di Raffaele Matteotti

Il peggior presidente della storia degli Stati Uniti, così lo giudica la gran parte dell'elettorato americano, è politicamente morto e sepolto. Fa impressione come tutti i contendenti alle primarie americane, siano avversari democratici o repubblicani, evitino accuratamente di nominarlo. Chi si lega a Bush in questo momento può salutare la corsa alla Casa Bianca. George W. Bush è così diventato invisibile; più una “invisible duck” che una “lame duck”, o anatra zoppa, espressione che indica tradizionalmente il presidente a fine mandato. A questo punto ci si aspetterebbe che i candidati, in particolare i democratici, sfruttassero questa circostanza e usassero le critiche all'amministrazione Bush come trampolino di lancio, ma non accade. Non accade semplicemente perché nessuno dei candidati si è mai opposto alle decisioni più importanti e disastrose prese dalla banda Bush. Non accade perché tutti i candidati sono multimilionari in cerca di brividi o di potere, senza alcun progetto o ideale che vada oltre la presa del potere e la promozione delle proprie cordate. Un quadro molto simile a quello osservabile in molte delle democrazie occidentali e no d’inizio millennio. L'amministrazione Bush, al di là del terrore e della morte seminati in giro per il mondo, ha paurosamente impoverito la popolazione degli Stati Uniti, ne ha devastato le leggi andando ben oltre la decenza e fondando questa devastazione su pretesti evidenti. Contro questi pretesti l'opposizione è stata inesistente, perché impegnata su fronti più redditizi, e oggi non può certo presentarsi vergine e scandalizzata. Non può dirsi vergine e scandalizzata nemmeno di fronte alla prossima valanga ormai alle porte, una valanga che sarà sicuramente peggiore delle sconfitte in Iraq ed Afghanistan, quella della recessione economica ormai incombente. Una valanga provocata da scelte politiche ed economiche sottoscritte indistintamente da tutto l'arco parlamentare americano.

Per anni il trend liberista si è tradotto in spaventosi flussi d'investimenti verso i paesi in via di sviluppo più promettenti, prima tra tutti la Cina. Un'enorme massa di capitali destinati a rivalutarsi incessantemente nella prospettiva della crescita infinita. Osservando la sequenza storica dei corsi del moderno sistema capitalista è evidente che questa sia fatta sequenze binarie di boom e crollo, osservando il boom degli ultimi anni ci si rende facilmente conto che l'espansione dei capitali negli ultimi anni non ha precedenti. Il solo sviluppo della Cina, che per quanto parziale ha già prodotto una massa di neo-consumatori pari alla popolazione degli Stati Uniti, assume una dimensione e una velocità senza precedenti.

Una velocità doppia di quella che portò gli Stati Uniti a sopravanzare l'Europa come potenza economico-industriale. La Cina è già un mercato enorme, oltre ad essere il perno della fabbrica-mondo. Da quando le liberalizzazioni globali hanno abbattuto i limiti agli investimenti internazionali e alla circolazione delle merci il governo cinese si è dimostrato interlocutore affidabile per il capitale transnazionale, l'afflusso di capitali verso la Cina ha assunto dimensioni ciclopiche; in particolare dai paesi sviluppati. L'apertura della Cina ai mercati ha determinato l’accorrere del capitale, là dove la crescita garantiva rendimenti impossibili nelle economie mature.

Dagli Stati Uniti, dall'Europa e da Giappone, Taiwan e Corea, i player della finanza e dei mercati globali hanno spostato il loro baricentro operativo in Cina o comunque altrove. Ad aumentare la portata di questi flussi è stato l'effetto delle politiche liberiste sulle economie avanzate. L'allargamento della forbice redistributiva ha concentrato ancora di più la ricchezza, che ha preso presto la via del nuovo Eldorado. Questo ha determinato un impoverimento reale dei cittadini dei paesi del primo mondo, mitigato per qualche anno dalla maggiore economicità della massa di prodotti provenienti proprio dalla Cina, dove si spostavano le produzioni perché il lavoro era pagato un tozzo di pane e i guadagni erano maggiori.

Per un po' è riuscito il miracolo dell'abbattere i redditi in Occidente senza comprimere i consumi, ottenuto per lo più attraverso la promozione di un pericoloso indebitamento ad ogni livello. Soldi che poi sono stati di nuovo dragati a un livello superiore e investiti altrove, dove rendevano di più. L'iperconsumo statunitense non è un accidente, ma il sogno di ogni produttore. Un sogno divenuto realtà e ferocemente difeso. Nel dichiarare una delle sue tante guerre George Bush ha detto una frase illuminante: “non accetteremo che il tenore di vita degli americani sia messo in discussione”. Poi ci ha pensato lui a minarlo.

I dati parlano da soli e ci dicono che se nel 1975 l’1% dei cittadini con il reddito più alto catturava l’8,3% del reddito nazionale, nel 2005 si è appropriato del 21,93% dello stesso. Intanto le retribuzioni dei CEO sono passate dall’essere 40 volte uno stipendio medio (1980) a 364 volte (2005). Un bambino su sei negli Stati Uniti è povero, il tasso di povertà è del 12%, mentre tra i bambini raggiunge il 17%. In realtà i poveri veri sono molti di più, visto che la soglia per essere considerati poveri è stata drammaticamente abbassata per nascondere il disastro. Buona parte dei poveri sono sottoalimentati, questo nel paese con il maggior tasso di obesità al mondo.

Quarantasette milioni di americani non hanno l’assicurazione medica, le infrastrutture non vengono riparate, oltre due milioni di americani sono in prigione, con costi crescenti e nessun effetto sulle statistiche criminali. La differenza tra i redditi dei neri e dei bianchi potrà essere colmata, alla velocità attuale con la quale i redditi dei neri avanzano, in 594 anni. L’efficienza energetica del sistema-america segue trend simili, è addirittura peggiorata dagli anni ’80; lo spreco è l’anticamera di grossi guadagni.

Sparito Edwards che si era eletto paladino dei poveri, i candidati alle presidenziali americane promettono di lasciare inalterate le cause di questo disastro, riempiendo le ferite con tanti buoni discorsi a base di orgoglio e patriottismo, come ha fatto Bush nell’ultimo discorso sullo stato dell’Unione. Ad assicurare che nessuno disturberà il nuovo inquilino della Casa Bianca ed i suoi finanziatori ci penserà il più potente dispositivo militare della storia, che assorbe la metà delle spese militari del pianeta. Solo per le guerre in Iraq ed Afghanistan si è già speso molto di più di quanto non si spese per la guerra del Vietnam, durata molto più a lungo.

Per questi motivi è assolutamente indifferente chi sarà il prossimo inqulino della Casa Bianca, poiché è chiaro che alla guida del sistema americano è ormai insediata un’oligarchia elitarista che non concede alcuna messa in discussione delle attuali logiche redistributive in favore della parte più ricca degli statunitensi. Logiche che gli americani al comando sono pronti a difendere a tutti i costi, anche a quello della vita dei propri concittadini.

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