappresenta il primo passo concreto in questa direzione e offre la possibilità all’amministrazione Biden di riprendere le fila del negoziato dopo il crollo delle speranze alimentate dagli storici incontri tra Kim e Donald Trump.

L’incontro di questa settimana alla Casa Bianca tra il presidente americano Biden e il primo ministro iracheno, Mustafa al-Kadhimi, avrebbe dovuto segnare un punto di svolta nell’impegno degli Stati Uniti nel paese mediorientale. I due leader hanno infatti annunciato la fine della “missione di combattimento” USA entro il prossimo dicembre. Il numero di soldati e “contractor” sul campo resterà tuttavia quasi certamente invariato. L’utilità del faccia a faccia e della decisione presa in apparenza di comune accordo sembra essere perciò trascurabile, ma risponde alle esigenze strategiche di Washington e Baghdad, nonché ai calcoli politici immediati delle rispettive amministrazioni.

Nel fine settimana, la Tunisia è precipitata nella più grave crisi politica dai tempi della “Primavera Araba” e del movimento popolare che provocò il rovesciamento del regime di Ben Ali nel 2011. Le tensioni che attraversavano da mesi il paese nordafricano sono esplose dopo l’intervento nella serata di domenica del presidente, Kais Saied, che ha di fatto assunto i pieni poteri, sospendendo il parlamento e liquidando il primo ministro, Hicham Mechichi.


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