di Carlo Benedetti

L’Asia torna alla grande sulla scena mondiale avviando una delle trasformazioni strutturali più significative del sistema internazionale moderno dell’era della rivoluzione industriale. Si muovono all’attacco tre paesi: il Giappone con i suoi 127.435.000 abitanti; la Cina che ne conta 1.330.503.000 e la Corea del Sud che tocca i 44.044.790. E tre, di conseguenza, i leader in pista per contrastare la globalizzazione occidentale: il Primo ministro di Tokyo Taro Aso; il leader di Pechino Wen Jintao, primo ministro; i coreani Lee Myung-bak, Capo di Stato e il Capo di governo Han Seung-soo. Si annuncia - come ritengono molti esperti dell’economia asiatica - un processo geopolitico di trasformazione tecnica e scientifica che potrebbe produrre una frattura radicale nell’ordine mondiale, rimettendo in questione gli equilibri internazionali contemporanei. Tutto questo anche in riferimento al fatto che l’Asia orientale, che include le regioni più popolate del mondo – i due terzi dell’umanità - rappresenta un vasto insieme demografico, estremamente diversificato dal punto di vista economico, culturale e politico.

di Eugenio Roscini Vitali

Sono quasi 120 i deputati somali che il giorno dopo l’insediamento del nuovo primo ministro, Mohamed Mohamud Guled, hanno chiesto l’incriminazione del presidente Abdullahi Yusuf: l’accusa è di violazione dell’articolo 14 della Carta transitoria ed ostacolo al processo di pace tra il Governo di Transizione Federale (TGF) e l’Unione delle Corti Islamiche (UIC), i tribunali locali che tra giugno e dicembre 2006 erano riusciti a dare al paese una parvenza di governabilità e stabilità politica. A far scattare la reazione dell’ala moderata del parlamento é stata l’inattesa estromissione del premier Nur “Adde” Hassan Hussein, personaggio politico di grande consenso che ha portato avanti gli accordi di Gibuti con l’ala moderata dell’ex governo islamico e ha posto le basi per un’intesa che avrebbe potuto mettere fine ad una ingovernabilità ormai ventennale.

di Michele Paris

Dopo il polverone suscitato dall’arresto del governatore dell’Illinois Rod Blagojevich, lo scorso 9 dicembre, il Congresso dello stato, come previsto, sta procedendo in questi giorni con la procedura di “impeachment” per rimuovere dal suo incarico un politico estremamente discusso e da anni al centro di svariate indagini giudiziarie. Come è noto, il 52enne ex deputato democratico è accusato di aver cercato di mettere all’asta il seggio al Senato degli Stati Uniti lasciato libero dal presidente eletto Barack Obama per ottenere un qualche beneficio di natura economica o, in alternativa, un incarico di prestigio per sé o per la propria signora. Nonostante il Partito Democratico controlli sia la Camera che il Senato dell’Illinois, nella capitale Springfield la proposta di istituire un’apposita commissione incaricata di raccogliere prove e testimonianze circa l’eventuale abuso di potere del governatore è stata approvata praticamente all’unanimità.

di Mariavittoria Orsolato

Sono ormai 10 giorni che la Grecia vive in una situazione di guerriglia urbana: cassonetti dati alle fiamme, saracinesche divelte, strade devastate. I danni ammontano a 200 milioni di Euro, solo ad Atene sono stati 335 i negozi danneggiati e sono già 400 le persone arrestate tra la penisola e le isole di Corfù, Creta e Rodi. Numeri che non paiono congrui di fronte ad un Paese che rientra nella civile e progressista Unione Europea ma che di fatto sono un campanello di allarme per una nazione che si è liberata dal giogo della dittatura solo 34 anni fa. In questi giorni abbiamo sentito e visto molto degli scontri che una parte della società civile greca ha ingaggiato contro i cosiddetti simboli del potere costituito (quindi polizia, banche, esercizi commerciali). Abbiamo saputo che la miccia scatenante di questo pandemonio è stata l’uccisione di un ragazzo di 15 anni (Alexis Grigoropulos) per mano di un poliziotto trentasettenne con la fama di “Rambo” (Epaminonda Korkoneas) nel quartiere Exarchia di Atene, lo storico quartiere del Politecnico e della sinistra intellettuale; poco però sappiamo di quelle che sono le concause di questa sollevazione popolare. Certo c’è lo spettro della crisi economica che incombe, ma dietro il vil denaro si nascondono risvolti politici e sociali di non poca importanza, ma andiamo per ordine.

di Stefania Pavone

E’ un sogno tinto di verde la Grande Palestina che balena dietro il tripudio di bandiere di Hamas: alte, nel cielo di Gaza, dilacerano per un attimo, un attimo soltanto, l’assedio di una città ridotta allo stremo. E’ un momento di festa: il partito islamico celebra i ventuno anni dalla propria nascita. La gente festeggia: come una piovra si riversa lucida, compatta, nelle strade della città, chiedendo, con la propria massiccia presenza, a chiare lettere, la fine dell’occupazione israeliana. E mentre si approfondiscono le linee programmatiche sul grande tema della sicurezza in uno Stato ebraico in piena campagna elettorale, l’ala dura di Kadima, con il Ministro degli Esteri Tpzi Livni, vuole la morte del governo di Hamas a Gaza e il laburista Barak, in vena di moderazione, chiede il mantenimento della tregua, Haniey, leader di Hamas, dal palco della manifestazione tuona: “Israele non rispetta gli accordi”.


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