di Eugenio Roscini Vitali

Il National intelligence estimate (Nie), il rapporto pubblicato il 3 dicembre scorso dalle 16 maggiori agenzie americane di spionaggio, ha stabilito in modo inequivocabile l’avvenuta sospensione del programma atomico iraniano, un progetto che le autorità di Teheran non dovrebbero riprendere prima di tre-cinque anni. Il giudizio del Nie contrasta con le dichiarazioni del presidente Bush che, comunque, non riduce la portata del pericolo sul nucleare e spinge affinché la comunità internazionale aumenti le pressioni sul regime di Mahmoud Ahmadinejad. Pur allontanando la minaccia di un conflitto, il rapporto compromette soprattutto i delicati equilibri politici iraniani, ed in particolar modo danneggia l’attuale leadership che, a pochi mesi dalle elezioni legislative, deve confrontarsi con i problemi del Paese. Anche se sembra assurdo, il Nie potrebbe riuscire là dove intimidazioni e sanzioni hanno fallito: mettere in crisi l’ex sindaco di Teheran; dimostrando allo stesso tempo che il cambiamento c’è, esiste e non sempre è necessaria una guerra. E così, l’Iran che si prospetta è un Paese spaccato tra simbolismo e modernizzazione, tra rivoluzione e controrivoluzione, tra principi khomeinisti e riformismo, tra religione e Stato. Nei prossimi mesi Ahmadinejad dovrà affrontare le contraddittorie promesse elettorali fatte nel 2005; rendere conto delle difficili condizioni in cui versa l’economia nazionale; scontrarsi con la contestazione studentesca cresciuta nelle università, luogo da sempre critico e avverso al partito dei militari; ricucire i rapporti con l’Ayatollah Ali Khamenei, la Guida suprema che lo ha sempre sostenuto e difeso dall’attacco e dalle critiche dell’opposizione.

L’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad ha iniziato la sua scalata ai massimi vertici della Repubblica Islamica con l’elezione del 2004 a sindaco di Teheran. L’anno successivo, puntando sul clero radicale, sui basij, le forze di mobilitazione della resistenza e sui mostazafin, i diseredati, viene eletto presidente della Repubblica. Una vittoria clamorosa che sorprende l’opinione pubblica soprattutto per le dimensioni: più del 60% delle preferenze. Un trionfo che si basa sul richiamo ai valori dell’ideologia rivoluzionaria, sulla guerra alla corruzione e su un patto sociale che prevede la redistribuzione ai ceti più poveri dei proventi derivanti dalla vendita delle risorse energetiche. Ma la vittoria dipende soprattutto dall’astensionismo dell’elettorato riformista, che di fatto nega il proprio appoggio ai conservatori pragmatici dell'ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani.

Pragmatici e riformisti, il cui massimo esponente è sicuramente Seyyed Mohammad Kh?tami, quinto presidente iraniano eletto per due mandati consecutivi, condividono una stessa visione della politica economica, mirante ad una macro-economia liberista e ad una maggior industrializzazione del Paese. Lontani dall’immobilismo religioso e dall’oltranzismo rivoluzionario puntano alla modernizzazione istituzionale e si dichiarano ostili verso una radicalizzazione dello scontro con l’occidente. Quello che li divide è la posizione che assumono i riformisti sull’esperienza rivoluzionaria che non rinnegano ma che non pongono come freno ad una revisione completa della struttura politica di un regime ancora agganciato agli ideologismi khomeinisti.

Anche se agli occhi di molti l’Iran sembra un granitico monolite sciita avulso da qualsiasi contestazione interna, i contrasti sono molti e spesso aspri. Durante i due anni e mezzo di presidenza, Ahmadinejad ha subito numerosi attacchi, portatigli dell’elite intellettuale, dai moderati, da una parte del clero e dall’opposizione, sempre critica e mai doma; attacchi elusi grazie ad un sapiente utilizzo della minaccia americana e dall’interventi dell’Ayatollah Khamenei che non si è mai risparmiato nel difendere pubblicamente il programma politico dell’attuale regime. Ora che il pericolo del “Grande Satana” sembra essersi dileguato e che non è più necessario inneggiare all’unità nazionale, la Guida suprema potrebbe però voltare pagina. Profondamente deluso per la situazione economica del Paese e preoccupato per l’eccessivo potere raggiunto da pasdaran e basij, Khamenei potrebbe appoggiare la modernizzazione e favorire nuove alleanze di potere.

Recentemente sono accaduti due fatti di rilievo che danno l’esatta misura della crisi interna: Khamenei è intervenuto in prima persona nominando Mohammad Zolghadr, vice ministro dell’Interno licenziato lo scorso dicembre dallo stesso Ahmadinejad, al vertice del Corpo dei basij; ultimamente l’ex capo negoziatore iraniano sul nucleare, Ali Larijani, personaggio politico vicino alla Guida suprema, si è recato al Cairo per incontrare il ministro degli Esteri egiziano, Ahmed Aboul Gheit. L’incontro, volto a riallacciare i legami con l’Egitto interrotti dopo la firma degli accordi di pace israelo-egiziani del 1979, non sarebbe stato molto apprezzato dal presidente che, da quanto pubblicato sul New York Times, non ha perso l’occasione per ricordare al Paese che il governo ha un suo ministro degli Esteri.

Negli ultimi due anni Ahmadinejad ha subito una serie di sconfitte elettorali che denotano l’attuale crisi del dogmatismo ideologico radicale: il rinnovo dei consigli municipali, l’Assemblea degli Esperti e l’elezione del suo stesso Capo sono un campanello d’allarme che non può essere ignorato, soprattutto in previsione delle legislative il 14 marzo 2008. La crisi politica che potrebbe scaturire da una nuova debacle riaprirebbe una questione fondamentale: mantenere in vita il culto della rivoluzione e dei suoi miti fondativi o riprendere la via tracciata da Khatami, che punta a uno Stato islamico fondato sul pluralismo politico e religioso e sul confronto culturale e di pensiero con l’Occidente come risposta allo scontro di civiltà.


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