di Eugenio Roscini Vitali

Mentre l’Unione Europea condanna Pristina per la mancata tutela della minoranza serba, dall’altra parte del confine sono gli albanesi a pagare il prezzo della secessione del Kosovo e Metohija, costretti a vivere sotto la costante minaccia di un popolo arrabbiato che ha visto violare l’integrità territoriale e l’identità nazionale e che non ha accettato la decisone unilaterale imposta da Washington e Bruxelles. A denunciare la situazione è Human Right Watch, l’organizzazione internazionale per i diritti umani che in un report di 74 pagine parla di un clima di tensione e di violenza al quale non sanno, o non vogliono, far fronte neanche le autorità di Belgrado. Epicentro degli incidenti è la provincia autonoma di Vojvodina, dove tra febbraio e marzo sono state documentate decine di aggressioni portate dai gruppi ultranazionalisti alle abitazioni e alle attività commerciali gestite dalla minoranza albanese; un segnale di quanto in certi luoghi soffi ancora forte il vento d’intolleranza, un vento che neanche le prospettive europee posso placare.

di Stefania Pavone

L’urlo di angoscia e di dolore del popolo palestinese si leva nell’aria di una Gaza senza più alcuna forza, piegata dal violento assedio israeliano. Uomini, donne e bambini sono ormai degli animali in gabbia che neanche il lampo azzurro di uno spicchio di cielo può più consolare. Latte. Luce. Medicine. Cibo. Manca tutto a Gaza. Tutto quello che serve a vivere. Forse persino l’aria. E mentre sono passate nei telegiornali delle televisioni del mondo intero le immagini dei pacifici cortei dello scorso 29 novembre, giornata mondiale di solidarietà indetta dall’Onu in favore della Palestina, i giorni scorsi hanno registrato gli atti certi di quella tragedia nella tragedia che è il progressivo avvicinarsi del confronto armato tra Fatah e Hamas.

di Carlo Benedetti

Con la morte dell’ottantenne Patriarca ortodosso, Aleksei II, si annuncia a Mosca un radicale cambiamento politico-religioso. Questa è almeno la speranza che viene avanti in molti ambienti della chiesa locale e nelle alte sfere della diplomazia del Cremlino. Perché la scomparsa del religioso (il nome reale era Aleksei Ridgher, nato in Estonia, a Tallin, il 23 febbraio 1929) apre un capitolo nuovo quanto a relazioni interne nella Russia, nel campo della chiesa ortodossa e, soprattutto, nei rapporti con la Chiesa di Roma. Intanto, mentre gli alti prelati (abituati alla politica del “niet” che accomunò il ministro sovietico Gromyko al religioso Ridgher) si affrettano ad eleggere un “reggente”, comincia il giro delle illazioni e delle previsioni sul futuro della gestione dell’intero Patriarcato. La questione - dal punto di vista della geopolitica russa - è complicata, proprio perché la direzione di Ridgher, quanto a rapporti con l’altra grande chiesa (quella di Roma), era stata conflittuale ed anche caratterizzata da forti differenze.

di Ilvio Pannullo

La gravità della crisi in cui versa il settore automobilistico americano è sintetizzabile nei volti di Rick Wagoner, Alan Mulally e Bob Nardelli. Le espressioni che si leggono sulle facce degli amministratori delegati delle “Big Three” di Detroit General Motors, Ford e Chrysler, non hanno bisogno di commenti. Costretti a recarsi in pellegrinaggio al Congresso, per metà come imputati della crisi e per metà come questuanti alla ricerca di aiuti, hanno dichiarato che senza soccorsi rapidi è in gioco la stessa sopravvivenza delle loro rispettive corporations. La profondità del collasso è misurata dallo sprofondare delle vendite, cadute ai minimi da 25 anni con una flessione-simbolo del 32% in ottobre, la dodicesima consecutiva, a 836.156 veicoli, pari a vendite su base annuale inferiori ai 10,6 milioni rispetto ai 16 del 2007: il mese più nero dalla fine della seconda guerra mondiale. Solo nei primi dieci mesi del 2008 il declino è stato del 15 per cento. E novembre e dicembre, secondo gli analisti, potrebbero chiudere ancora peggio.

di Carlo Benedetti

Ora non ci sono più dubbi: a Mosca è regime. Perché quegli emendamenti alla Costituzione russa decisi con un colpo autoritario dal presidente Dmitri Medvedev aprono una pagina “nuova” nella vita del Paese. Per alcuni fedeli del capitalismo selvaggio sono solo alcuni punti interrogativi sul futuro del Paese, ma la realtà è ben chiara. Il duo Putin-Medvedev ha scoperto le carte di un gioco di corte attuato con l’assenso dei boiardi. Si prepara infatti - a quanto sembra - il ritorno al Cremlino di Vladimir Putin fra tre anni. E questo vorrà dire che quella fetta di servizi deviati del vecchio Kgb avrà ancora una volta vinto la partita ottenendo, con un colpo solo, il pieno controllo del potere. Non ci sarà più differenza (ammesso che ci sia stata…) tra il vecchio palazzo della Lubjanka e l’austero Cremlino. Ci si avvia, infatti, all’attuazione di una serie di modifiche istituzionali racchiuse in tre punti chiave: in primo luogo il prolungamento del mandato presidenziale da quattro a sei anni e di quello dei deputati da cinque a sei, quindi a un maggiore controllo del Parlamento sul Governo.


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