di Michele Paris

Mentre la corsa verso la nomination nel Partito Democratico prosegue nell’incertezza, i giochi tra i Repubblicani sono da tempo risolti, di fatto almeno dall’esito delle primarie del Supermartedì, con il 71enne John McCain in nettissimo vantaggio sull’ex Governatore dell’Arkansas Mike Huckabee, comunque ben deciso a non mollare fino a quando il front-runner del suo Partito non avrà raccolto ufficialmente i 1.191 delegati necessari. Ma il ribelle Senatore dell’Arizona, messo sotto accusa in questi giorni da un articolo del New York Times che ha rivelato presunti favori erogati ad una “lobbysta” con la quale aveva una relazione extra-coniugale, è ancora ben lontano dall’aver spento i malumori suscitati dalla sua candidatura nell’ala conservatrice del “G.O.P. Party”, il cui appoggio sarà fondamentale per un cammino verso la Casa Bianca che si presenta per lui tutto in salita. Già costretto a destreggiarsi con cautela tra ammiccamenti verso i neocon e la consistente fetta di elettori indipendenti e democratici moderati, tentati da alcune sue prese di posizione liberal, McCain si trova ora a dover gestire con prudenza anche la delicata questione dell’appoggio ufficiale che ha ricevuto qualche giorno fa dal Presidente uscente George W. Bush, crollato nell’indice di popolarità nel paese ma ancora piuttosto apprezzato dall’ala destra del Partito Repubblicano.

di Giuseppe Zaccagni

Parte dei Balcani l’effetto domino. E l’enclave del Nagorno-Karabach situata all'interno dell'Azerbagian - che si considera armena, a maggioranza cristiana, e che dal 1991 si è auto-proclamata indipendente - apre di nuovo il contenzioso con Baku. Questa volta alza il tiro cogliendo il pretesto della situazione del Kosovo ed approfittando anche delle elezioni presidenziali dei giorni scorsi che hanno registrato la vittoria del premier Serge Sarkisian (52,86%) lasciando al secondo posto con il 21,5% Levon Ter-Petrosian, primo presidente dell'Armenia indipendente post-sovietica diventato bandiera dell'opposizione e al terzo posto Arthur Bagdasarian con il 16,6%, ex presidente del parlamento. Ma ora l’attenzione generale dell’intero Caucaso si concentrerà non tanto sulla lotta che seguirà ad Erevan per la formazione delle nuove strutture governative ed istituzionali, quanto sulla questione nodale del rapporto con l’Azerbagian - e precisamente sulla questione del Nagorno-Karabach. Perchè subito dopo i risultati delle presidenziali il ministro degli Esteri di Stepanakert (capitale del Nagorno-Karabach) Georgy Petrosyan, si è affrettato a dichiarare che l'indipendenza della regione balcanica del Kosovo dimostra che una regione separatista può agire anche contro la volontà dello stato dal quale vuole essere indipendente.

di Luca Mazzucato

L'autobomba che ha ucciso Imad Mughniyah a Damasco dà il via ad una escalation i cui sviluppi sono difficili da prevedere. Il capo militare di Hezbollah, al secondo posto dopo Bin Laden tra gli uomini più ricercati al mondo, responsabile di numerosi attentati e dirottamenti a partire dai primi anni ottanta, è stato assassinato dal Mossad il 12 Febbraio. Israele ovviamente nega, mentre si sospetta il coinvolgimento della CIA e di altri paesi arabi tra cui l'Arabia Saudita. La morte violenta di Mughniyah, figura storica della resistenza libanese e cerniera di contatto tra palestinesi, Hizbullah, Siria e Iran scuote il Libano, sull'orlo di una guerra civile, mentre gli israeliani aspettano la pesante rappresaglia di Hizbullah. Indiscusso capo militare del Partito di Dio, Mughniyah inizia la sua carriera come militante di Fatah, per entrare poi in Hizbullah fin dagli inizi. È stato lui a introdurre la strategia degli attacchi suicidi in Medioriente: nel 1983 organizza i due violentissimi attentati all'ambasciata americana e al quartier generale delle forze armate americane e francesi a Beirut, in cui muoiono oltre trecento persone.

di Michele Paris

Barack Obama ha vinto anche le primarie nello stato del Wisconsin e, stando alle proiezioni della Cnn, anche alle Hawaii. Per il senatore afroamericano dell'Illinois si tratta della nona vittoria consecutiva contro l'avversaria Hillary Clinton. Secondo i dati relativi al 90% dei voti in campo democratico, Obama ha ottenuto il 58% contro il 41% della senatrice di New York. Con il permanere dell’equilibrio nella conta dei delegati conquistati dai due candidati democratici alla nomination, i senatori Barack Obama dell’Illinois e Hillary Rodham Clinton di New York, diventa sempre più concreta la possibilità che a decidere l’avversario di novembre di John McCain, ormai ad un passo dall’assicurarsi lo status ufficiale di candidato per i repubblicani, sarà il voto alla convention di Denver dei quasi 800 cosiddetti Superdelegati del Partito dell’asinello. Anche se ben consapevoli del rischio di precorrere i tempi e, soprattutto, di far passare in secondo piano l’importanza del voto popolare in quegli Stati che ancora devono passare attraverso primarie e caucuses da qui a giugno, i responsabili di entrambe le campagne elettorali stanno mettendo in campo tutti i mezzi possibili per assicurarsi l’appoggio di questi Senatori, membri della Camera dei Rappresentati, Governatori ed altre importanti personalità del Partito che a fine agosto avranno mano libera nell’assegnazione del loro voto al candidato che teoricamente dovrebbe avere la maggiori chances di conquistare la Casa Bianca.

di Fabrizio Casari

“Non aspiro né accetterò - ripeto, non aspiro né accetterò - la carica di Presidente del Consiglio di Stato e di Comandante in capo". Due righe, poche parole, per interrompere definitivamente la storia. Fidel Castro Ruz, Presidente di Cuba da quando Cuba merita di avere un Presidente, in una lettera ai suoi “compatrioti”, lascia i suoi incarichi al vertice del Paese. Si tratta di una decisione che, per quanto di grande valore simbolico, in qualche modo era già nell’aria da qualche tempo. Le condizioni di salute del lider maximo, da molti ritenute la causa principale delle dimissioni di Fidel, hanno rappresentato l’ostacolo maggiore per rimettere al suo posto di comando un leader che ha sempre guidato il suo Paese a tempo totale e con dedizione assoluta. Ma le condizioni fisiche di Fidel non sembrano però essere l’unico motivo che ha fatto da sfondo a questa scelta. Da molto tempo, infatti, nei progetti più importanti del Comandante en jefe vi era quello di garantire la sua transizione da vivo, conscio di quanto la sua eventuale mancanza avrebbe sconcertato il Paese, il suo popolo, l’intero gruppo dirigente. E Cuba, com’è ovvio, non può permettersi vuoti di potere: almeno finché il suo acerrimo nemico, che riempie di infamie e minacce, provocazioni e terrorismo, corruzione ed ingerenze il tratto di mare che lo separa dall’isola dell’orgoglio, non accetterà le lezioni della storia e del diritto internazionale.


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