La firma nel fine settimana del più importante trattato di libero scambio del pianeta rappresenta potenzialmente un successo cruciale della Cina nel confronto con gli Stati Uniti per imporre la propria influenza nel continente asiatico. L’accordo commerciale noto come “Regional Comprehensive Economic Partnership” (RCEP) è il risultato di quasi dieci anni di trattative che hanno visto proprio Pechino come protagonista principale. A risultare determinante per mandare in porto il trattato sono state in primo luogo le fallimentari decisioni in ambito commerciale e strategico di Washington sotto la guida dell’amministrazione Trump, tanto che a far parte del nuovo spazio creato dal RCEP saranno anche alcuni storici alleati americani in Estremo Oriente.

Il Perù ha un nuovo presidente, il quarto in due anni. Si tratta di Francisco Sagasti, del Partido Morado (centro-destra), che prende il posto del dimissionario Manuel Merino, travolto dalla contestazione di piazza. L’ingeniere, industriale ed ex dirigente della Banca Mondiale, è stato eletto con 97 voti a favore e 26 contrari e domani assumerà l'incarico rimasto vacante. Domenica scorsa, dopo una settimana di proteste, il paese andino si era risvegliato piangendo i suoi primi morti. Due ragazzi, Inti Sotelo Camargo di 24 anni e Bryan Pintado Sánchez di 22 anni, sono caduti sotto i colpi della polizia. Più di un centinaio i feriti, alcuni gravi, e almeno venti le persone di cui non si hanno più notizie.
Dopo essere stato abbandonato dalla maggior parte de suoi ministri e dovendo affrontare l’opposizione del suo stesso partito (Acción Popular) e il clamore per la violenza che si è scatenata contro i manifestanti, Manuel Merino ha rinunciato alla presidenza del Perù.

È durata quindi meno di una settimana la sua esperienza alla testa di un governo fantoccio, nato lo scorso 9 novembre dopo che 105 dei 130 deputati avevano destituito il presidente Martín Vizcarra e lo avevano sostituito, come prevede la costituzione peruviana, con il presidente del parlamento.

Per disfarsi di Vizcarra si sono appellati all’articolo 113 della Costituzione, che permette di adottare una misura così drastica in caso di "incapacità morale o fisica permanente" del presidente. Vizcarra è infatti indagato per la presunta partecipazione a un grosso giro di tangenti quando era governatore di Moquegua. Un sistema di corruzione ben oliato, attraverso il quale le più importanti imprese di costruzioni – tra cui la tristemente famosa società brasiliana Odebrecht, coinvolta in scandali simili in quasi tutta l’America latina – si spartivano le opere pubbliche mediante gare d’appalto truccate e dietro il pagamento di robuste bustarelle.

Che cosa però significhi “incapacità morale” non è solo un elemento di discussione tra le forze politiche presenti in parlamento, ma fa anche parte di un ricorso presentato lo scorso anno dallo stesso Vizcarra ai magistrati del Tribunale Costituzionale, i quali hanno ancora tempo fino al 18 novembre per darne un’interpretazione giuridica, legittimando o meno la destituzione dell’ex presidente.

In quell’occasione, di fronte al rifiuto della maggioranza parlamentare – in mano alle destre – di approvare riforme costituzionali, Vizcarra aveva sciolto il massimo organo legislativo e convocato nuove elezioni. Come risposta i deputati lo avevano destituito, ma il ricorso presentato al Tribunale Costituzionale aveva sospeso l’atto.


Un presidente illegittimo

Il nuovo colpo di mano da parte dei deputati è quindi stato catalogato dalla popolazione come un “colpo di stato parlamentare” e Merino si è trasformato, d’immediato, nel principale bersaglio delle proteste che sono esplose un po’ in tutto il paese. Una crisi politica ed istituzionale che si sovrappone a quella sanitaria che ha devastato la nazione andina a partire da marzo. Il Perù è tra i paesi latinoamericani maggiormente colpiti dalla pandemia, con 933 mila casi e più di 35 mila morti, un sistema sanitario al collasso e una crisi economica che ha ampliato ulteriormente le già enormi sacche di povertà.

La corruzione ha inoltre contraddistinto gli ultimi 30 anni della vita politica peruviana. Tutti i presidenti che si sono succeduti dal 1990 a oggi, da Alberto Fujimori a Alejandro Toledo, passando per Alan García e Ollanta Humala, fino ad arrivare a Pedro Pablo Kuczynski, sostituito dopo meno di due anni da Martín Vizcarra, sono stati coinvolti e indagati per gravi atti di corruzione. A questo si aggiunge un sempre meno sostenibile sistema istituzionale che, oltre a basarsi sulla corruzione, si fonda su una specie di 'presidenzialismo parlamentare', con l’elezione diretta del presidente che assume il controllo dell’azione di governo, ma con un parlamento che gode di ampi poteri che, di fatto, ne limitano la capacità. Un referendum promosso dallo stesso Vizcarra ha poi introdotto il divieto di rielezione consecutiva per i deputati, creando maggiore discontinuità e rendendo ancora più difficile consolidare una maggioranza che sostenga i piani di governo.

Dopo un primo tentativo fallito in cui il Frente Amplio (sinistra) aveva presentato una lista di candidati che avevano votato contro l’impeachment di Vizcarra, il parlamento si è riunito nuovamente questo lunedì e ha eletto la nuova giunta direttiva, il cui presidente, Francisco Sagasti appunto, ha assunto automaticamente la carica ad interim rimasta vacante dopo la rinuncia di Merino.

Sembra quindi che la destra peruviana e i gruppi di potere economico che controllano ancora il parlamento, non abbiano capito o non vogliano ascoltare le voci che arrivano dalla piazza. Un atteggiamento pericoloso, che potrebbe incendiare ulteriormente il paese e innescare una crisi ancora più profonda e dagli esiti incerti. Inutili e contraddittori sono quindi apparse le dichiarazioni di voto dei deputati della destra peruviana, che hanno giustificato la loro decisione con la necessità di portare stabilità e pace a un paese in piena convulsione sociale.

 

Costituente?

Chi protesta, o almeno la maggior parte della gente che è scesa in piazza, non lo fa perché apprezza Vizcarra e ne chiede il ritorno, né per garantire che il Perù possa arrivare al voto il prossimo aprile per eleggere il quinto presidente negli ultimi due anni, bensí per dire basta a un sistema politico-istituzionale corrotto, iniquo e incapace di generare stabilità e garantire i diritti della popolazione. L’appello della piazza ai deputati è stato infatti quello di nominare un governo di transizione per traghettare il paese verso una assamblea costituente, per la redazione di una nuova Constituzione e la creazione di  un nuovo patto sociale che contempli anche l’eradicazione della corruzione.

A questo proposito, la Confederazione generale dei lavoratori del Perù (Cgtp) ha pubblicato un comunicato che accompagna l’annuncio di uno sciopero generale per il prossimo 18 novembre, in cui non riconosce la legittimità dei poteri costituiti. “Se, come dice l'articolo 45 della Costituzione, il potere dello Stato emana dal popolo, esigiamo la nomina di un governo provvisorio con participazione popolare, che convochi immediatamente un’assamblea costituente”, segnala.
In pratica una soluzione simile a quella cilena dopo l’ondata di proteste popolari dello scorso anno e la vittoria nel plebiscito del 25 ottobre.

Una soluzione che comunque non sembra godere dell’approvazione degli Stati Uniti, nè di quella dell’Organizzazione degli stati americani (Osa), che in questi giorni di convulsione sociale hanno mostrato grande cautela al momento si esprimere pareri su quanto stava accadendo, limitandosi a ribadire con forza la necessità di garantire lo svolgimento delle elezioni in aprile 2021. Lo stesso silenzio che ha contraddistinto una Unione Europea sempre più ruota di scorta degli Stati Uniti e un sempre più screditato Gruppo di Lima.

Usare lo strumento elettorale per dare un bel colpo di spugna e ristabilire lo status quo è una prassi molto spesso usata sia dalle autorità statunitensi che dall’organismo multilaterale americano. Troppi sono gli interessi che gli Usa hanno in Perù, a partire dai porti che da anni sono diventati centri operativi per la VI Flotta della US Navy, fino ad arrivare alla moltiplicazione delle basi militari e delle truppe statunitensi in territorio peruviano, nonché alle sempre più frequenti manovre militari congiunte e all’addestramento degli apparati di intelligence e di difesa.

Non è quindi un caso che il Perù abbia sostenuto sistematicamente le campagne d’intromissione e ingerenza lanciate dall’Osa, su mandato degli Stati Uniti, contro quei governi che non seguono pedissequamente gli ordini di Washingtoni. Non lo è nemmeno il fatto che il Perù sia tra i paesi che per primi hanno riconosciuto Juan Guaidó come presidente del Venezuela e che abbiano votato a favore di tutte le risoluzioni e sanzioni approvate conro contro Cuba, il Nicaragua e il Venezuela.

L’unica possibilità per rompere questo status quo malato sembra essere, ancora una volta, la piazza. Nella misura in cui si mantenga e si aumenti l’intensità della protesta, aumenterà la possibilità di mettere in crisi un sistema politico-istituzionale obsoleto, malato e corrotto. Il Cile insegna.

Una delle questioni di politica estera più delicate che il presidente-eletto Joe Biden si troverà ad affrontare una volta entrato alla Casa Bianca è la gestione dei rapporti con l’Iran e il possibile rientro degli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare del 2015 (JCPOA). L’ex vice di Obama qualche settimana fa aveva lasciato intendere di volere offrire alla Repubblica Islamica un percorso diplomatico per abbassare le tensioni, ma le condizioni che potrebbero essere chieste in cambio e le stesse disastrose iniziative adottate finora dall’amministrazione Trump rischiano di mettere in dubbio da subito le prospettive di un eventuale negoziato.

Il presidente uscente ha anzi promesso di moltiplicare le sanzioni punitive contro l’Iran durante le settimane che mancano al suo addio alla presidenza. L’accumularsi di misure punitive renderebbe difficile un piano di de-escalation dell’amministrazione entrante. L’intensificazione delle pressioni su Teheran da parte di Trump potrebbe essere poi addirittura una strategia deliberata per far precipitare la situazione, così da creare a tavolino un casus belli e un’emergenza nazionale in supporto dei piani per restare alla Casa Bianca nonostante la sconfitta elettorale.

Il riferimento principale delle intenzioni di Biden è per ora l’editoriale scritto a settembre per il sito della CNN nel quale affermava appunto di volere “offrire a Teheran un percorso realistico per tornare al tavolo della diplomazia”. Per Biden, “se l’Iran tornasse al rispetto rigoroso dell’accordo sul nucleare”, gli Stati Uniti rientrerebbero a loro volta nel JCPOA e ciò rappresenterebbe “il punto di partenza per successivi negoziati”. Infine, gli USA e i loro alleati “lavoreranno per rafforzare ed estendere le clausole dell’accordo” e, con una notazione forse cruciale, si adopereranno per includere nelle discussioni “altri argomenti che sollevano preoccupazioni”.

Com’è noto, il presidente Trump era uscito arbitrariamente e unilateralmente dal JCPOA nel maggio del 2018 al termine di una campagna di discredito dell’accordo sottoscritto da Obama, nonostante anche la sua amministrazione avesse sempre certificato il rispetto di esso da parte della Repubblica Islamica. Da allora, gli Stati Uniti hanno reintrodotto le sanzioni sospese dal JCPOA e ne hanno imposte molte altre, incluse le famigerate sanzioni “secondarie” che colpiscono governi e soggetti privati di altri paesi intenzionati a intrattenere rapporti economici, finanziari e commerciali con l’Iran.

Gli altri argomenti a cui ha fatto riferimento Biden nella sua dichiarazione d’intenti sull’Iran si riferiscono quasi certamente alle “attività” di Teheran nella regione mediorientale, vale a dire l’alleanza con l’arco della “resistenza” sciita, e il programma dei missili balistici. Entrambe le questioni sono sempre state al centro anche dell’interesse dell’amministrazione Trump, ma rappresentano dei punti fermi che l’Iran non intende discutere, sia perché nulla hanno a che vedere con il nucleare e il JCPOA sia perché vanno a toccare il cuore degli interessi strategici del paese.

Se Biden e la sua futura squadra al dipartimento di Stato dovessero insistere nell’inclusione di questi elementi in un piano di rientro nell’accordo di Vienna, le possibilità di successo sarebbero nulle, anche perché una simile decisione mostrerebbe una sostanziale identità di vedute sull’Iran tra l’amministrazione repubblicana uscente e quella democratica entrante.

L’altra questione da valutare è quanto sarà disposto a concedere il presidente-eletto e fino a che punto chiederà a Teheran di rientrare nei parametri previsti dal JCPOA. Il presidente iraniano, Hassan Rouhani, domenica scorsa ha chiesto agli Stati Uniti di “risarcire” il suo paese per gli errori commessi da Trump, lasciando intendere che i danni provocati dalle sanzioni dovranno essere in qualche modo ripagati prima che la Repubblica Islamica torni al rispetto integrale delle norme dell’accordo sul nucleare.

Gli USA dovrebbero poi cancellare tutte le misure punitive imposte negli ultimi due anni, ma è difficile credere che Biden voglia liquidare un apparato sanzionatorio di tali dimensioni che, almeno in teoria, potrebbe costituire una leva per cercare di ottenere concessioni da Teheran. Soprattutto la galassia “neo-con” americana preme già sul presidente-eletto per utilizzare questo strumento e convincerlo a non sprecare quanto fatto da Trump.

Numerosi “falchi” della politica estera americana avevano d’altra parte appoggiato apertamente Biden in campagna elettorale, nonostante l’affiliazione al Partito Repubblicano, e l’eventuale scelta di personalità democratiche come Susan Rice o Anthony Blinken per la gestione degli affari internazionali nella prossima amministrazione porterebbe a una convergenza “bipartisan” su una condotta nei confronti dell’Iran non molto diversa da quella di Trump.

L’insistenza ad esempio sul superamento da parte iraniana dei limiti alla produzione di uranio arricchito previsti dal JCPOA serve a dare un’impressione distorta delle responsabilità per il riesplodere della crisi diplomatica. Proprio mercoledì, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha pubblicato l’ultimo rapporto sullo stato del programma nucleare dell’Iran, in seguito alla visita più recente dei suoi ispettori nelle installazioni del paese mediorientale, come previsto dall’accordo di Vienna. Nel rapporto viene spiegato come Teheran abbia oggi accumulato una quantità di uranio a basso livello di arricchimento dodici volte superiore a quello consentito dal JCPOA. La “purezza” di questo materiale raggiunge inoltre il 4,5%, cioè più del 3,67% permesso dall’accordo, anche se di molto inferiore al livello necessario per l’utilizzo in ambito militare.

A giudicare da come la stampa ufficiale ha trattato la notizia, si ha quasi sempre l’impressione che l’Iran abbia irresponsabilmente ripreso l’attività di arricchimento senza limiti e, in maniera velata, che si stia precipitando verso la bomba atomica. In realtà, al di là del fatto che l’applicazione militare è totalmente da escludere, le autorità di Teheran si sono mosse al di fuori dei limiti del JCPOA solo dopo che gli Stati Uniti hanno abbandonato il trattato stesso.

Anzi, prima di prendere questa decisione, prevista oltretutto dal JCPOA, l’Iran ha anche atteso a lungo che i paesi europei firmatari (Francia, Gran Bretagna, Germania) mettessero assieme il meccanismo promesso per bypassare le sanzioni americane e tenere in vita l’accordo. Una volta constatata l’impotenza europea, la Repubblica Islamica ha legittimamente valutato che il rispetto integrale del JCPOA non offriva più alcun vantaggio e ha riavviato il processo di arricchimento secondo i propri piani, sia pure continuando a garantire agli ispettori il totale accesso ai propri impianti.

Oltre a questi fattori, sarà da considerare anche il comportamento degli alleati di Washington che hanno collaborato e spinto sull’amministrazione Trump in questi anni per implementare e intensificare la politica di “massima pressione” sull’Iran. Il pensiero va subito a Israele, ma anche alle monarchie assolute del Golfo Persico. Questi paesi hanno sposato in pieno il boicottaggio delle scelte diplomatiche di Obama, sfruttando l’aggressione contro l’Iran di Trump per avanzare i propri interessi regionali.

Ci sarà quindi da attendersi una campagna feroce su Biden per impedire l’allentamento delle pressioni su Teheran. Infatti, il sovrano saudita giovedì ha rilasciato una dichiarazione pubblica rivolta in primo luogo al presidente americano appena eletto. Salman ha chiesto alla comunità internazionale di assumere una “posizione ferma” nei confronti dell’Iran e dei suoi sforzi, peraltro inesistenti, di sviluppare armi nucleari, ma anche di fermare l’espansione dell’influenza sciita in Medio Oriente.

Al centro delle preoccupazioni della casa regnante saudita c’è anche la possibile revisione integrale delle relazioni con gli Stati Uniti, soprattutto alla luce delle frizioni che avevano caratterizzato i due mandati della presidenza Obama. Le questioni che tra le altre si intrecciano in varia misura al file iraniano e che potrebbero risentire dell’avvicendamento alla Casa Bianca sono quelle della guerra in Yemen, dei rapporti con Israele, della fornitura di armi americane e delle ripercussioni del brutale assassinio del giornalista-dissidente Jamal Khashoggi.

Resta anche il fatto che la fazione della classe dirigente americana che ha scelto la diplomazia con l’Iran, e a cui fa riferimento Joe Biden, ha in fin dei conti lo stesso obiettivo finale dei “falchi”, ovvero il cambio di regime a Teheran o la sottomissione di questo paese agli interessi USA. L’accordo sul nucleare era uno strumento che in questo quadro doveva servire a dare l’impressione di un Occidente disposto a fare concessioni importanti alla Repubblica Islamica, ma se i suoi leader avessero insistito nel perseguire politiche radicali, cioè “indipendenti”, l’opzione militare sarebbe stata forse accettata con meno resistenze dall’opinione pubblica internazionale.

Va ricordato infine che, al di là delle intenzioni di Biden, peseranno sulle eventuali chances di successo della diplomazia gli scenari politici che usciranno dalle elezioni presidenziali iraniane della prossima estate. Proprio l’offensiva di questi anni di Trump ha generato rabbia e disillusione ai vertici della Repubblica Islamica e la nuova amministrazione USA potrebbe perciò trovarsi di fronte non più gli interlocutori “moderati” e ben disposti come Rouhani e il ministro degli Esteri, Zarif, bensì una leadership che preferisce l’opzione della linea dura e non si accontenterà di tornare semplicemente agli equilibri usciti dall’accordo di Vienna.

Fino a che punto intende spingersi il presidente americano uscente Donald Trump nella sua battaglia contro i presunti brogli che lo avrebbero privato di un secondo mandato alla Casa Bianca? Le cause legali intentate in quasi tutti gli stati persi di misura e alcuni avvicendamenti di personale nel suo gabinetto stanno realmente preludendo a un colpo di mano per restare in carica o si tratta di manovre per ricavare un qualche vantaggio politico per il futuro? Questi interrogativi appaiono legittimi, alla luce del persistente rifiuto di Trump a riconoscere la sconfitta, ma le risposte dipenderanno dagli sviluppi dei prossimi giorni o delle prossime settimane e, probabilmente, da decisioni prese al di fuori dell’amministrazione repubblicana.

Dopo un mese e mezzo di durissimi combattimenti, Armenia e Azerbaigian si sono accordati su un cessate il fuoco definitivo, grazie alla mediazione russa, che prospetta un cambiamento significativo della configurazione territoriale dell’enclave armena del Nagorno-Karabakh. Per Yerevan si tratta di una sconfitta difficile da sopravvalutare, mentre Baku può ritenere soddisfatti buona parte degli obiettivi rimasti frustrati per tre decenni. La Turchia di Erdogan, infine, mette un altro tassello alla propria ambiziosa politica di espansione, anche se, per quanto riguarda la regione caucasica, non ha potuto far altro che accettare i limiti imposti dal Cremlino.


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