di Carlo Benedetti

E’ ormai chiaro che con l’arrivo del 2009 uno dei due, prima o poi, dovrà mollare. Perché lo spazio “russo” postsovietico - che è ancora in preda alle convulsioni della troppo rapida e imprevista disgregazione dell’Urss - non può permettersi il lusso di avere al vertice due capi che si guardano a distanza copiando, di volta in volta, azioni e decisioni. La situazione è al limite della tollerabilità istituzionale, con situazioni a volte paradossali e ridicole che rivelano, tra l’altro, lotte concorrenziali tra le nomenklature che si sono formate al seguito dei due “capi”. Da un lato, infatti, c’è il “vecchio” Presidente Vladimir Putin (classe 1952) che ha dovuto mollare il Cremlino (dove si era insediato nel marzo 2000) per puri motivi di ordine costituzionale, ma mettendosi poi al sicuro sulla poltrona di primo ministro. Dall’altro c’è il suo successore, il neo presidente Dmitrij Medvedev (classe 1965), il giurista che si è fatto le ossa nelle strutture economiche del “Gasprom”.

di Stefania Pavone

“La tregua non serve”. Così la Livni ha risposto alla richiesta di tregua avanzata dalla Ue. Sembrava che quarantotto ore bastassero a evitare la catastrofe di Gaza quando Kouchner, nell’abito del vertice UE, aveva ammonito Barak sulla necessità di portare aiuti nella Striscia. Uno spiraglio s’era aperto: in serata, il Ministro della Difesa israeliano aveva annunciato la disponibilità ad un tregua di quarantotto ore. E invece niente. Israele ha respinto la proposta avanzata dalla Francia. Secondo la radio militare israeliana, questa decisione sarebbe emersa al termine di una lunga consultazione fra il premier Ehud Olmert, il Ministro degli Esteri Tzipi Livni e il Ministro della Difesa Ehud Barak. Ad inasprire la posizione di Israele sarebbero stati i continui lanci di razzi palestinesi contro la città di Beer Sheva, che avrebbero dimostrato come gli obiettivi dell’operazione”piombo fuso” non siano stati ancora raggiunti. Intanto Fawzi Barhum, un dirigente di Hamas a Gaza, in un comunicato alza il tiro e dichiara che posta vera nel gioco diplomatico internazionale dev’essere “ la fine dell’aggressione israeliana”.

di Fabrizio Casari

Cinquant’anni fa, mentre il mondo era intento a celebrare l’arrivo del nuovo anno, a Cuba fu anno nuovo per sempre. Barbudos si chiamavano, terroristi venivano definiti dal regime sanguinario che mordeva il cuore dell’isola; guerriglieri erano, liberatori furono. Quella casa da gioco a cielo aperto, postribolo di mafiosi e vergogna di un popolo, spirava i suoi ultimi respiri mentre il crepitare dei fucili annunciava il nuovo ordine che rimetteva gli uomini al comando delle cose. Il dio denaro soccombeva alla rivolta degli dei, gli esclusi diventavano protagonisti, i fucili si giravano e i sadici fuggivano mentre i giusti prendevano casa. Persino le bandiere ondeggiavano in senso opposto, il vento della dignità spirava dalla Sierra Maestra e soffiava forte verso Miami, restituendo l’immondizia al suo luogo d’origine. I grattacieli delle banche diventavano ospedali, le strade si trasformavano in residenze permanenti del popolo, le fabbriche si tingevano di lavoro degno e le ruote delle auto macinavano futuro. Fidel Castro, con Ernesto "Che” Guevara de la Serna e Camilo Cienfuegos, guidavano le colonne liberatrici che entravano nella capitale, di colpo divenuta una città cubana.

di Mariavittoria Orsolato

Come ogni anno, immancabile come il panettone o i botti napoletani, arriva l'eminentissima classifica di Newsweek sulla "Global Elite" (le maiuscole sono d'obbligo). Il prestigioso settimanale statunitense stila ogni dicembre una lista delle 50 personalità più influenti a livello globale, uomini e (poche) donne che nel corso dell'anno si sono distinti non tanto per particolari meriti filantropici, ma piuttosto per il peso specifico che hanno acquisito nel circo Barnum mediatico, politico e finanziario globale. La posizione raggiunta nel countdown non è indicativa del prestigio politico, scientifico, bellico o religioso, ma mira semplicemente a rispecchiare la peculiare capacità di questi individui di marcare indelebilmente il tempo in cui viviamo, di lasciare la cosiddetta “impronta”.

di Eugenio Roscini Vitali

Bloccare i razzi Qassam per far cadere il regime di Hamas e costringere il movimento islamico a lasciare la Striscia di Gaza nelle mani di Fatah e del presidente Abu Mazen: questi gli obiettivi di Israele che, dopo tre giorni di bombardamenti, dichiara l'area intorno a Gaza zona militare chiusa e parla ormai di “prima fase di una guerra totale ad Hamas ed ai suoi simili”. Che il fine ultimo dell’operazione “piombo fuso” sia quello di smantellare la struttura politico militare che attualmente governa la Striscia, lo conferma lo stesso vice-premier israeliano, Haim Ramon, che da Gerusalemme parla apertamente di immediata cessazione delle attività militari a patto che qualcuno prenda il posto di Hamas nella Striscia. In caso contrario, e qui a parlare è il vice Capo di stato maggiore delle Forze di Difesa, Dan Harel, il peggio potrebbe non essere ancora arrivato. A settantadue ore dall’inizio dell’attacco il bilancio, peraltro provvisorio, è di 325 morti e 1600 feriti; in base ai dati raccolti negli ospedali dal personale della United Nations Relief and Works Agency, tra le vittime ci sarebbero almeno 57 civili.


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