di Sara Nicoli

Se ci fossero riusciti, l'11 settembre sarebbe stato archiviato come il primo atto di un'escalation terroristica di dimensioni planetarie, culminata nei cieli dell'Altlantico e nell'esplosione contemporanea di almeno dieci voli diretti da Londra verso gli Usa. E le cronache avrebbero probabilmente consegnato alla storia il numero 11 come il giorno maledetto per eccellenza nella vicenda umana mondiale di questi primi anni del ventunesimo secolo. E' andata diversamente. Scotland Yard li ha fermati. Forse solo un attimo prima che kamikaze islamici, di origine inglese, al soldo di Al Queda - secondo un'immediata lettura del governo Usa - caricassero a bordo un esplosivo artigianale in forma liquida portato in cabina con il bagaglio a mano. Scotland Yard ha dunque sventato il più terribile piano terroristico dopo la distruzione delle Twin Tower.

di D.J. Angrisani

Dopo settimane di notizie negative, lutti e tragedie da tutto il mondo, forse una buona notizia per coloro che sperano nella pace, arriva dagli Stati Uniti d'America. Alcuni notti orsono, nelle primarie democratiche del Connecticut, Joe Lieberman, senatore ebreo democratico ex candidato vicepresidente con Al Gore, indubbiamente il più filo Bush tra i democratici, è stato sconfitto da un ex perfetto sconosciuto, Ned Lamont, che ha basato la propria campagna presidenziale su un concetto molto semplice: il ritiro delle truppe americane dall'Iraq. Questa sfida delle primarie era diventata molto importante in quanto si era di fatto trasformata in un referendum della base democratica sulla politica estera del partito e sull'appoggio fornito da diversi senatori democratici alla guerra in Iraq. Il suo risultato, all'inizio completamente insperato, darà molte preoccupazioni a coloro che, all'interno del partito democratico, aspirano alla nomination nel 2008, ma che hanno sulla propria coscienza la macchia di aver votato a favore della guerra in Iraq.

di mazzetta

Nel cuore dell'Africa si sono appena tenute storiche elezioni. Al voto sono andati milioni di congolesi che, per la prima volta dopo 40, anni hanno potuto votare. Perché un paese come il Congo sia solamente alla sua seconda esperienza elettorale nella storia ha una spiegazione tutto sommato banale: il Congo è un paese talmente ricco che il suo governo è sempre stato ostaggio delle potenze straniere e degli interessi delle compagnie minerarie multinazionali. Il Congo, che per le ricchezze del suo sottosuolo è stato definito uno "scandalo geologico", è grande come l'Europa occidentale con una popolazione tutto sommato modesta, possiede solo 500 km di strade asfaltate, una ferrovia e un imponente debito estero. Una delle domande alle quali nessuno fornisce mai una risposta soddisfacente è quella riguardo a come un esportatore netto di tanta materia prima possa essersi indebitato con l'estero. La risposta è scontata per quanto è trasparente dalla storia congolese: il Congo è stato sistematicamente derubato e flagellato dalle grandi compagnie fin dalla sua fondazione.
Le elezioni appena svoltesi sono solo l'ultimo atto di una tragicommedia e non è un caso che la chiesa cattolica locale e alcuni candidati alla presidenza (sono più di trenta) le abbiano già definite truccate.

di Carlo Benedetti

MOSCA. La diplomazia russa, diretta al ministro Ivanov, riprende il suo posto dopo la parata del G8 sommerso dalle foto di gruppo, lastricato di banchetti e brindisi, di gite con auto da Luna-park e di first-lady in passerella con l'abito della festa. Ecco, quindi, che dal palazzo moscovita di piazza Smolensk (un grattacielo dell'epoca staliniana) si alza il tiro nei confronti della Nato scegliendo l'area del Montenegro per un nuovo confronto. Viene lanciato un preciso avvertimento al nuovo potere di Podgorica: "Sappiamo bene - dice Jurij Bickov, autorevole consigliere del ministro degli Esteri della Russia - che nel paese c'è una tendenza favorevole all'integrazione euro-atlantica. Ma questo non deve portare la politica locale a cadere nelle braccia dell'Alleanza atlantica". La preoccupazione di Mosca si riferisce al fatto che la Nato (con gli americani) potrebbe occupare nuove posizioni nell'Adriatico realizzando basi militari da aggiungere a quelle già presenti in Italia.

di Fabrizio Casari

In nessun paese del mondo la malattia di un Capo di Stato scatena tanta curiosità e paginate di giornali come è avvenuto nel caso di Cuba e del suo leader. Questo potrebbe essere, già da solo, l'indice della popolarità del Presidente cubano, assunto al ruolo di incubo vivente degli Stati Uniti, anzi di "spina nella carne", per dirla con le parole del senatore Usa Fullbright. Fidel Castro sta bene. Alla faccia degli avvoltoi che festeggiano la sua malattia nelle strade di Miami e dei loro supporters nella Casa Bianca, il Comandante en Jefe sta affrontando il decorso post operatorio in condizioni di stabilità del quadro clinico.
La scelta di Fidel, di dare con la massima trasparenza informazioni sul suo stato di salute è certamente indice di forza politica. Perché, dice Fidel, "non si possono inventare notizie buone o notizie false, perché in questo caso l'unico che ne trarrebbe beneficio è il nemico"; e anche perché, come è riconosciuto dallo stesso Comandante, in ragione dell'aggressione statunitense alla stabilità politica dell'isola "la mia salute diventa un segreto di Stato e di conseguenza non possono essere divulgate costantemente informazioni in merito".


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