di Michele Paris

Barack Obama ha vinto anche le primarie nello stato del Wisconsin e, stando alle proiezioni della Cnn, anche alle Hawaii. Per il senatore afroamericano dell'Illinois si tratta della nona vittoria consecutiva contro l'avversaria Hillary Clinton. Secondo i dati relativi al 90% dei voti in campo democratico, Obama ha ottenuto il 58% contro il 41% della senatrice di New York. Con il permanere dell’equilibrio nella conta dei delegati conquistati dai due candidati democratici alla nomination, i senatori Barack Obama dell’Illinois e Hillary Rodham Clinton di New York, diventa sempre più concreta la possibilità che a decidere l’avversario di novembre di John McCain, ormai ad un passo dall’assicurarsi lo status ufficiale di candidato per i repubblicani, sarà il voto alla convention di Denver dei quasi 800 cosiddetti Superdelegati del Partito dell’asinello. Anche se ben consapevoli del rischio di precorrere i tempi e, soprattutto, di far passare in secondo piano l’importanza del voto popolare in quegli Stati che ancora devono passare attraverso primarie e caucuses da qui a giugno, i responsabili di entrambe le campagne elettorali stanno mettendo in campo tutti i mezzi possibili per assicurarsi l’appoggio di questi Senatori, membri della Camera dei Rappresentati, Governatori ed altre importanti personalità del Partito che a fine agosto avranno mano libera nell’assegnazione del loro voto al candidato che teoricamente dovrebbe avere la maggiori chances di conquistare la Casa Bianca.

di Fabrizio Casari

“Non aspiro né accetterò - ripeto, non aspiro né accetterò - la carica di Presidente del Consiglio di Stato e di Comandante in capo". Due righe, poche parole, per interrompere definitivamente la storia. Fidel Castro Ruz, Presidente di Cuba da quando Cuba merita di avere un Presidente, in una lettera ai suoi “compatrioti”, lascia i suoi incarichi al vertice del Paese. Si tratta di una decisione che, per quanto di grande valore simbolico, in qualche modo era già nell’aria da qualche tempo. Le condizioni di salute del lider maximo, da molti ritenute la causa principale delle dimissioni di Fidel, hanno rappresentato l’ostacolo maggiore per rimettere al suo posto di comando un leader che ha sempre guidato il suo Paese a tempo totale e con dedizione assoluta. Ma le condizioni fisiche di Fidel non sembrano però essere l’unico motivo che ha fatto da sfondo a questa scelta. Da molto tempo, infatti, nei progetti più importanti del Comandante en jefe vi era quello di garantire la sua transizione da vivo, conscio di quanto la sua eventuale mancanza avrebbe sconcertato il Paese, il suo popolo, l’intero gruppo dirigente. E Cuba, com’è ovvio, non può permettersi vuoti di potere: almeno finché il suo acerrimo nemico, che riempie di infamie e minacce, provocazioni e terrorismo, corruzione ed ingerenze il tratto di mare che lo separa dall’isola dell’orgoglio, non accetterà le lezioni della storia e del diritto internazionale.

di Fidel Castro Ruz

Venerdì 15 avevo promesso che nella mia prossima riflessione avrei abbordato un tema di grande interesse per molti compatrioti. Questa riflessione ha anche forma di messaggio. È giunto il momento di postulare e di eleggere il Consiglio di Stato, il Presidente, i vicepresidenti e il segretario. Ho sostenuto questo onorevole incarico di presidente per molti anni. Il 15 febbraio del 1976 si approvò la Costituzione socialista, con voto libero diretto e segreto di più del 95% dei cittadini con diritto al voto. La prima Assemblea Nazionale si costituì il 2 dicembre dello stesso anno, quando si elessero il Consiglio di Stato e la sua presidenza. Prima avevo svolto l’incarico di primo ministro per circa 18 anni. Ho sempre disposto di tutte le prerogative necessarie per portare avanti l’opera rivoluzionaria con l’appoggio della stragrande maggioranza del popolo. Conoscendo il mio stato di salute, molti all’estero pensavano che la mia rinuncia all’incarico di presidente del Consiglio di Stato, il 31 luglio del 2006, che posi nella mani del primo vicepresidente, Raúl Castro Ruz, era definitiva.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Il grande gioco balcanico è al capolinea. Le bandiere del cosiddetto mondo libero sventolano a Pristina mentre si scatena l’odio contro i serbi e gli slavi. E per un certo occidente questo è uno spettacolo valido per i media, tra colori e grida, con una musica in sottofondo che ricorda le melodie zigane underground di Goran Bregovic per i film di Emir Kusturica... Ma all’angolo - e precisamente al nord per la precisione geografica - c’è in lista d’attesa un nuovo problema. Quello di Mitrovica serba che, già divisa dai kosovari-albanesi, potrebbe proclamare il suo “strappo” ed uscire, quindi, dal Kosovo albanese-americano. Il nuovo terremoto geopolitico è alle porte e questa volta i grandi del mondo (che hanno benedetto la secessione attuata dai terroristi dell’Uck guidati da Thaci) si troveranno a dover decidere avendo già perso in partenza. E dovendo ammettere che il Kosovo non è solo terra di corvi e monasteri, ma è anche un grosso e complicato puzzle fatto di popoli, religioni, storie, tradizioni...

di Fabrizio Casari

No, non ce n’era nessun bisogno. Di un Kosovo indipendente, con tutto quello che comporta e comporterà, sia dal punto di vista politico sia da quello del diritto internazionale, non c’era bisogno. La dichiarazione d’indipendenza che Pristina ha lanciato come un bastone tra le gambe degli equilibri europei, ottiene infatti il triste risultato di rimettere in campo una concezione esclusivamente etnica della natura giuridica di una entità statale. E’ un obbrobrio dal punto di vista giuridico non minore di quelli che, sulla base della stessa affermazione identitaria di tipo etnico, hanno rappresentato la cornice dentro la quale i Balcani hanno visto la più brutale torsione del diritto internazionale della fine del secolo scorso, con il seguito drammatico di guerra e distruzione che ha incendiato l’Europa dell’Est. Che l’Unione Europea – ma sarebbe più esatto dire una parte del gruppo fondatore della Ue – abbia deciso di accettare, anzi addirittura di fornire valenza giuridica e politica alla secessione kosovara, è un fatto grave e pericoloso.


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