di Elena Ferrara

Il governo di Mosca cerca di correre ai ripari, ma sembra proprio che gran parte del bacino del mare Nero (così chiamato dal colore delle sue alghe) sia ormai segnato dalla recente e grande catastrofe ambientale. Perché quelle cinque imbarcazioni colpite dai violenti nubifragi delle settimane scorse hanno rovesciato in mare liquidi inquinanti. Eppure la tempesta che ha colpito le navi (ci sono morti e dispersi) era stata annunciata ??n sufficiente anticipo tanto da consentire di ??r??r? riparo nei porti della zona. Ma lo stato d’allarme non è servito a nulla. Tutto il braccio di mare è stato investito ??n venti ? oltre cinquanta nodi (cento chilometri orari) ? onde alte cinque metri, che hanno spezzato un? petroliera in due tronconi ? fatto colare ? picco quattro mercantili. In poche ?r? sono finite in acqua tra le 1.300 ? le 2.000 tonnellate di gasolio fuoriuscite dalla petroliera russa che si ? spaccata, la Volganeft-139, ? migliaia di tonnellate di zolfo trasportate dalle navi mercantili russe Nakhitchev, Volnogorsk ? Kovel, queste ultime due entrate in collisione senza poter contrastare la furi? della bufera. Inoltre, sul fondale sono finite anche le 5.600 tonnellate di materiali ferrosi che erano nelle stive della quarta nave affondata, un mercantile georgiano che si è inabissato non lontano dal porto di Cherson, in Crimea. Per ora, nulla è servito a bloccare il disastro.

di Eugenio Roscini Vitali

Entro la fine dell’anno il British Council potrebbe essere costretto a chiudere le sedi russe di San Pietroburgo e Yekaterinburg, lasciando così aperta la sola agenzia di Mosca. L’ordine emanato dal Cremlino attacca le attività britanniche in Russia e mette in discussione la “ius gentium”, il diritto delle genti che regola la vita della comunità internazionale. Nel motivare la decisione, il ministro degli Esteri Serghei Lavrov ha accusato l’organizzazione culturale di operare illegalmente e non ha nascosto che l’azione intrapresa da Mosca è legata alla crisi diplomatica scoppiata dopo la morte dell’ex spia Alexander Litvinenko. Ma cosa c’è dietro al caso British Council: una ritorsione che colpisce uno dei maggiori istituti culturali del mondo e che offre lo spunto per valutare le reali condizioni dei diritti civili in cui si dovrebbe sviluppare la “prossima” democrazia russa. Anche se il portavoce del Cremlino, Dimitry Peskov, spiega che in Russia il numero delle sedi dell’associazione culturale non è “sfortunatamente” conforme alla legge, il governo è comunque certo che i britannici hanno boicottato il lavoro investigativo della polizia e hanno impedito l’arresto dei presunti responsabili dell’omicidio Litvinenko. I rapporti tra i due Paesi si erano inaspriti dopo che Londra aveva deciso di espellere quattro diplomatici russi; analogamente il Cremlino, che si era rifiutato di estradare Andrei Lugovoy, il principale sospettato per l'uccisione dell'ex colonnello del Kgb, aveva risposto con l’espulsione di quattro diplomatici britannici.

di Bianca Cerri

Bisogna dirlo: i giornalisti occidentali non amano associare la CIA alla tortura, preferiscono i “se” e i “ma” e lo hanno dimostrato nei giorni scorsi, quando è venuta alla luce la storia della videocassetta scomparsa contenente filmati delle torture inflitte dagli agenti della CIA ai prigionieri. A occhio e croce, la cassetta conteneva almeno un paio d’ore di video-registrazioni che mostravano uomini sottoposti a sofferenze sovrumane che i nuovi linguaggi giornalistici hanno subito trasformato in “tecniche estreme” o “interrogatori coercitivi”. In fondo, perché meravigliarsi visto che da oltre cinquanta anni la stampa finge di non sapere che la CIA manda i suoi agenti in giro per il mondo a torturare e sabotare. Ora è la volta degli arabi, ma ci sono stati africani, asiatici, latinoamericani e persino gli stessi statunitensi. Non fa poi molta differenza di che nazionalità siano le vittime, l’importante è che vengano ridotte all’impotenza in modo da placare le fobie di Washington.

di mazzetta

Se non si trattasse di un politico di lungo corso, si potrebbe paragonare l'uccisione di Benazir Bhutto a quella dell'agnello sacrificale, tanto era attesa e scontata. Salita giovanissima alla carica di primo ministro come esponente di una delle più importanti famiglie famiglie pachistane e degli interessi ad essa affluenti, per due volte era stata dimessa inseguita da procedimenti penali. Incapace di governare, Benazir da sempre è stata l'immagine offerta alle masse pachistane dal suo Partito Popolare, fino a quando un accordo con Musharraf non aveva commutato il carcere sicuro in un dorato esilio con base negli Emirati. Un complesso accordo con Musharraf, voluto fortemente dal Dipartimento di Stato americano, le aveva permesso il ritorno e la certezza matematica della carica di primo ministro. Nel furore della violenza esplosa dopo la distruzione della Moschea Rossa, Musharraf ha però mosso freddamente le sue pedine al meglio, vanificando ogni pretesa statunitense. Nominato il fedelissimo capo dell'ISI (i temutissimi servizi segreti pachistani) Ashfaq Kayani a capo dell'esercito, Musharraf ha svestito la divisa, non prima di aver licenziato i membri della corte suprema che dissentivano sulla legalità delle sue decisioni. Nella giusta sequenza Musharraf ha anche amnistiato Benazir Bhutto ed eliminato il limite dei due mandati che le avrebbe impedito l'elezione.

di Luca Mazzucato

Quando viene a cadere la “minaccia esistenziale allo stato ebraico” che il regime iraniano impersona, allora sono guai seri per la leadership israeliana. Il rapporto del Consiglio Nazionale dell'Intelligence americana ha sgonfiato la minaccia persiana, negando risolutamente che l'Iran stia cercando di procurarsi armi nucleari, provocando un vero terremoto. Teheran esulta, lodando la CIA; i neocon americani, che pregustavano l'ennesimo affare bellico, si strappano i capelli, mentre il governo israeliano si scaglia con violenza contro lo spionaggio USA, accusato di pressapochismo. Ma il responsabile della rinnovata intelligence americana fuga ogni dubbio sull'affidabilità del rapporto: non si tratta del remake del famigerato dossier sulle armi di Saddam. Chi ci guadagna è Putin, che coglie al balzo l'occasione, riprende la fornitura di uranio arricchito all'Iran e incassa milioni. Il rapporto della National Intelligence Estimate è conclusivo: l'Iran non potrebbe a mettere insieme l'atomica almeno fino al 2015. Tuttavia, il programma atomico militare è stato abbandonato nel 2003 in seguito alle pressioni internazionali e mai più resuscitato. Nemmeno segretamente. Il rapporto enfatizza che le decisioni politiche a Teheran non sono frutto della follia di un fondamentalista, ma sono guidate da un'attenta analisi costi-benefici. Nel rapporto si confronta criticamente l'attuale conclusione negativa con l'opposta conclusione del 2005, in cui veniva affermata l'esistenza di un programma nucleare segreto: il precedente parere viene smentito.


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